Summa Teologica - I-II |
Pare che le azioni degli altri non siano per noi causa di piacere.
1. La causa del piacere è il [ nostro ] proprio bene congiunto.
Ma le azioni degli altri non sono a noi congiunte.
Quindi non sono per noi causa di piacere.
2. L'operazione è un bene proprio di chi opera.
Se dunque le operazioni degli altri fossero per noi causa di piacere, per lo stesso motivo ci dovrebbero causare piacere tutti i beni altrui.
Il che evidentemente è falso.
3. Un'azione è piacevole in quanto promana da un abito a noi connaturato: per cui Aristotele [ Ethic. 2,3 ] scrive che « il segno che un abito è costituito è la sua capacità di rendere piacevole l'operazione ».
Ora, le azioni degli altri promanano da abiti presenti non in noi, ma in coloro che agiscono.
Quindi le azioni altrui non sono piacevoli per noi, ma per chi le compie.
Sta scritto [ 2 Gv 4 ]: « Mi sono molto rallegrato di aver trovato alcuni tuoi figli che camminano nella verità ».
Come si è detto sopra [ a. 1; q. 31, a. 1 ], per il godimento si richiedono due cose: il conseguimento del proprio bene e la conoscenza di tale conseguimento.
Quindi l'azione di un altro può essere in tre modi causa di piacere.
Primo, in quanto l'operazione altrui può farci conseguire un bene.
E sono così cause di godimento le operazioni di chi ci fa del bene: poiché è piacevole essere oggetto delle buone azioni di altri.
- Secondo, in quanto le azioni degli altri producono in noi una certa conoscenza o persuasione della nostra bontà.
E per questo gli uomini godono delle lodi e degli onori ricevuti da altri: dato che da ciò nasce la persuasione di possedere una data bontà.
E poiché tale persuasione viene generata maggiormente dalla testimonianza dei buoni e dei sapienti, gli uomini godono specialmente delle lodi e degli onori che ricevono da questi.
Siccome poi l'adulatore porge una lode apparente, ci sono alcuni che godono anche delle adulazioni.
E poiché l'amore ha per oggetto il bene, e l'ammirazione riguarda qualcosa di grande, è piacevole essere amati e ammirati: perché ciò ingenera la persuasione della propria bontà o grandezza, di cui uno si compiace.
- Terzo, in quanto le stesse azioni degli altri possono essere stimate, se buone, come un bene proprio, in forza dell'amore, il quale fa considerare l'amico una cosa sola con se stessi.
E così in forza dell'odio, che fa considerare contrario a se stessi il bene di un altro, diventa piacevole la cattiva azione del proprio nemico.
Per cui S. Paolo [ 1 Cor 13,6 ] dice che la carità « non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità ».
1. L'azione di un altro può essere a me congiunta o per l'effetto, come nel primo caso, o per la conoscenza, come nel secondo, o per l'affetto, come nel terzo.
2. Il ragionamento vale nel terzo caso, non nei primi due.
3. Le azioni degli altri, sebbene non promanino dai miei abiti operativi, tuttavia possono causare in me un qualche piacere; o possono generare in me la persuasione o la coscienza di un mio proprio abito; oppure possono derivare dall'abito di chi è tutt'uno con me a motivo dell'amore.
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