Summa Teologica - I-II |
Supra, q. 20, a. 5
Pare che la gravità di un peccato non dipenda dalla gravità del danno arrecato.
1. Il danno è un evento successivo all'atto del peccato.
Ma un evento successivo, come sopra [ q. 20, a. 5 ] si è detto, non aggiunge bontà o malizia a un atto.
Perciò un peccato non è più grave per un danno maggiore.
2. Il danno o nocumento si ha specialmente nei peccati contro il prossimo: poiché nessuno vuole nuocere a sé stesso, e d'altra parte, come insegna la Scrittura [ Gb 35,6.8 ], nessuno può nuocere a Dio: « Se pecchi, che gli fai? Su un uomo come te ricade la tua malizia ».
Se quindi il peccato si aggravasse col crescere del danno, ne seguirebbe che un peccato contro il prossimo sarebbe più grave di un peccato contro Dio, o contro se stessi.
3. È più grave il danno della privazione della grazia che quello della privazione della vita naturale: poiché la vita della grazia è tanto superiore a quella naturale che un uomo deve disprezzare quest'ultima per non perdere la prima.
Ora, chi induce una donna alla fornicazione, per parte sua la priva della vita della grazia, trattandosi di un peccato mortale.
Se quindi la gravità del peccato dipendesse dal danno, ne seguirebbe che un semplice fornicatore commetterebbe un peccato più grave dell'omicida: il che è falso in maniera evidente.
Perciò la gravità del peccato non si misura in base alla gravità del danno.
Scrive S. Agostino [ De lib. arb. 3,14.39 ]: « Essendo il vizio contrario alla natura, tanto più cresce la malvagità dei vizi quanto più essi diminuiscono l'integrità della natura ».
Ora, la minorazione dell'integrità della natura è un danno.
Quindi la gravità del peccato corrisponde a quella del danno.
Il danno può avere tre rapporti col peccato.
Talora infatti il danno che proviene dal peccato è previsto e cercato: quando p. es. uno agisce con l'intenzione di nuocere, come fanno l'omicida e il ladro.
E allora la gravità del danno incide direttamente sulla gravità del peccato: poiché in tal caso il danno è oggetto diretto del peccato.
Talora invece il danno è previsto, ma non cercato: quando uno, p. es., attraversando un campo per andare più lesto a fornicare, fa scientemente un danno al seminato, senza però l'intenzione di nuocere.
E anche in questo caso la gravità del danno aggrava il peccato, ma in modo indiretto: poiché il fatto che uno non si astenga dal provocare a se stesso o ad altri un danno che di per sé non vorrebbe, deriva da una volontà molto incline al peccato.
Talora, infine, il danno non è né previsto né cercato.
E in questo caso, se il danno ha un rapporto accidentale col peccato, non lo aggrava direttamente; tuttavia, per la negligenza nel considerare gli eventuali danni, il male preterintenzionale viene imputato a un uomo come pena, se l'azione da lui intrapresa è illecita.
- Se invece il danno consegue di per sé all'atto peccaminoso allora, anche se non è né voluto né previsto, esso aggrava direttamente il peccato: poiché tutti gli elementi che di per sé accompagnano il peccato appartengono in qualche modo alla specie stessa del peccato.
Se uno, p. es., commette una fornicazione pubblica, ne segue lo scandalo di molti; e questo fatto, sebbene egli non lo cerchi e forse neppure lo preveda, aggrava direttamente il suo peccato.
Diverso è invece il caso del danno penale nel quale incorre chi pecca.
Questo danno infatti, se è occasionale e non è né previsto né cercato, non aggrava il peccato, e neppure rivela una maggiore malizia: è il caso di chi, p. es., correndo per uccidere, inciampa e si ferisce un piede.
Se invece questo danno è legato direttamente all'atto del peccato, anche senza essere forse né previsto né cercato, allora col suo aggravarsi non rende più grave il peccato, ma piuttosto avviene il contrario, che cioè un peccato più grave produce un danno maggiore.
Come un infedele che ignora le pene dell'inferno soffrirà all'inferno una pena più grave per un peccato di omicidio che per un peccato di furto: poiché infatti non ha cercato o previsto la pena, ciò non incide sul peccato ( come capita invece per un cristiano, il quale mostra di peccare più gravemente in quanto disprezza le pene più gravi pur di sfogare la volontà di peccare ), ma la gravità di tale danno è prodotta unicamente dalla gravità del peccato.
1. Come si è spiegato [ q. 20, a. 5 ] trattando della moralità degli atti esterni, gli eventi successivi, se previsti e cercati, accrescono la bontà o la malizia dell'atto.
2. È vero che il danno aggrava il peccato, ma non è detto che il peccato sia aggravato dal solo danno; anzi, il peccato di per sé è più grave per il suo disordine, come si è già notato [ aa. 2,3 ].
Per cui anche lo stesso danno aggrava il peccato in quanto rende l'atto più disordinato.
Dal fatto quindi che il danno si ha specialmente nei peccati contro il prossimo non segue che questi peccati siano i più gravi: poiché nei peccati contro Dio, e in certi peccati contro se stessi, il disordine è molto maggiore.
- Ma si potrebbe anche rispondere che, sebbene nessuno possa nuocere a Dio in se stesso, può tuttavia attentare alle cose di Dio, p. es. estirpando la fede o violando le cose sacre, e commettere così dei peccati gravissimi.
E anche a se stesso uno può infliggere scientemente e volontariamente del danno, come è evidente nel caso dei suicidi: sebbene in definitiva essi cerchino nel suicidio un bene apparente, cioè la liberazione da una data angustia.
3. L'argomento addotto non vale per due motivi.
Primo, perché mentre l'omicida cerca direttamente il danno del prossimo, il fornicatore che seduce una donna non cerca il danno, ma il piacere.
- Secondo, perché mentre l'omicida è causa efficace e diretta della morte corporale, nessuno può essere invece direttamente la causa efficace della morte spirituale di un altro: poiché nessuno muore spiritualmente se non peccando di propria volontà.
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