Summa Teologica - I-II

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Articolo 9 - Se la condizione della persona contro la quale si pecca possa aggravare il peccato

II-II, q. 65, a. 4; III, q. 80, a. 5; In 1 Cor., c. 11, lect. 7

Pare che la condizione della persona contro la quale si pecca non possa aggravare il peccato.

Infatti:

1. Se così fosse, il peccato più grave sarebbe quello commesso contro un uomo giusto e santo.

Invece da ciò il peccato non viene ad aggravarsi: infatti per un'ingiuria subita riceve meno danno un uomo virtuoso, il quale la sopporta con pazienza, che non gli altri, i quali ne sono danneggiati anche interiormente, patendone scandalo.

Quindi la condizione della persona contro la quale si pecca non aggrava il peccato.

2. Se la condizione delle persone aggravasse il peccato, ciò avverrebbe specialmente per l'affinità: poiché, come afferma Cicerone [ Paradox. 3 ], « uccidendo uno schiavo si commette un peccato solo, mentre col parricidio se ne commettono molti ».

Ma l'affinità della persona contro cui si pecca non sembra aggravare il peccato: poiché sta il fatto che la massima affinità uno l'ha con se stesso, eppure pecca meno chi infligge un danno a se stesso che non chi lo infligge a un altro; p. es. è meno grave uccidere il proprio cavallo che quello di un altro, come risulta dal Filosofo [ Ethic. 5,11 ].

Quindi l'affinità della persona [ offesa ] non aggrava il peccato.

3. La condizione della persona che pecca aggrava il peccato specialmente per la sua dignità o per la sua scienza, in base al detto della Scrittura [ Sap 6,8 ]: « Sui potenti sovrasta un'indagine rigorosa »; e inoltre [ Lc 12,47 ] « il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse ».

Dunque, per lo stesso motivo, il peccato viene ad aggravarsi rispetto alla persona contro cui si pecca in proporzione della sua dignità o della sua scienza.

Ma non sembra che sia un peccato più grave fare del male a una persona più ricca o più potente piuttosto che a un povero: poiché « non c'è parzialità presso Dio » [ Rm 2,11; Col 3,25 ], secondo il cui giudizio va misurata la gravità del peccato.

Perciò la condizione della persona contro cui si pecca non aggrava il peccato.

In contrario:

Nella Sacra Scrittura [ 1 Re 19,14 ] viene rimproverato in modo speciale il peccato che viene commesso contro i servi di Dio: « Hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti ».

E un altro rimprovero speciale si ha per i peccati commessi contro le persone di casa [ Mi 7,6 ]: « Il figlio insulta il padre, la figlia si rivolta contro la madre ».

E anche in modo particolare per il peccato che viene commesso contro le persone costituite in dignità [ Gb 34,18 ]: « Lui che dice a un re: "Iniquo!" e ai principi: "Malvagi!" ».

Quindi la condizione della persona contro cui si pecca aggrava il peccato.

Dimostrazione:

La persona contro cui si pecca è in qualche modo l'oggetto del peccato.

Ora, sopra [ a. 3 ] si è spiegato che la prima gravità della colpa viene desunta dall'oggetto.

Quindi la gravità del peccato è tanto maggiore quanto più alto è il fine che costituisce il suo oggetto.

Ora, i fini principali degli atti umani sono: Dio, l'uomo stesso [ che agisce ] e il prossimo: poiché tutto quanto facciamo lo facciamo per qualcuno di questi tre soggetti; sebbene ci sia una subordinazione tra loro.

Di conseguenza possiamo considerare, in relazione a questi tre fini, la maggiore o minore gravità del peccato secondo la condizione della persona contro cui si pecca.

Prima di tutto in rapporto a Dio, al quale l'uomo è tanto più unito quanto più è virtuoso, o a lui più consacrato.

Perciò un'ingiustizia contro tali persone ricade su Dio stesso, come egli disse al Profeta Zaccaria [ Zc 2,8 Vg ]: « Chi vi tocca, tocca la pupilla dei miei occhi ».

Quindi il peccato si aggrava per il fatto che viene commesso contro una persona più unita a Dio, o per la sua virtù, o per l'ufficio che esercita.

È evidente, poi, che in rapporto a se stessi si pecca tanto più gravemente quanto più la persona oltraggiata è unita a noi o per vincoli naturali, o per benefici ricevuti, o per qualsiasi altro legame: poiché si pecca maggiormente contro se stessi, e quindi si pecca più gravemente, secondo il detto [ Sir 14,5 ]: « Chi è cattivo con se stesso, con chi si mostrerà buono? ».

Riguardo al prossimo, finalmente, il peccato è tanto più grave quanto più numerose sono le persone che esso riguarda.

E così il peccato che colpisce una persona pubblica che impersona tutto un popolo, sia essa re o principe, è più grave del peccato che viene commesso contro una persona privata; da cui il monito speciale della Scrittura [ Es 22,27 ]: « Non maledirai il principe del tuo popolo ».

Parimenti è più grave un'ingiuria commessa contro una persona celebre, per l'estensione dello scandalo e del turbamento che ne deriva.

Analisi delle obiezioni:

1. Chi fa ingiuria a un uomo virtuoso, per parte sua lo turba internamente ed esternamente.

Che poi questi non si turbi internamente dipende dalla sua bontà, la quale non sminuisce il peccato di chi lo ingiuria.

2. Il danno che uno infligge a se stesso in cose soggette al dominio della propria volontà, p. es. negli averi, è meno peccaminoso di quello inflitto a un altro: poiché lo fa di sua volontà.

Ma in cose che non sono soggette al proprio dominio, ossia nei beni naturali e spirituali, è un peccato più grave infliggere un danno a se stessi che agli altri: infatti chi uccide se stesso fa un peccato più grave di chi uccide un altro.

Ora, siccome gli averi del nostro prossimo non sono soggetti al dominio della nostra volontà, l'argomento non vale per sostenere che il danno arrecato a tali averi è un peccato minore; a meno che gli interessati non siano consenzienti o condiscendenti.

3. Dio non usa parzialità se punisce più gravemente chi pecca contro le persone più in vista: poiché ciò dipende dal danno arrecato a un maggior numero di persone.

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