Summa Teologica - II-II |
In 1 Polit., lect. 8
Pare che non sia lecito, nel commercio, vendere una cosa a più di quanto fu comprata.
1. Il Crisostomo [ Op. imp. in Mt hom. 38 ] afferma: « Chi compra una cosa per guadagnare nel rivenderla tale e quale, è uno di quei mercanti che viene cacciato dal tempio di Dio ».
E lo stessa cosa ripete Cassiodoro [ In Ps ] commentando quel detto del Salmo [ Sal 71,15 Vg ]: « Poiché io non conobbi le lettere », ossia « il commercio », secondo un'altra versione [ LXX ]: « Che cos'è il commercio se non comprare a poco per poi vendere a più caro prezzo? », e continua: « Questi commercianti il Signore li ha cacciati dal tempio ».
Ma nessuno viene cacciato dal tempio se non per un peccato.
Quindi tale commercio è un peccato.
2. Come sopra [ a. 1 ] si è dimostrato, è contro la giustizia sia vendere una cosa per più di quanto vale, sia comprarla a meno.
Ora, chi nel commercio vende una cosa a più del prezzo di compera, o l'ha comprata per meno di ciò che valeva, o la vende a più di ciò che vale.
Quindi non si può fare ciò senza peccato.
3. S. Girolamo [ Epist. 52 ] ha scritto: « Fuggi come la peste il chierico che fa il commerciante, che da povero è diventato ricco, e da umile potente ».
Ora, il commercio va proibito ai chierici a motivo del peccato.
Perciò nel commercio comprare a meno e vendere a più costituisce un peccato.
S. Agostino [ Enarr. in Ps. ] così commenta l'espressione del Salmo [ Sal 71,15 ]: « Poiché io non conobbi le lettere »: « Il commerciante avido di guadagno bestemmia nelle perdite, mente e spergiura sui prezzi.
Ma questi sono vizi dell'uomo, non del mestiere, il quale può essere esercitato senza di essi ».
Quindi il commerciare non è di per sé una cosa illecita.
È proprio dei commercianti dedicarsi agli scambi delle merci.
Ora, come nota il Filosofo [ Polit. 1,3 ], ci sono due tipi di scambi.
C'è uno scambio quasi naturale e necessario, in cui c'è la permuta tra merce e merce, oppure tra merce e danaro, per le necessità della vita.
E tale scambio propriamente non appartiene ai commercianti, ma piuttosto ai capi di famiglia e ai governanti, i quali hanno il compito di provvedere alla loro casa o al loro stato nelle cose necessarie alla vita.
Invece l'altra specie di scambio è tra danaro e danaro, o tra qualsiasi merce e danaro, non per provvedere alle necessità della vita, ma per ricavarne un guadagno.
E questo tipo di traffico è proprio dei commercianti.
Ora, secondo il Filosofo [ ib. ] il primo tipo di scambi è degno di lode: poiché soddisfa a una esigenza naturale.
Il secondo invece è giustamente vituperato: poiché di per sé soddisfa la cupidigia del guadagno, che non conosce limiti, e tende all'infinito.
Perciò, considerato in se stesso, il commercio ha una certa sconvenienza: inquantoché nella sua natura non implica un fine onesto o necessario.
Si deve notare però che il guadagno, il quale costituisce il fine del commercio, sebbene non implichi di per sé un elemento di onestà o di necessità, non implica tuttavia nella sua natura alcunché di peccaminoso o di immorale.
Perciò nulla impedisce di ordinare il guadagno a qualche fine necessario, o anche onesto.
E in questo caso il commercio è lecito.
Come quando uno ordina il modesto guadagno cercato nel commercio al sostentamento della propria famiglia, o a soccorrere i poveri; oppure quando uno si dedica al commercio per l'utilità pubblica, cioè perché nella sua patria non manchino le cose necessarie, e ha di mira il guadagno non come fine, ma come compenso del proprio lavoro.
1. Le parole del Crisostomo vanno applicate al commercio in quanto uno mette il suo fine nel guadagno, il che è evidente soprattutto quando si rivende una cosa tale e quale a un prezzo superiore.
S e infatti uno rivende la cosa a un prezzo superiore dopo averla trasformata, allora non fa altro che ricevere un premio del proprio lavoro.
- Sebbene si possa anche lecitamente perseguire il guadagno, non però come fine ultimo, ma per un altro fine necessario od onesto, come si è spiegato [ nel corpo ].
2. Non tutti quelli che rivendono a un prezzo superiore fanno del commercio, ma solo chi compra per rivendere a prezzi più alti.
Se uno invece compra una cosa non per rivenderla, ma per tenerla, e poi per una causa qualsiasi vuole rivenderla, non fa del commercio, sebbene la rivenda a un prezzo superiore.
Egli infatti può fare questo lecitamente: o perché vi ha apportato delle migliorie, o perché i prezzi cambiano secondo la diversità del luogo o del tempo, o anche per il pericolo al quale si espone nel trasportare o nel far trasportare la merce da un posto a un altro.
E in base a ciò né la compera né la vendita sono ingiuste.
3. I chierici non solo devono astenersi dalle cose che sono intrinsecamente cattive, ma anche da quelle che hanno l'apparenza del male.
E ciò si verifica nel commercio, sia perché esso è ordinato a un guadagno materiale, che i chierici devono disprezzare, sia per i molteplici vizi dei commercianti, poiché, come dice la Scrittura [ Sir 26,20 ]: « a stento un commerciante sarà esente da colpe ».
E c'è una seconda ragione: perché il commercio lega troppo l'animo alle cose secolaresche, e quindi lo distoglie da quelle spirituali.
Per cui l'Apostolo [ 2 Tm 2,4 ] ammonisce: « Nessuno quando presta servizio militare si intralcia nelle faccende della vita comune ».
- Ai chierici però è lecito il primo tipo di scambi, cioè quelli che sono ordinati, nella compravendita, alle necessità della vita.
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