Summa Teologica - II-II |
In 4 Ethic., lect. 11
Pare che la pusillanimità non sia un peccato.
1. Qualsiasi peccato rende cattivi, come ogni virtù rende buoni.
Invece, secondo il Filosofo [ Ethic. 4,3 ], « il pusillanime non è cattivo ».
Quindi la pusillanimità non è un peccato.
2. Il Filosofo [ ib. ] afferma che « è pusillanime chi, pur essendo degno di grandi beni, non se ne crede degno ».
Ora, solo il virtuoso è degno di grandi beni: poiché il Filosofo aggiunge che « si deve onorare secondo verità solo chi è buono ».
Quindi il pusillanime è virtuoso, e la pusillanimità non è un peccato.
3. « L'inizio di ogni peccato è la superbia », come dice la Scrittura [ Sir 10,15 Vg ].
Ma la pusillanimità non deriva dalla superbia: poiché il superbo si considera più di quello che è, mentre il pusillanime rinunzia a ciò di cui è degno.
Quindi la pusillanimità non è un peccato.
4. Il Filosofo [ l. cit. ] scrive che è pusillanime « chi si crede degno di cose minori di quelle che merita ».
Ma i Santi si sono creduti degni di cose inferiori ai loro meriti: come è evidente nel caso di Mosè e di Geremia, i quali erano degni dell'ufficio a cui erano chiamati dal Signore, e tuttavia lo rifiutarono, come si legge nella Scrittura [ Es 3,11; Ger 1,6 ].
Quindi la pusillanimità non è un peccato.
Nella vita morale non è da evitarsi se non il peccato.
Ora, S. Paolo [ Col 3,21 ] comanda di evitare la pusillanimità quando scrive: « Padri, non esasperate i vostri figli, perché non divengano pusillanimi ».
Quindi la pusillanimità è un peccato.
Tutto ciò che è contrario a un'inclinazione naturale è peccato, in quanto contrastante con la legge naturale.
Ora, ogni essere possiede l'inclinazione naturale a compiere azioni proporzionate alla propria capacità: come è evidente in tutti gli esseri corporei, sia animati che inanimati.
Ma come uno eccede la misura della propria capacità mediante la presunzione quanto tenta cose superiori alle proprie facoltà, così anche il pusillanime non raggiunge la misura della propria capacità quando rifiuta di tendere a cose a lui proporzionate.
Come quindi è un peccato la presunzione, così lo è pure la pusillanimità.
Per cui quel servo che per pusillanimità sotterrò il danaro del suo padrone senza trafficarlo fu punito dal padrone, come dice il Vangelo [ Mt 25,14ss; Lc 19,12ss ].
1. Il Filosofo chiama cattivi solo quelli che fanno del male al prossimo.
E in questo senso il pusillanime non è cattivo, poiché non fa del male se non indirettamente: cioè in quanto si astiene da quelle opere con le quali potrebbe giovare agli altri.
Dice infatti S. Gregorio [ Past. 1,5 ] che « quanti si rifiutano di giovare al prossimo con la predicazione, a tutto rigore sono responsabili di tutto il bene che avrebbero potuto arrecare alla comunità ».
2. Nulla impedisce che chi ha un abito virtuoso possa peccare: o venialmente, conservando l'abito della virtù, o mortalmente, con la perdita della virtù infusa.
Può quindi capitare che uno per la virtù che possiede sia capace di fare cose grandi e degne di un grande onore, ma non osando farne uso pecchi, o venialmente o mortalmente.
Si può anche rispondere che il pusillanime è degno di cose grandi per le sue disposizioni alla virtù, quali la buona complessione naturale, la scienza o i beni di fortuna; ma rifiutandosi di farne uso per la virtù, si rende pusillanime.
3. Anche la pusillanimità può in qualche modo derivare dalla superbia: quando cioè uno, basandosi troppo sul proprio parere, si reputa inadatto alle cose di cui è capace.
Da cui le parole dei Proverbi [ Pr 26,16 ]: « Il pigro si crede saggio più di sette persone che Rispondono con senno ».
Nulla infatti impedisce che da una parte si avvilisca, e dall'altra si inorgoglisca.
Per cui S. Gregorio [ Past. 1,7 ] afferma che Mosè « sarebbe stato superbo se avesse accettato di guidare il popolo senza trepidazione; e d'altra parte sarebbe stato superbo se avesse rifiutato di ubbidire al comando del Creatore ».
4. Mosè e Geremia furono degni dell'ufficio a cui erano stati chiamati da Dio, però con la grazia divina.
Essi tuttavia volevano rifiutarlo considerando l'insufficienza della propria debolezza; non però con ostinazione, per non sconfinare nella superbia.
Indice |