Summa Teologica - II-II |
Supra, q. 128; In Hebr., c. 10, lect. 4
Pare che la pazienza non sia una virtù.
1. Le virtù, secondo S. Agostino [ De Trin. 14,9.12 ], in cielo sono allo stato perfettissimo.
Ora, là non c'è la pazienza: poiché non c'è alcun male da sopportare, secondo le parole della Scrittura [ Is 49,10; Ap 7,16 ]: « Non soffriranno né fame né sete, e non li colpirà né l'arsura né il sole ».
Quindi la pazienza non è una virtù.
2. Nei cattivi non ci può essere alcuna virtù: poiché « la virtù rende buono chi la possiede » [ Ethic. 2,5 ].
Invece la pazienza talora si trova anche nei cattivi: p. es. negli avari, i quali sopportano con pazienza tanti malanni per accumulare ricchezze, secondo quelle parole [ Qo 5,16 ]: « Avrà passato tutti i suoi giorni nell'oscurità e nel pianto fra molti guai, malanni e crucci ».
Quindi la pazienza non è una virtù.
3. I frutti sono distinti dalle virtù, come sopra [ I-II, q. 70, a. 1, ad 3 ] si è dimostrato.
Ora, S. Paolo [ Gal 5,22 ] mette la pazienza tra i frutti.
Quindi la pazienza non è una virtù.
S. Agostino [ De pat. 1 ] ha scritto: « La virtù della pazienza è un dono di Dio così grande da essere elogiata come un attributo dello stesso donatore ».
Come sopra [ q. 123, a. 12 ] si è detto, le virtù morali sono ordinate al bene in quanto salvano il bene di ordine razionale dagli impulsi delle passioni.
Ora, fra le altre passioni la tristezza, o dolore, è particolarmente efficace nell'impedire il bene di ordine razionale.
S. Paolo [ 2 Cor 7,10 ] infatti scrive: « La tristezza del mondo produce la morte »; e altrove [ Sir 30,23 ] leggiamo: « La malinconia ha rovinato molti, da essa non si ricava nulla di buono ».
Perciò deve esserci una virtù che salvi il bene di ordine razionale dalla tristezza, impedendo alla ragione di soccombere.
Ma questo è il compito della pazienza.
Per cui S. Agostino [ De pat. 2 ] insegna che « la pazienza è la disposizione che ci fa sopportare i mali con animo sereno », cioè senza i turbamenti della tristezza, « e ci impedisce di abbandonare con l'animo scoraggiato quei beni che ci fanno raggiungere i beni più grandi ».
Perciò è evidente che la pazienza è una virtù.
1. Le virtù morali non rimangono in cielo con i medesimi atti esercitati nella vita presente, essendo questi rivolti ai beni terreni, che non sussistono più nella patria beata; esse rimangono però per la loro connessione con il fine raggiunto.
La giustizia, p. es., nella patria beata non si occuperà più di compravendite e di simili cose che riguardano la vita presente, ma consisterà nella sottomissione a Dio.
E così gli atti della pazienza non consisteranno nel sopportare qualcosa, ma nel godere di quei beni che volevamo raggiungere con la sopportazione.
Per cui S. Agostino [ De civ. Dei 14,9 ] afferma che « nella patria beata non ci sarà propriamente la pazienza, che non è richiesta dove non ci sono mali da sopportare, ma ci sarà il bene eterno che si raggiunge con la pazienza ».
2. Come dice S. Agostino [ De pat., cc. 2,5 ], « si dicono propriamente pazienti coloro che preferiscono sopportare il male senza commetterlo piuttosto che commetterlo per non volerlo sopportare.
In quelli invece che sopportano il male per fare del male non c'è da ammirare o da lodare la pazienza, che in essi non c'è, ma si deve riconoscere la durezza e negare la pazienza ».
3. Come sopra [ I-II, q. 11, a. 1; q. 70, a. 1 ] si è detto, i frutti implicano un certo gusto, o piacere, e d'altra parte, secondo Aristotele [ Ethic. 1,8 ] « gli atti delle virtù sono per se stessi piacevoli ».
Ora, si è presa l'abitudine di chiamare col nome delle virtù anche gli atti corrispondenti.
E così la pazienza come abito è una virtù, ma per il gusto che si prova nel suo esercizio è posta tra i frutti.
E specialmente in quanto la pazienza preserva l'animo dall'oppressione della tristezza.
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