Summa Teologica - II-II |
In 3 Ethic., lect. 22
Pare che la viltà sia un peccato più grave dell'intemperanza.
1. Un vizio è vituperevole perché è contrario al bene della virtù.
Ora, la viltà si contrappone alla fortezza, che è una virtù superiore alla temperanza, come sopra [ q. 123, a. 12; q. 141, a. 8 ] si è visto.
Quindi la viltà è un vizio più grave dell'intemperanza.
2. Quanto più difficile è la circostanza in cui uno soccombe, tanto meno uno è biasimato: per cui il Filosofo [ Ethic. 7,7 ] scrive che « se uno è vinto da forti ed eccezionali piaceri o tristezze non c'è da meravigliarsi, ma da compatirlo ».
Ora, è più difficile vincere i piaceri che le altre passioni: poiché secondo il Filosofo [ Ethic. 2,3 ] « è più difficile combattere il piacere che l'ira », che è più forte del timore.
Perciò l'intemperanza, che è vinta dal piacere, è un peccato meno grave della viltà, che si lascia vincere dal timore.
3. Il peccato è essenzialmente volontario.
Ma la viltà è più volontaria dell'intemperanza: nessuno infatti desidera di essere intemperante, mentre invece alcuni desiderano fuggire i pericoli di morte, il che è proprio della viltà.
Quindi la viltà è un peccato più grave dell'intemperanza.
Il Filosofo [ Ethic. 3,12 ] insegna che « l'intemperanza pare essere più volontaria della viltà ».
Quindi ha maggiormente natura di peccato.
Un peccato può essere confrontato con un altro sotto due aspetti:
primo, rispetto alla materia, ossia all'oggetto;
secondo, rispetto a colui che pecca.
Ora, dall'uno e dall'altro lato l'intemperanza è un peccato più grave della viltà.
Innanzi tutto rispetto alla materia.
Infatti la viltà fugge i pericoli di morte, a evitare i quali si è indotti dal bisogno estremo di conservare la vita.
Invece l'intemperanza ha per oggetto i piaceri, la cui brama non è così necessaria per la conservazione della vita: poiché, come si è detto [ a. 2, ad 2 ], l'intemperanza riguarda più certi piaceri o desideri « annessi » che i desideri o i piaceri naturali.
Ora, quanto più ciò che spinge a peccare è naturale, tanto più il peccato è leggero.
Perciò l'intemperanza dal lato dell'oggetto, o della materia, è un peccato più grave della viltà.
E lo stesso si dica dal lato di colui che pecca.
E ciò per tre ragioni.
Primo, perché uno pecca tanto più gravemente quanto più è padrone di sé: per cui ai pazzi i delitti non vengono imputati.
Ora i timori e i dolori gravi, e specialmente i pericoli di morte, sconvolgono la mente.
Il che invece non accade con il piacere, che spinge all'intemperanza.
Secondo, perché quanto più un peccato è volontario, tanto più è grave.
Ora, l'intemperanza è più volontaria della viltà.
E ciò per due motivi.
Primo, perché le cose fatte per paura hanno la loro causa in un fattore esterno che minaccia: per cui tali atti, come dice Aristotele [ Ethic. 3,1 ], non sono del tutto volontari, ma frammisti [ di involontarietà ].
Invece le cose che si fanno per il piacere sono volontarie in senso assoluto.
- Secondo, perché gli atti dell'intemperante sono più volontari riguardo al particolare, e meno volontari in universale: nessuno infatti vorrebbe essere intemperante, tuttavia ci si lascia attrarre dai singoli piaceri che rendono intemperanti.
Per cui il rimedio migliore per fuggire l'intemperanza sta nel non fermarsi a considerare il singolare.
Invece nella viltà avviene il contrario.
Infatti i gesti singoli e improvvisi sono meno volontari, come il gettare lo scudo e altre cose del genere, mentre è più volontario l'atteggiamento generale, cioè il volersi salvare con la fuga.
Ora, puramente e semplicemente, è più volontario ciò che è più volontario sul piano dei singolari, dove l'atto si produce.
Perciò l'intemperanza, essendo puramente e semplicemente più volontaria della viltà, è un peccato più grave.
Terzo, poiché contro l'intemperanza il rimedio è più facile che contro la viltà: infatti i piaceri della gola e quelli venerei, che sono oggetto dell'intemperanza, si presentano durante tutta la vita, e l'uomo può esercitarsi a resistervi senza pericolo, per acquistare la temperanza; invece i pericoli di morte capitano di rado, ed è rischioso esercitarsi in essi per fuggire la viltà.
Dunque l'intemperanza, assolutamente parlando, è un peccato più grave della viltà.
1. La superiorità della fortezza sulla temperanza può essere considerata da due punti di vista.
Primo, dal punto di vista del fine, che riguarda la bontà di una cosa: la fortezza infatti è più ordinata al bene comune di quanto lo sia la temperanza.
E da questo lato la viltà ha una certa superiorità sull'intemperanza: poiché per viltà alcuni tralasciano di difendere il bene comune.
- Secondo, dal punto di vista della obiezioni: è infatti più difficile affrontare i pericoli di morte che astenersi da qualsiasi piacere.
Ma da ciò non segue che la viltà sia più grave dell'intemperanza.
Come infatti è indice di una virtù superiore il non lasciarsi vincere da obiezioni più forti, così al contrario è un peccato meno grave lasciarsi vincere da una obiezioni maggiore, ed è un peccato più rilevante lasciarsi vincere da obiezioni più leggere.
2. L'attaccamento alla vita, per il quale si evitano i pericoli di morte, è molto più connaturale di tutti i piaceri della gola o venerei, che sono ordinati alla conservazione della vita.
È quindi più difficile vincere il timore dei pericoli di morte che il desiderio di tali piaceri.
A questi però è più difficile resistere che non all'ira, alla tristezza e al timore di altri mali.
3. Nella viltà l'atto è più volontario se è considerato nella sua universalità, ma è meno volontario nel particolare concreto.
Perciò essa è più volontaria sotto un certo aspetto, ma non puramente e semplicemente.
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