Summa Teologica - II-II |
Infra, q. 187, a. 6; Quodl., 10, q. 6, a. 3; In Matth., c. 11; In 1 Tim., c. 2, lect. 2
Pare che l'abbigliamento non possa essere oggetto di virtù o di vizio.
1. L'abbigliamento esterno non è in noi dalla natura: per cui cambia secondo la diversità dei tempi e dei luoghi.
Così S. Agostino [ De doctr. christ. 3,12.19 ] scrive che « presso gli antichi romani era un delitto portare tuniche lunghe e provviste di maniche, mentre adesso per le persone rispettabili è un delitto non portarle ».
Invece, secondo il Filosofo [ Ethic. 2,1 ], « è per natura che abbiamo l'inclinazione alle virtù ».
Quindi l'abbigliamento non è oggetto di virtù, o di vizio.
2. Se l'abbigliamento esterno potesse essere oggetto di virtù o di vizio, dovrebbe essere peccaminoso nell'abbigliarsi sia l'eccesso che il difetto.
Ma eccedere non pare peccaminoso: poiché anche i sacerdoti e i ministri dell'altare nel sacro ministero usano vesti preziosissime.
Parimenti non è peccaminoso il difetto, poiché dalla Scrittura [ Eb 11,37 ] si dice a lode di alcuni santi che « andarono in giro in pelli di capra ».
Perciò queste cose non possono essere oggetto di virtù o di vizio.
3. Una virtù è o teologale, o morale, o intellettuale.
Ora, l'abbigliamento non è oggetto di una virtù intellettuale, poiché questa consiste nella conoscenza della verità.
Così pure non è oggetto di una virtù teologale, che ha per oggetto Dio.
E neppure è oggetto di qualcuna delle virtù morali ricordate dal Filosofo [ Ethic. 2,7 ].
Perciò l'abbigliamento non può essere oggetto di virtù o di vizio.
L'onestà è propria della virtù.
Ora, nell'abbigliamento esterno si può riscontrare una certa onestà, come si rileva dalle parole di S. Ambrogio [ De off. 1,19 ]: « L'abbigliamento del corpo non sia affettato, ma naturale; semplice, e più trascurato che ricercato; non corredato di vesti preziose e sgargianti, ma ordinarie: sicché non manchi nulla all'onestà e alla necessità, e nulla venga aggiunto alla bellezza ».
Quindi l'abbigliamento esterno può essere oggetto di virtù o di vizio.
Nelle cose esterne concesse all'uso dell'uomo non ci può essere alcun peccato: ci può essere invece nell'uomo che ne abusa.
E questo abuso può verificarsi in due modi.
Primo, in rapporto alle usanze delle persone con cui si vive.
Per cui S. Agostino [ Conf. 3,8 ] scrive: « Le mancanze che sono contrarie al costume degli uomini vanno schivate, avendo riguardo alla diversità dei costumi, in modo che il patto, firmato per consuetudine o per legge fra i membri di una città e di un popolo, non sia violato dal capriccio di alcun cittadino o forestiero.
È turpe infatti ogni parte che non si accorda col suo tutto ».
Secondo, l'abuso può dipendere dagli affetti disordinati di chi si serve delle cose; e da ciò talora dipende che si faccia uso dell'abbigliamento in modo troppo passionale, sia rispetto alle usanze del proprio ambiente, sia prescindendo da queste.
Da cui l'ammonimento di S. Agostino [ De doctr. christ. 3,12.19 ]: « Nell'uso delle cose deve essere bandita la passione disordinata, che non solo abusa delle usanze vigenti nell'ambiente in cui si vive, ma spesso, varcando quei limiti, mostra la sua bruttura, che era nascosta dietro il recinto delle usanze venerabili, con le più disoneste sortite ».
Ora, questo disordine affettivo può verificarsi per eccesso in tre modi.
Primo, perché si cerca la gloria mediante la cura eccessiva delle proprie vesti: in quanto il vestito e l'abbigliamento fanno parte del decoro personale.
Da cui le parole di S. Gregorio [ In Evang. hom. 40 ]: « Ci sono alcuni i quali pensano che non sia un peccato la ricerca di vesti fini e preziose.
Ma se non fosse un peccato la parola di Dio non avrebbe precisato con tanta cura che il ricco condannato alle pene dell'inferno prima si vestiva di bisso e di porpora.
No, non si usano vesti preziose, superiori alla propria condizione, se non per vanagloria ».
- Secondo, perché mediante la cura eccessiva delle vesti si cerca un piacere raffinato, in quanto le vesti blandiscono il corpo.
- Terzo, perché si ha troppa sollecitudine per il vestito, anche se uno non si propone un fine cattivo.
A questi tre disordini Andronico [ De affect. ] contrappone tre virtù rispetto all'abbigliamento.
« L'umiltà », che esclude la vanagloria, essendo essa a suo dire « un abito che non esagera nelle spese e nell'abbigliamento ».
- « L'accontentarsi di poco », che esclude la ricerca dei piaceri raffinati, e che a suo dire « è l'abito che si accontenta del necessario, tendendo a stabilire i mezzi convenienti alla vita » ( e ciò secondo l'ammonimento dell'Apostolo [ 1 Tm 6,8 ]: « Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci di questo » ).
- « La semplicità », che esclude l'eccessiva sollecitudine per l'abbigliamento, e che a suo dire « è l'abito di accontentarsi di ciò che capita ».
Parimenti un disordine affettivo in questo campo può prodursi per difetto in due modi.
Primo, per negligenza, quando uno trascura l'attenzione e la fatica di acconciarsi come è richiesto.
Per cui il Filosofo [ Ethic. 7,7 ] attribuisce all'indolenza « il trascinare a terra la veste per non faticare a tenerla sollevata ».
- Secondo, per il fatto che con la stessa negligenza nell'abbigliamento si cerca la vanagloria.
S. Agostino [ De serm. Dom. in monte 2,12.41 ] infatti fa notare che « ci può essere ostentazione non soltanto nella bellezza e nel lusso, ma anche nelle vesti cenciose e di lutto: e questa è tanto più pericolosa quanto più mira a ingannare col pretesto della religione ».
E il Filosofo [ Ethic. 4,7 ] afferma che sia l'eccesso che il difetto rientrano nell'ostentazione.
1. Sebbene l'abbigliamento esterno non sia dalla natura, tuttavia spetta alla ragione naturale curarlo con moderazione.
E così « per natura siamo predisposti a questa virtù », che regola l'abbigliamento esterno.
2. Le persone costituite in dignità e i ministri dell'altare vestono indumenti più preziosi degli altri non per vanagloria, ma per indicare l'eccellenza del loro ufficio, o del culto divino.
« Chiunque usa le cose esterne », dice infatti S. Agostino [ De doctr. christ. 3,12.19 ], « passando i limiti consueti accettati dalle persone virtuose tra le quali convive, o vuole indicare qualcosa o commette un peccato »: servendosi cioè di tali cose o per piacere o per vanità.
E così pure si può peccare per difetto: però non è detto che chi usa vesti più vili degli altri commetta sempre un peccato.
Poiché se lo fa per ostentazione o per superbia, per essere stimato superiore agli altri, si ha un peccato di superstizione, ma se lo fa per macerare il corpo e umiliare lo spirito, allora si ha un atto della virtù della temperanza.
« Chiunque fa uso delle realtà esteriori », scrive dunque S. Agostino [ De doctr. christ. 3,12.19 ], « con una parsimonia più rigida di quella in uso tra le persone in mezzo alle quali egli vive, o è temperante o è superstizioso ».
- L'uso però delle vesti più vili conviene soprattutto a coloro che predicano agli altri la penitenza con l'esempio e con la parola, come i profeti di cui parla l'Apostolo nel testo citato.
« Chi predica la penitenza », dice infatti una Glossa [ ord. su Mt 3,4 ], « deve presentarsi con l'abito della penitenza ».
3. L'abbigliamento esterno è un indizio della condizione personale.
Quindi l'eccesso, il difetto e il giusto mezzo in questa materia si possono ridurre alla virtù della veracità, che secondo il Filosofo [ Ethic. 4,7 ] ha per oggetto i fatti e le parole che esprimono lo stato di un individuo.
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