Summa Teologica - III

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Articolo 9 - Se la penitenza debba essere continua

In 4 Sent., d. 14, q. 1, a. 4, sol. 2; d. 17, q. 2, a. 4, sol. 2

Pare che la penitenza non debba essere continua.

Infatti:

1. In Geremia [ Ger 31,16 ] si legge: « Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime ».

Ma ciò è impossibile se la penitenza è continua, consistendo essa nel pianto e nelle lacrime.

Quindi la penitenza non può avere continuità.

2. L'uomo deve godere di ogni opera buona, secondo l'esortazione del Salmo [ Sal 100,2 ]: « Servite il Signore nella gioia ».

Ma fare penitenza è un'opera buona.

Quindi si deve godere di essa.

D'altra parte però, come spiega Aristotele [ Ethic. 9,4 ], « uno non può insieme addolorarsi e godere ».

Pare quindi impossibile che il penitente si addolori dei peccati commessi, come esige la nozione di penitenza.

3. L'Apostolo esorta i Corinzi [ 2 Cor 2,7 ] a « consolare » il penitente, « perché egli non soccomba sotto un dolore troppo forte ».

Ora, la consolazione scaccia la tristezza, che è nella natura della penitenza.

Quindi la penitenza non può essere continua.

In contrario:

S. Agostino [ De vera et falsa poenit. 13 ] ammonisce: « Nella penitenza ci sia la continuità del dolore ».

Dimostrazione:

Si può fare penitenza in modo attuale e in modo abituale.

In modo attuale è certamente impossibile che l'uomo faccia penitenza di continuo, poiché l'atto del penitente, sia interno che esterno, deve necessariamente essere interrotto almeno dal sonno e dalle altre necessità corporali.

L'altro modo di fare penitenza è quello abituale.

E in questo senso la penitenza deve essere continua: sia perché uno non deve mai fare un atto contrario alla penitenza, sopprimendo così la sua disposizione abituale di penitente, sia perché deve avere il proposito di rammaricarsi sempre dei peccati commessi.

Analisi delle obiezioni:

1. Il pianto e le lacrime sono atti della penitenza esterna, i quali non solo non devono essere continui, ma neppure devono durare fino al termine della vita, come si è visto [ a. 8 ].

Per cui di proposito il testo prosegue dicendo: « perché c'è una ricompensa della tua opera ».

Ora, la ricompensa dell'opera del penitente è la piena remissione dei peccati, sia quanto alla colpa che quanto alla pena: una volta raggiunta la quale non è necessario che uno insista nella penitenza esterna.

Ciò non esclude però la continuità di quella penitenza di cui abbiamo parlato [ nel corpo ].

2. Del dolore e della gioia possiamo parlare in due sensi diversi.

Primo, in quanto sono passioni dell'appetito sensitivo.

E in questo senso non possono mai trovarsi insieme, poiché sono del tutto incompatibili: o dalla parte dell'oggetto, p. es. quando riguardano la stessa cosa, o almeno dalla parte del moto del cuore: la gioia infatti è accompagnata dalla dilatazione del cuore, la tristezza invece dal suo restringimento.

Ed è in questo senso che parla il Filosofo nel testo citato.

Secondo, possiamo parlare della gioia e del dolore in quanto si limitano al semplice atto della volontà, a cui qualcosa piace o dispiace.

E in questo senso non possono avere contrarietà se non dalla parte dell'oggetto, p. es. in rapporto alla stessa cosa e sotto il medesimo aspetto.

Ora, da questo lato non è possibile la coesistenza della gioia e del dolore: poiché la stessa cosa sotto il medesimo aspetto non può contemporaneamente piacere e dispiacere.

Se però la gioia e il dolore così considerati riguardano non la stessa cosa sotto il medesimo aspetto, ma cose diverse, oppure la stessa cosa sotto aspetti diversi, allora non c'è incompatibilità tra la gioia e il dolore.

Quindi nulla impedisce che uno insieme goda e si addolori: se vediamo, p. es. , che una persona onesta viene perseguitata, proviamo piacere della sua onestà e dispiacere della sua tribolazione.

Ora, allo stesso modo uno può provare dispiacere di avere peccato e insieme rallegrarsi di questo dispiacere, a cui si accompagna la speranza del perdono, per cui il dolore stesso diventa oggetto di gioia.

Da cui l'esortazione di S. Agostino [ l. cit. ]: « Il penitente sempre si dolga, e goda del suo dolore ».

- Del resto, anche se la tristezza o dolore non fosse compatibile in alcun modo con la gioia, quest'ultima eliminerebbe la continuità della penitenza attuale, non di quella abituale.

3. La virtù, come spiega il Filosofo [ Ethic. 2,6 ], ha il compito di tenere il giusto mezzo nelle passioni.

Ora la tristezza, che nell'appetito sensitivo accompagna il dispiacere della volontà, è una passione.

Quindi va moderata secondo la virtù, e il suo eccesso è un vizio, poiché porta alla disperazione.

Alla qual cosa accenna l'Apostolo, in quel testo, con le parole: « perché egli non soccomba sotto un dolore troppo forte ».

Perciò la consolazione di cui parla l'Apostolo modera la tristezza, o dolore, ma non la elimina totalmente.

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