La passione e la gioia della salvezza |
B306-A3
Riflessione sulla Sindone
Una lettura teologica del mistero che si cela in questo evento ( parte prima )
- Mons. Giuseppe Pollano -
Testo tratto dalla registrazione di una conferenza tenuta l'8 Aprile 2000 presso la sezione di Torino dell'AMCI,1 non rivista dall'Autore.
È innegabile che l'immagine sindonica rappresenti in maniera impressionantemente esatta il racconto evangelico: ne proponiamo una lettura teologica.
Che cosa s'intende con lettura teologica?
La lettura è quella operazione per cui da un segno qualsiasi faccio emergere un significato.
Un segno alfabetico di un linguaggio che io non conosco per me non significa nulla, è uno sgorbio; se invece ne possiedo l'interpretazione, arrivo al significato.
Anche la lettura teologica fa emergere da un segno un significato che nessun'altra lettura fa emergere, perché aggiunge un elemento nell'interpretazione, che è il pensiero di Dio.
Così per il credente il cosmo significa un'ulteriorità, il Dio che c'è e che l'ha creato, mentre per il non credente il cosmo è l'unica realtà possibile e pertanto non rimanda a nessun altro.
Il pensiero teologico dunque guarda le stesse realtà che guardiamo tutti, ma con questo criterio in più: come le legge Dio, come le dice Dio; ed è evidente che il pensiero teologico abbraccia tutta la realtà, il senso dell'essere o del non essere, della vita e della morte dell'uomo.
La fede è precisamente il modo pratico di interpretare secondo il pensiero di Dio fatti e avvenimenti che altrimenti interpreteremmo soltanto secondo le nostre possibilità cognitive.
Sotto questo profilo, l'uomo crocifisso di cui stiamo parlando, sarebbe uno sgorbio senza l'interpretazione teologica, non avrebbe cioè alcun significato, o meglio avrebbe l'ovvio significato di un uomo di una certa epoca, torturato in quella certa maniera, ma non avrebbe nessun significato in più.
Invece il pensiero di Dio contenuto nella Bibbia punta l'attenzione precisamente su questo segno e gli dà un significato estremamente più ricco: mentre i due uomini crocifissi di fianco a lui non hanno altro significato che quello di essere dei malfattori condannati e crocifissi, l'uomo crocifisso della Sindone è interpretabile in maniera nuova, non solo come lo vedono gli occhi, ed è una lettura patetica, o come lo può considerare la ragione, ma al di là di questo come la fede lo contempla secondo il contesto della Parola.
Il pensiero di Dio, come Dio pensa le cose, come le vede e ce le svela, nella Bibbia si chiama intraducibilmente il "Logos", la profonda intellettualità di Dio, che è Dio stesso e che dà significato a tutto.
I nostri significati sono approssimazioni al significato di fondo, che però non ci appartiene, appartiene al Logos: se il Logos ce lo comunica, allora siamo illuminati dal suo modo di vedere e capiamo le cose meglio.
Ora, il Logos è quell'uomo apparso nella storia ( Gv 1,14 ) che si chiamò e fu Gesù di Nazaret.
Quando egli dice "Io Sono", quando cioè si definisce come trascendente sulle nostre misure, la fede riconosce il Messia, riconosce cristologicamente Gesù.
Il crocifisso è dunque un segno, non è più uno sgorbio, cioè una cosa che tutto sommato sarebbe meglio che non ci fosse perché è brutta da vedere, da vivere ed è assurda.
Come segno, che cosa ha fatto essere nella storia quest'uomo crocifisso?
Vi ricordo alcuni elementi di decifrazione che sono nella loro composizione l'ermeneutica, l'interpretazione del crocifisso.
Sicuramente il primo elemento è l'amore.
Gesù si è sempre dichiarato colui che portava e svelava l'amore ed ha agito sempre nella dimensione dell'amore.
In ogni caso, l'amore ha la caratteristica di essere un'esperienza - non un concetto - , forte e probabilmente la più forte, e di essere felicità, in modo che noi quando amiamo, e soltanto se amiamo, siamo spinti a insistere nella vita.
Tanto come l'infelicità ci stacca dalla vita, ci aliena, ci dissuade, ci toglie la voglia di vivere, così invece l'amore intensifica la voglia di vivere, fissa la vita e dà per scontato che una vita così è bene che ci sia sempre.
La caratteristica dell'amore, oltre al fatto che la mia vita cresce in forza e in convinzione, è che risolve l'alterità - il fatto che siamo altri e possiamo essere alieni - in un "noi", in una comunione che è proprio la ragione di quella felicità.
Anche questa è un'esperienza di carattere terreno, umano: questo "noi" può essere duale, può essere comunitario, può essere di mille dimensioni.
Gesù ha precisamente percorso questa strada: da un lato egli ha affermato in maniera perentoria la sua soggettività, con espressioni che hanno scandalizzato coloro che lo sentivano perché trascendevano la logica dello spazio e del tempo.
Ha asserito per esempio: "Se non credete che Io Sono, voi non vi salvate" ( Gv 8,58 ); questo "Io Sono" descrive la soggettività divina di Cristo, è il Verbo che parla.
Ma se Gesù avesse detto soltanto "Io Sono", avrebbe giustificato una religione monoteistica del Dio assoluto e solitario, quella della metafisica.
Gesù ha anche detto: "Io e il Padre siamo uno" ( Gv 10,30 ), dove "uno" implica una valenza personalistica.
Io e il Padre, che siamo due, inconfondibili, siamo però uno.
Qui sfociamo in un mistero che noi chiamiamo la Trinità di Dio, la comunione, che è agape, che è bella.
Questo poter essere un noi, fatto di due che diventano uno, è l'ebbrezza tipica dell'amore, dove finiscono i confini interpersonali, dove si crea un'estasi interiore, rara in questo mondo; ma quando c'è rapisce, ed è invece normale per Dio.
Gesù rivela la sua condizione felice di essere uno e uno solo col Padre, la chiede al Padre anche per noi, che siamo frammenti, che siamo ostili, che siamo staccati e solitari: "Ti chiedo che anch'essi siano in noi uno" ( Gv 17,21 ).
Chiamiamo beatitudine questa esperienza, l'ebbrezza di una comunione totale, perché respiriamo Dio e veniamo di lì.
Gesù si è saputo e si è sentito sempre "amatissimo" dal Padre ( Lc 3,22; Mt 17,5 ) e d'altra parte ha giustificato la sua passione e morte così: "Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre" ( Gv 14,31 ).
Di per sé l'amore non sopporta lontananza, questo l'abbiamo imparato fin da bambini - "Mamma dove sei?" - e ancor meno rottura; è una sventura la rottura di un amore, umanamente è quel che ci fa soffrire di più.
La legge dell'amore è l'inseparabilità.
In Rm 8,35-39 abbiamo alcune espressioni bellissime di Paolo : "Chi mi separerà dall'amore?"; e poi cita tutte le categorie più terrificanti: la morte, il dolore ecc.: no, nulla, nulla mi separerà, la legge dell'amore è l'inseparabilità.
Dunque, vedendo quell'uomo in croce non guardo solo il dolore, e non mi lascio solo traversare da un'immensa commozione, ma vedo l'icona, l'immagine di un amore vissuto oltre le mie immaginazioni.
Nella croce vedo un amore che ha intrapreso un'opera di ri-unificazione, perché Gesù non è venuto in questo mondo da solo a trattare col Padre, è venuto nostro fratello in mezzo a noi e ci ha trovati nella condizione antropologico-storica in cui noi siamo, cioè alienati da Dio.
Alcuni elementi hanno costruito la nostra alienazione da Dio amato e dalla sua comunione:
a) La divagazione da Dio, che è una caratteristica culturale permanente, e anche la sostituzione di Dio amato con qualcun altro.
Anche nella piccola vita di ogni battezzato che cresce, bambino, preadolescente, adolescente e giovane noi leggiamo questa storia, il divagarsi da Dio e il sostituire Dio con altri.
Ci è talmente abituale, che se noi troviamo un giovane che invece ha coltivato in sé l'unione con Dio in modo coerente, lo consideriamo un fenomeno, oggi come oggi; pur tuttavia la divagazione è una categoria patologica.
b) Distacco, fuga e finzione rispetto a Dio.
Gesù ci ha trovati in stato di notevole distacco da Dio, anche i suoi religiosissimi vicini erano in distacco in realtà, non l'hanno riconosciuto; è una fuga più o meno mascherata, e anche una finzione rispetto a Dio.
In Gen 3,8-10, il mito sapienziale del peccato dice proprio questo:
- "Dove sei?"
- "Mi ero nascosto"
- "Perché ti eri nascosto?"
- "Ho avuto paura"
- "Perché hai avuto paura?"
- "Perché sono nudo e mi vergogno".
E tutto questo simbolicamente significa che l'uomo ha perso la sua profonda dignità, è in stato di inferiorità e arrossisce di sé, non è più giusto con se stesso.
Ancora Gesù ha trovato uno stato di notevolissima autonomia dell'uomo: "Mi faccio da me", situazione che direi abbastanza ordinaria nelle nostre culture.
Nessuna intesa progettuale con Dio:
- "Vuoi costruire con me la tua vita?
- Assolutamente no, me la costruisco da solo";
l'Alleanza, il progetto offerto in modo crescente, l'abbiamo gradualmente sfregiata, lasciata là, con l'infedeltà e la disobbedienza ( Rm 5,19 ).
In occidente da alcuni secoli si vive "come se Dio non ci fosse".
c) "raffreddamento dell'amore" ( Mt 24,12 ).
Questa può essere la storia di un matrimonio andato male, perché la storia dell'amore è sempre quella.
Qui però l'Altro è Dio, quindi il partner Assoluto, e non è un caso che la storia di Israele sia una storia sponsale, non è un caso che Cristo sia sposo della Chiesa.
Ci siamo allontanati fino a reinterpretare negativamente Dio.
Che cosa me ne faccio di questo Dio da cui mi sono distratto, di cui in fondo non m'importa gran che, che cosa ne faccio di questo nome?
E c'è una serie di allontanamenti progressivi.
Comincio col dire che Dio è inutile - è stato definito l' "essere superfluo", è vero, in certe civiltà.
Che ce ne facciamo di Dio, o, economicamente parlando, di un Dio inutile, non traducibile in profitto?
Un Dio inutile mi lascia indifferente, ecco l'indifferenza verso Dio; poi però si passa a un giudizio su Dio: se tu ci fossi … - nasce di qui l'ateismo di critica - e infine la rivolta contro Dio.
Sono una serie di atteggiamenti che troviamo mescolati nella vita di una persona o nella vita di una civiltà.
Allora, trovandosi in questo clima culturale, il Figlio, il quale vive d'amore e vive dunque di una comunione assolutamente infrangibile, che cosa fa?
É un ambiente invivibile per lui, assolutamente inconcepibile vivere così rispetto a Dio di cui egli è Figlio.
La sua reazione però non è: "qui non si respira, me ne vado", ma: "riunirò questi miei fratelli al Padre": il progetto quindi è un progetto ricostruttivo.
Viene come uomo pervaso dell'amore originale ( "come in cielo così in terra" ( Mt 6,10 ) diciamo nel Padre nostro, come si ama lassù ) e "abbatte il muro di separazione … distruggendo in sé l'inimicizia" ( Ef 2,14-16 ) che l'umanità ha nel frattempo maturato verso Dio: indifferenza, critica, ostilità contro Dio.
Questo è un muro che non ha eretto Dio, ma la nostra libertà: allora Cristo affronta il muro e lo abbatte per rifare comunione.
Ma come si fa?
Tutte le volte che avete avuto difficoltà a rifare pace con qualcuno perché c'era dell'ostilità di mezzo avete fatto questa - per noi spesso insuperabile - esperienza.
Come si fa?
C'è una sola maniera, è il ponte d'amore nuovo.
Bisogna di nuovo amare: soltanto l'amore rifarà di noi due, che siamo lontanissime monadi, un noi.
Ma chi è capace d'amare così Dio?
Chiaramente nessuno; solo Gesù è capace perché ora egli è un uomo come me che porta però in sé l'amore di prima, l'amore di sempre; ecco che quest'uomo intriso d'amore, fatto d'amore, intraprende l'impresa di riunificarci.
Essere "giusti" significa "rendere a Dio ciò che è di Dio" ( Mt 22,21 ): che cosa devo darti, o Dio che sei agape?
La risposta è chiara: dammi l'agape, dammi l'amore; non darmi altre cose, né oggetti, né parole, né meditazioni; se ti piace fallo, ma dammi l'amore perché a un Dio che è solo amore non puoi dar altro che amore.
Una persona innamorata che vi guardi intensamente, resterà offesa di qualunque regalo voi le facciate se non le date lo sguardo d'amore che aspetta, perché tutto il resto è completamente inutile, vano, simbolico.
Dunque, la storia di Gesù diventa la storia di questo amore che non fa altro che amare per riconciliare, riconciliare amando, e allora la questione diventa: fino a che punto, con quale grado d'amore?
La storia di Gesù, proprio quella della croce, allora diventa una giustificazione che incomincia prima che Gesù s'incarni.
In Eb 10,7 troviamo il programma di Gesù Verbo di Dio: "Allora ho detto: ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà".
La tua volontà non la fa nessuno?
Vengo e la farò io, ti dirò io il sì dell'amore che regge, che non si spezza mai.
Qui cominciamo a capire come si delinea l'intensità di un amore simile, perché su un piatto della bilancia si dovrebbe mettere l'umanità tutta intera e la delittuosità umana, cioè la somma dei no detti a Dio e detti reciprocamente tra noi, la somma del non-amore; sull'altro piatto della bilancia si mette colui che da solo ha più grande peso perché è Dio.
Sul terreno pratico, incontriamo questa realizzazione fino al punto del sudore di sangue; anche lì Gesù resiste e continua a dire: se fosse possibile no - perché Gesù, la sindone se l'è vista tutta prima -; però, non come voglio io.
C'è dunque un punto nel rapporto tra me e Dio dove il dolore, la fatica di amare mi spaventa, dove il piacere che invece posso prendermi anche senza Dio mi attira; a quel punto io sono come un veicolo che sale per forza d'inerzia su una salita, poi arriva al punto critico, e ridiscende.
Diciamo a Dio: fino a questo punto sì, adesso no, torno indietro.
Cristo non ha conosciuto questo punto di inerzia che fa tornare indietro: "Non sia fatta la mia, ma la tua volontà" ( Lc 22,42 ).
Qui si inaugura una specie di equilibrio terapeutico - contraria contrariis curantur -: tu hai detto tanti no, io dirò altrettanti sì, mi lascerò chiedere dal Padre tutti i sì che vuole perché questi miei sì poi te li regalo e diventi capace anche tu - per grazia e sacramenti - di dire quei sì che mai diresti e a togliere quei no che continui a dire.
È la sostituzione dell'umanità di Cristo, traboccante di un sì totale, nella mia umanità di fronte al no.
Il "primo Adamo", dice Paolo nella lettera ai Corinzi, "fatto di terra" - che siamo noi - inaugura e celebra il "no" a Dio.
Ne abbiamo detti tutti di no a Dio e ne diremo ancora, perché nessuno di noi è impeccabile.
La somma di questi no, nella lettura teologica, è l'etica fondamentale dell'umanità, è il peccato: non i peccati, ma il peccato come atteggiamento.
"L'ultimo Adamo", quello definitivo che "viene dal cielo" ( 1 Cor 15,47 ) realizza al contrario una intesa indissolubile: chiedimi quello che vuoi, dirò sempre sì.
Quando amiamo molto, questa frase non è anche nostra?
Dice Paolo definendo Gesù: "Il Figlio di Dio Gesù Cristo non fu « sì » e « no » - come siamo noi - ma in lui c'è stato il « sì »" ( 2 Cor 1,19 ).
Questo sì, di sì in sì, di richiesta in richiesta fatalmente allora porta Gesù sulla croce.
La lettura teologica è questo sì totalmente coniugato: nella sua carne, nelle sue ossa e nel sangue versato traduce un consenso al Padre che si concluderà solo con " … è compiuto", ti ho detto sì fino al fondo; a quel punto Cristo rientra nello Spirito, emette lo spirito. [ … ]
Immagine tridimensionale del volto martoriato dell'Uomo della Sindone
La stessa immagine dalla quale sono state eliminate le ferite con tecniche informatiche
1 Associazione Medici Cattolici Italiani