Proviamo a capirci |
Un racconto orientale narra di un pescatore famoso per la sua abilità.
Amava e rispettava il fiume ed il fiume lo ricompensava svelandogli tutti i suoi segreti.
Così aveva imparato a conoscere le abitudini dei pesci meglio di chiunque altro e sapeva perciò scegliere dove e come farli abboccare più facilmente.
La sua bravura era arrivata al punto da permettergli di prevedere ancor prima di gettare l'amo la specie e le dimensioni del pesce che avrebbe abboccato!
L'ignoto narratore che ha fatto arrivare questa storia sino a noi racconta che un giorno, mentre il pescatore era intento a pescare, gli si avvicinò un mendicante, che con voce lamentosa gli chiedeva l'elemosina di uno dei pesci da lui già catturati: « Tu hai di che sfamarti! Pensa a me che non ho nulla da mangiare! ».
Il pescatore non alzò neppure lo sguardo dal fiume e non raccolse in nessun modo queste implorazioni.
Dopo qualche momento, viste inutili le sue insistenze, il mendicante prese ad allontanarsi recriminando sulla sua sfortuna per aver incontrato un così grande egoista.
Fatto qualche passo, si sentì inaspettatamente raggiungere dal pescatore.
Egli aveva abbandonato sulla riva la sua canna e lo stava invitando a seguirlo.
Gli andò dietro stupito.
Entrarono in un boschetto di bambù ed il pescatore si mise a spiegare i criteri con i quali deve essere scelta una canna perché sia adatta alla pesca.
Una volta trovatane una che andasse bene, la tagliò e, mentre ne eliminava le foglie, indicò un arbusto rampicante, una specie di liana, dicendo che dal suo fusto flessibile possono essere facilmente ricavate delle fibre sottili e resistenti, molto adatte a fare da lenza.
Da un cespuglio spinoso, rompendo opportunamente un rametto, ricavò un amo acuminato che legò, zavorrato con una pietruzza, alla lenza stessa.
Con una bacca selvatica secca e la penna di un uccello costruì un galleggiante.
Infine, il pescatore mostrò al mendicante come trovare sotto le pietre o sotto i tronchi caduti larve di insetti che servissero come esca.
Qualche minuto dopo i due erano seduti fianco a fianco in riva al fiume, ciascuno con la sua canna da pesca in mano.
L'attesa non fu lunga.
Ad un certo punto all'amo del mendicante abboccò un bei pesce.
Mentre l'uomo staccava con aria soddisfatta ed ancora incredula il pesce dall'amo, il pescatore prese a dirgli: « Se ti avessi dato in elemosina uno dei miei pesci, ti saresti sfamato oggi, ma domani avresti avuto di nuovo fame e non avresti saputo come procurarti del cibo.
Adesso sai pescare.
Tutte le volte in cui non avrai di che mangiare, saprai come procurartene da solo ».
Tralasciamo ogni intento moralistico scontato, per soffermarci ad esaminare come i due protagonisti si sono posti l'uno rispetto all'altro.
Il mendicante ha assunto nell'episodio una posizione di sottomissione basata sul fatto di considerarsi meno valido del pescatore nell'arte di procurarsi il cibo, probabilmente per indurlo alla compassione ed ottenere l'elemosina.
Quest'ultimo avrebbe potuto adattarsi a questo modo di impostare lo scambio, accettando la posizione di superiorità attribuitagli dal mendicante.
In questo modo l'incontro avrebbe avuto come protagonisti un interlocutore ( il mendicante ) per sua stessa scelta in atteggiamento di inferiorità e l'altro ( il pescatore ) in un corrispondente ruolo di preminenza.
Entrambi si sarebbero riconosciuti in queste differenti posizioni ed entrambi avrebbero giudicato accettabile questo fatto.
Il pescatore avrebbe dato uno dei suoi pesci e tutto sarebbe finito.
Terminato lo scambio, la constatazione delle loro diverse capacità di far fronte alle esigenze della sopravvivenza ne sarebbe uscita confermata e rafforzata.
Il pescatore ha però replicato all'atteggiamento sottomesso del mendicante basandosi su un presupposto diverso.
Egli ha pensato che, una volta istruito, il mendicante sarebbe stato capace di cavarsela da solo.
In questo modo i due protagonisti hanno assunto nella loro relazione un'altra posizione: non più quella in cui l'uno è superiore e l'altro sottomesso, ma quella che vede entrambi capaci di porsi sullo stesso piano.
Non lasciamoci tentare dal giudicare se sia migliore o peggiore l'approccio proposto dal mendicante o quello nato dalla reazione del pescatore.
Entrambi offrono la possibilità di impostare in modo soddisfacente i loro comportamenti.
Ci troviamo invece di fronte all'alternativa presente in tutte le situazioni relazionali rappresentate dai nostri collegamenti vitali: accettare l'atteggiamento di inferiorità ( come in questo caso ) o di superiorità di un interlocutore ( come può accadere in alcune circostanze ), o fare qualche cosa per modificare il peso dei rispettivi ruoli?
Nel caso di qualcuno che voglia mostrarsi superiore a noi: lasciarlo fare o raccogliere la sfida e mettersi in competizione?
La diversa idoneità individuale delle persone nelle circostanze più disparate della vita o la spinta di condizionamenti provenienti dalla società, fanno sì che esse regolino i loro reciproci rapporti sulla base della concorrenza ( cioè sul tentativo di dimostrare di essere altrettanto o più bravi degli altri ) o sulla base dell'accettazione della differenza ( e quindi sul persistere della disuguaglianza ), che finisce per attribuire gradi di prestigio e di iniziativa diversi ai due interlocutori.
L'evoluzione storica della famiglia occidentale offre illuminanti esempi di queste due modalità nell'impostare le relazioni interpersonali.
La famiglia che abitualmente definiamo tradizionale presentava ruoli ben definiti ed assai differenziati.
L'uomo era per lo più il solo ad avere un lavoro esterno ed era pertanto l'unica fonte di guadagno: ciò gli conferiva prestigio e potere su moglie e figli.
Egli rappresentava l'autorità da rispettare e da obbedire.
Alla donna erano riservate le cure della casa e l'educazione dei figli.
Per l'opinione comune queste erano incombenze di poca importanza, non avendo immediato rilievo economico, per cui ad essa toccava un ruolo di sottomissione.
Doveva essere l'angelo del focolare che attendeva fedelmente questo marito, cavaliere senza macchia e senza paura, per servirlo ed assecondarlo.
La vita della coppia, in tutte le sue manifestazioni, ne era condizionata.
La donna, per intima accettazione di questa posizione di sottomissione o a causa della pressione sociale che esigeva da lei questo atteggiamento, regolava i suoi comportamenti di conseguenza.
D'altra parte, il marito di una casalinga, interpellato sull'occupazione della moglie, non dice ancor oggi: « Oh, non fa niente, è una casalinga? ».
In tempi più recenti abbiamo visto e stiamo vedendo le donne misurarsi con gli uomini nei più diversi campi di attività e, anche se non sempre, a tutti i livelli di responsabilità, acquistando consapevolezza e peso diversi nei riguardi dell'uomo e quindi all'interno della coppia.
Di conseguenza, nessuna incombenza familiare, se si esclude quella della maternità biologica, è più di competenza esclusiva della donna, così come da nessun compito o responsabilità può considerarsi esentato il maschio.
Mentre la coppia tradizionale presupponeva la constatazione e l'accettazione di differenze molto nette tra i ruoli sessuali, oggi la relazione a due tende, anche se con fatica, a basarsi sulla quasi totale intercambiabilità di quelle incombenze in passato considerate tipicamente maschili o femminili.
Anche il cambiamento nel rapporto tra genitori e figli man mano che crescono si collega ai due schemi di comportamento.
Finché i figli sono piccoli prevalgono i comportamenti che sottolineano le differenze esistenti tra adulti e bambini per quanto riguarda esperienza, maturità ed autonomia.
Con il tempo, particolarmente nel corso dell'adolescenza, i figli tendono a esigere una considerazione più adulta e quindi a cercare progressivamente di porsi nei riguardi dei genitori su un piano sempre più simile a quello adulto.
Ci si può chiedere se in una coppia sia più consigliabile lo schema superiorità/sottomissione oppure quello dell'emulazione, o quale dei due sia più adatto nell'educazione.
L'osservazione delle famiglie che riescono a stare bene permette di coglierne una caratteristica molto significativa sotto questo profilo: in queste famiglie tutti i membri sono capaci e sono disponibili a utilizzare di volta in volta ed a seconda delle circostanze entrambi gli schemi.
C'è il momento in cui un genitore si rivolge ad un figlio da una posizione di superiorità ed il momento, anche ravvicinato nel tempo, in cui egli accetta di mettersi in discussione, in virtù di una maggiore competenza che un figlio - anche prima dell'adolescenza - può avere in un campo specifico ( ad esempio nello sport o per la scuola ).
Così anche per certi aspetti della vita matrimoniale le rispettive caratteristiche individuali possono suggerire la temporanea superiorità dell'uno o dell'altra, senza che questo crei condizioni di definitiva sudditanza.
In una diversa circostanza i ruoli si possono capovolgere in modo del tutto naturale e senza alcuna forzatura, così come può nascere un confronto che non è vissuto come un attentato alla dignità o ai meriti di nessuno.
Sono considerazioni queste che valgono per qualsiasi collegamento vitale, anche se estraneo alla famiglia ed agli affetti.
Nel mondo del lavoro stesso si è passati dall'applicazione rigida e sistematica della direttività da parte dei responsabili, quindi da uno schema di rapporti fortemente caratterizzati nel senso della superiorità/sottomissione, a stili di gestione più flessibili secondo i quali, fatto salvo il riconoscimento del ruolo dei supervisori ai vari livelli, trovano spazio la discussione, il confronto e la ricerca di soluzioni condivise.
Dove ciò è stato applicato, si è assistito al miglioramento del clima degli ambienti di lavoro e, come diretta conseguenza, dei risultati aziendali.
L'istituzione dei circoli di qualità o dei gruppi di lavoro per il miglioramento o di altri analoghi strumenti organizzativi che prevedono il coinvolgimento attivo e propositivo anche di chi ha compiti di tipo esecutivo come l'impiegato d'ordine o l'operaio, va considerata sotto questa luce come portatrice di interessanti opportunità per la qualità della vita lavorativa.
I collegamenti vitali che sono retti dall'applicazione rigida e statica nel tempo di uno solo di questi schemi comportano invece sempre l'insorgere di guai.
Può essere un marito che si arrocca in una posizione di superiorità ( ho ragione io e basta ), cercando di costringere la moglie in una condizione di sudditanza, tipica del marito « vecchia maniera »; o di una moglie che reagisce aprioristicamente a quello che ritiene essere lo strapotere sociale del maschio, innescando così il meccanismo relazionale della competizione.
Di qui la discussione accesa, il litigio, talvolta la crisi.
Non più quindi un flessibile avvicendarsi nell'impiego degli schemi relazionali, ma una competizione, qualche volta senza quartiere, di ciascuno dei due per costringere caparbiamente l'altro all'interno di una propria impostazione rigidamente precostituita.
Alcuni studiosi descrivono questi stessi fenomeni affermando che, all'interno di una relazione, ciascuno dei due può scegliere un atteggiamento da « adulto », da « genitore » o da « bambino ».7
Se entrambi scelgono in una certa circostanza di utilizzare il modo adulto ( cioè ragioneranno insieme, collaboreranno da pari a pari, si porranno di fronte alle difficoltà in modo realistico ), tutto funzionerà a dovere.
Se uno dei due decide di porsi verso l'altro nell'atteggiamento di un genitore ( cioè spiegherà come fare, darà consigli, richiamerà regole, proteggerà, criticherà ... ) e l'altro sceglie come risposta una posizione filiale ( si mostrerà sottomesso, obbedirà ), entrambi si troveranno d'accordo nelle rispettive posizioni.
I guai nascono quando i due non sono d'accordo, quando ad esempio l'uno si ostina a dare consigli o ordini ( atteggiamento genitoriale ) e l'altro vuole ragionare ( atteggiamento adulto ), o quando uno dei due cerca collaborazione ( atteggiamento adulto ) e l'altro ha voglia di scherzare ( atteggiamento da bambino ), o, ancora, il primo rimprovera l'altro ed il secondo vuol rimproverare il primo ( entrambi si mettono nell'atteggiamento genitoriale cercando di collocare in posizione di bambino l'interlocutore ).
Questi studiosi arrivano anch'essi a concludere che l'equilibrio e l'armonia relazionale si ottengono ricorrendo di volta in volta a ognuno di questi atteggiamenti, scegliendoli in base alle caratteristiche della situazione, alle abilità richieste nella circostanza particolare, ai livelli di capacità rispettivamente posseduti, al tipo di sollecitazione proveniente dall'interlocutore e così via.
Tutto ciò mantenendo la consapevolezza e la libertà interiore che non si tratta di schemi definitivi, decisi una volta per tutte, ma del modo che si giudica più adatto per vivere quella certa situazione, con quella certa persona, in quel certo momento.
Per altri momenti o altre circostanze, anche con la stessa persona, lo schema relazionale più adatto può essere un altro ed è interessante concedere a se stessi ed al proprio interlocutore la libertà di cambiare: da un atteggiamento adulto passare ad uno bambino o a quello genitore e viceversa, non per capriccio, ma per dar vita alle condizioni più adatte.
La strada da privilegiare consiste nel lasciar convivere dentro di sé questi atteggiamenti, di rispettarli nella convinzione che non ne esiste uno migliore o più valido degli altri, ma che tutti e tre vanno valorizzati per la insostituibile utilità di ciascuno di essi in vista del benessere relazionale nostro e dei nostri interlocutori.
Possiamo regolare i nostri rapporti con le persone accettando il ruolo di superiorità o di inferiorità che esse ci attribuiscono, oppure rifiutandolo.
In questo secondo caso ha inizio una competizione per decidere chi dei due occuperà il ruolo conteso.
La competizione ci può portare a dare più importanza all'obiettivo di piegare il nostro concorrente rispetto a quello di trovare una reale via di uscita dalla situazione.
L'equilibrio e l'armonia relazionale nei riguardi di qualcuno si ottengono accettando di occupare, a seconda delle circostanze, sia ruoli in cui prevaliamo che ruoli in cui riconosciamo la sua superiorità.
Indice |
7 | L'Analisi Transazionale chiama stati dell'Io i tre atteggiamenti che descriviamo in questo paragrafo |