La città di Dio |
È difficile stabilire se nei libri della sacra Scrittura si prolungano dopo il diluvio in termini espliciti le tracce della città santa in cammino oppure se sono state interrotte dal sopravvenire di tempi di irreligiosità in modo che non v'era nessun adoratore dell'unico vero Dio.
Nei Libri canonici dopo Noè, che con la moglie, tre figli e altrettante nuore meritò di essere immune dal cataclisma del diluvio, non troviamo fino ad Abramo la religiosità di un individuo segnalato da una palese parola di Dio.
V'è soltanto che Noè favorisce con benedizione profetica i due suoi figli Sem e Iafet contemplando e prevedendo quel che sarebbe avvenuto molto tempo dopo.
Avvenne anche che maledisse il figlio di mezzo, cioè quello che era tra il primogenito e il più giovane perché aveva peccato contro suo padre e lo maledisse non direttamente ma nel figlio, cioè nel suo nipote, con queste parole: Sia maledetto il fanciullo Canaan, sarà schiavo dei suoi fratelli.
Canaan era nato da Cam che non aveva ricoperto ma piuttosto messo in mostra la nudità del padre immerso nel sonno.
Continuando aggiunse la benedizione degli altri due figli, il più grande e il più piccolo, con le parole: Benedetto il Signore Dio di Sem e Canaan sarà suo schiavo, Dio dia gioia a Iafet che abiti nelle tende di Sem. ( Gen 9,5-27 )
Queste parole di Noè come pure la coltivazione di una vigna, l'ebrietà del prodotto di essa, la sua nudità mentre dormiva e tutti gli altri avvenimenti, che sono stati tramandati, sono colmi di significati profetici e nascosti da veli.
Ma ora, avvenuto il compimento dei fatti nei tempi che seguirono, i significati che erano nascosti sono abbastanza palesi.
Chi li esamina con attenzione e intelligenza li riconosce in Cristo.
Infatti Sem, dalla cui stirpe è nato Cristo, significa "Rinomato".1
E nulla è più rinomato di Cristo perché il suo nome già espande profumo da ogni parte al punto che nel Cantico dei Cantici, che è anche profezia che precorre, è paragonato a un aroma sparso in terra. ( Ct 1,2 )
Nelle sue case inoltre, cioè nelle chiese, prende dimora l'ampio numero dei popoli.
Iafet appunto significa "Ampiezza".
Invece Cam, che significa "Ardente",2 il figlio di mezzo di Noè, quasi a distinguersi dal primo e dall'ultimo e rimane fra di loro, fuori dalle primizie degli Israeliti e dall'ampio numero dei popoli, simboleggia la genìa bruciante degli eretici non per lo spirito di sapienza ma d'intolleranza, con cui di solito ribollono i sentimenti degli eretici e che turbano la pace dei santi.
Ma questi fatti tornano a vantaggio di coloro che sanno trarne profitto secondo l'avviso dell'Apostolo: È opportuno che fra di voi vi siano eresie affinché vi siano noti gli uomini degni di stima. ( 1 Cor 11,19 )
V'è anche nella Scrittura: Il figlio ben istruito sarà saggio ed userà l'ignorante come domestico. ( Pr 10, 4 )
Infatti molte verità attinenti alla fede cattolica vengono messe in discussione dagli eretici ma, per difenderle contro di loro, sono esaminate con maggior attenzione, sono interpretate con maggior evidenza ed esposte con maggior premura.
Così una controversia suscitata dall'avversario diviene stimolo all'apprendimento.
Tuttavia non solo quelli che sono manifestamente eretici ma tutti coloro che si gloriano del nome di cristiani e vivono da disonesti non a sproposito possono essere raffigurati allegoricamente nel figlio di mezzo di Noè.
Difatti con pubblica professione attestano la passione di Cristo, che fu simboleggiata dalla nudità di quell'uomo, ma la disonorano con le cattive azioni.
Di essi è stato detto: Li riconoscerete dai loro prodotti. ( Mt 7,20 )
Per questo Cam fu maledetto nel proprio figlio, come in un proprio prodotto, cioè in una propria opera.
Quindi suo figlio Canaan significa "I loro movimenti", quanto dire la loro opera.
Sem e Iafet simboleggiano i popoli circoncisi e non circoncisi o, come con altri termini li indica l'Apostolo, Giudei e Greci. ( 1 Cor 1,22 )
Essi, chiamati e giustificati, conosciuta in qualsiasi modo la nudità del padre, con la quale era simboleggiata la passione del Salvatore, prendendo un capo di vestiario, lo posero sulle spalle, entrarono volti dall'altra parte, coprirono la nudità del padre e non videro ciò che per pudore avevano celato. ( Gen 9,23 )
Anche noi onoriamo nella passione di Cristo la salvezza che è stata operata per noi ma voltiamo le spalle al delitto dei Giudei.
Il capo di vestiario simboleggia il sacramento, le spalle il ricordo del passato perché già dal tempo in cui Iafet abita nelle tende di Sem e il fratello cattivo in mezzo a loro ( Gen 9,27 ) la Chiesa celebra come avvenuta la passione di Cristo, non l'attende più da lontano come futura.
Il cattivo fratello è in suo figlio, ossia nella sua opera, garzone cioè schiavo dei fratelli buoni, quando consapevolmente i buoni usano i cattivi per l'esercizio della pazienza o l'incremento della saggezza.
Per dichiarazione dell'Apostolo vi sono individui che annunziano Cristo non con buona intenzione, dice infatti: Sia che Cristo sia annunziato per opportunità o nella verità. ( Fil 1,18 )
Anche il nuovo Noè ha coltivato una vigna, della quale il Profeta dice: La casa d'Israele è la vigna del Signore degli eserciti ( Is 9,7 ) e ha bevuto il suo vino.
Nel passo si potrebbe anche intendere il calice di cui Egli dice: Potete bere il calice che io sto per bere? ( Mt 20,22 ) e: Padre, se è possibile, sia allontanato da me questo calice. ( Mt 26,39 )
Con esso ha indubbiamente indicato la propria Passione.
Ovvero, giacché il vino è un prodotto della vigna, è stato simboleggiato piuttosto che, nell'intento di soffrire, ha assunto per noi carne e sangue dalla vigna in parola, cioè dalla razza degli Israeliti.
Egli dunque s'inebriò, cioè subì la passione, e rimase nudo, ( Gen 9,21 ) perché con la passione rimase nuda, cioè si manifestò, la sua debolezza, di cui dice l'Apostolo: Sebbene sia stato crocifisso per debolezza. ( 2 Cor 13,4 )
In proposito sempre l'Apostolo dice: Ciò che in Dio è debole è più forte degli uomini e ciò che in Dio è insipiente è più sapiente degli uomini. ( 1 Cor 1,25 )
Alle parole: E rimase nudo la Scrittura ha aggiunto la frase: nella sua casa. ( Gen 9,21 )
Con essa si indica sottilmente che avrebbe subito la croce e la morte dal popolo della sua razza e dai propri consanguinei, cioè i Giudei.
I falsi cristiani attestano la passione di Cristo all'esterno, ossia soltanto col suono della voce, perché non capiscono quel che dicono.
I cristiani genuini invece accolgono nella coscienza un così grande mistero e onorano all'interno nel cuore ciò che di Dio è debole e insipiente perché è più forte e sapiente degli uomini.
È allegoria di questa verità il fatto che Cam uscendo di casa annunziò la nudità all'esterno, invece Sem e Iafet, per coprirla cioè per onorarla, vi entrarono, cioè compirono il gesto all'interno. ( Gen 9,2.23 )
Esaminiamo queste parti arcane della sacra Scrittura, come ci è possibile, chi con maggiore e chi con minore aderenza, tuttavia ritenendo certo nella fede che sono avvenimenti consegnati alla Scrittura come allegoria profetica del futuro e che si devono riferire soltanto a Cristo e alla sua Chiesa che è la città di Dio.
Di essa si ebbe fin dall'origine del genere umano il preannuncio che osserviamo avverarsi sotto ogni aspetto.
Dopo la benedizione dei due figli di Noè e la maledizione di quello di mezzo fra loro, fino ad Abramo, per oltre un millennio, non si fa menzione di uomini giusti che onorarono Dio nella vera religione.
Non penserei che non esisterono, tuttavia sarebbe andata troppo alla lunga se fossero stati ricordati tutti e sarebbe stata più esattezza storica che previsione profetica.
Quindi l'agiografo di questi libri della Bibbia, o meglio lo Spirito di Dio per la sua mediazione, persegue intenti con cui non solo si riferiscono avvenimenti passati, ma si preannunciano anche avvenimenti futuri che siano però attinenti alla città di Dio.
Anche ogni fatto che si narra di individui, che non ne sono cittadini, si narra con lo scopo che dal confronto essa ottenga vantaggio e risalto.
Certamente non si deve ritenere che tutti gli eventi narrati simboleggiano anche qualche cosa, ma eventi che non sono affatto simboli vengono inseriti in ordine a quelli che simboleggiano qualche cosa.
Il terreno viene solcato soltanto dal vomere ma, affinché si ottenga questo effetto, sono indispensabili anche le altre parti dell'aratro.
Nelle cetre e consimili strumenti musicali soltanto le corde sono disposte per il suono ma, affinché siano disposte, sono inseriti nella struttura degli strumenti altri pezzi che non sono battuti dai suonatori ma ad essi sono attaccati i pezzi che, percossi, rimandano i suoni.
Così nell'argomento profetico hanno luogo elementi che non sono simboli, sebbene siano ad essi congiunti e in certo senso fissati gli eventi simboleggiati.
Si devono dunque esaminare le genealogie dei figli di Noè e ciò che sembra opportuno dire in proposito deve avere una stretta coerenza con questa opera in cui si espone lo sviluppo di tutte e due le città, cioè della terrena e della celeste.
Ha avuto inizio la serie con quella del figlio più piccolo chiamato Iafet.
Di lui sono stati menzionati otto figli e sette nipoti, tre da un figlio e quattro dall'altro, in tutto quindici.
Di Cam, cioè del figlio di mezzo di Noè, sono stati menzionati quattro figli, cinque nipoti da un figlio e due pronipoti da un nipote, in tutto undici. ( Gen 10,6-7 )
Dopo questa enumerazione si ritorna, per così dire, al capostipite con le parole: Cus generò Nebrot. Questi cominciò ad essere un gigante sulla terra.
Egli era un gigante cacciatore contro il Signore.
Perciò si dice: Come Nebrot, gigante cacciatore contro il Signore.
Inizio del suo regno furono Babilonia, Orec, Arcad e Calanne nella terra di Sennaar.
Da quella terra provenne Assur che fondò Ninive e la città di Robot e Calac e Dasen, che fu una grande città, fra Ninive e Calac. ( Gen 10,8-12 )
Cus, padre del gigante Nebrot, è stato menzionato come primogenito tra i figli di Cam.
Eppure di lui erano già stati enumerati cinque figli e due nipoti.
Ma o mise al mondo il gigante dopo i due nipoti ovvero, ed è più attendibile, la Scrittura ne ha parlato separatamente a causa della sua superiorità.
Di lui infatti è stato tramandato alla storia il regno, il cui inizio fu la celeberrima città di Babilonia e le altre città o regioni che assieme sono state menzionate.
Avvenne molto tempo dopo che da quel territorio, cioè dal territorio di Sennaar, che apparteneva al regno di Nebrot, emigrò Assur e fondò Ninive e le altre città che l'agiografo ha aggiunto.
Con questo pretesto ha accennato al fatto a causa della fama del regno di Assiria che Nino, figlio di Belo, fondatore della grande città di Ninive, ampliò in modo eccezionale.
Dal suo nome fu desunto il nome della città che da Nino fu denominata Ninive.
Assur, da cui provengono gli Assiri, non era tra i figli di Cam, figlio di mezzo di Noè, ma è annoverato tra i figli di Sem, il figlio maggiore di Noè.
Quindi è evidente che gli Assiri provennero dalla stirpe di Sem, che conquistarono il regno del gigante Nebrot, da lì si diffusero e fondarono altre città.
Di esse la prima fu denominata Ninive da Nino.
Si torna quindi a un altro figlio di Cam che si chiamava Mesraim e si menzionano i discendenti non in individui ma in sette tribù.
Si fa menzione inoltre che dalla sesta, come se fosse il sesto figlio, provenne un popolo che si denomina Filistei, sono quindi otto.
Si torna di nuovo a Canaan, il figlio nel quale fu maledetto Cam e sono nominati gli undici che da lui provengono.
Si precisa poi a quali confini sono giunti con l'accenno ad alcune città.
Perciò nel computo di figli e nipoti sono annoverati trentuno discendenti della stirpe di Cam. ( Gen 10,6-20 )
Resta da ricordare i discendenti di Sem, figlio maggiore di Noè, perché la serie delle discendenze iniziata col più giovane gradualmente giunge a lui.
Ma i preliminari della genealogia hanno un po' d'incertezza che si deve chiarire con un esame perché sono molto attinenti all'argomento della nostra ricerca.
Si legge: Anche Eber discende da Sem, proprio da lui, capostipite di tutti i discendenti e fratello maggiore di Iafet. ( Gen 10,21 )
L'ordine delle parole è questo: da Sem discende anche Eber, Eber discende proprio da lui, cioè da Sem, che è capostipite di tutti i discendenti.
L'agiografo volle far intendere che Sem era il patriarca di tutti coloro che provenivano dalla sua stirpe e che stava per menzionare, fossero figli, nipoti, pronipoti e altri che da essa provenivano.
Sem non generò direttamente Eber, ma questi è al quinto grado nella serie dei discendenti.
Sem difatti fra gli altri figli ebbe Arfacsad.
Arfacsad generò Cainan, Cainan generò Sala, Sala generò Eber.
Non senza ragione è stato menzionato per primo nella stirpe proveniente da Sem e anteposto anche ai figli, sebbene sia discendente al quinto grado.
È vera la tradizione secondo la quale da lui sono stati denominati gli Ebrei, cioè Eberei.
Si potrebbe dare un'altra ipotesi, che da Abramo si abbia l'etimologia di Abraèi.
Però a parte l'ipotesi è più attendibile che da Eber siano stati chiamati Eberei, poi con l'elisione di una lettera Ebrei e che soltanto il popolo d'Israele ha potuto avere tale lingua perché con esso la città di Dio fu in esilio negli eletti e in tutti fu raffigurata con un simbolo.
Quindi prima sono menzionati sei figli di Sem, poi da uno di loro sono nati quattro suoi nipoti e un altro figlio di Sem generò un suo nipote, da lui nacque un pronipote e da lui il figlio del pronipote che è Eber.
Eber generò due figli, a uno diede il nome di Falec che significa "Dividente".
La Scrittura, soggiungendo per giustificare il nome, dice: In quel tempo la terra fu divisa. ( Gen 10,25 )
In seguito rimarrà evidente il significato.
L'altro figlio di Eber generò dodici figli, perciò tutti i discendenti di Sem sono ventisette.
Quindi nel totale tutti i discendenti dei tre figli di Noè, cioè quindici da Iafet, trentuno da Cam, ventisette da Sem, sono settantatre.
La Scrittura continua con le parole: Questi i discendenti di Sem nelle rispettive tribù secondo i loro dialetti, nei rispettivi territori e popoli.
E di tutti dice: Sono queste le tribù dei discendenti di Noè secondo le loro discendenze e popoli.
Da essi dopo il diluvio furono ripartite nel mondo le terre sul mare. ( Gen 10,31-32 )
Da queste parole si deduce che non erano settantatré individui, o meglio settantadue, come si dimostrerà in seguito, ma settantadue popolazioni.
Anche precedentemente la genealogia, con cui erano ricordati i discendenti di Iafet, fu conclusa così: Da loro furono spartite nel loro territorio in una propria regione le terre sul mare ciascuna secondo il linguaggio, nelle rispettive tribù e popoli. ( Gen 10,5 )
Nei discendenti di Cam a un certo punto più esplicitamente sono state indicate le popolazioni, come ho dimostrato precedentemente.
Mesraim è il capostipite di coloro che si chiamano Ludii, ( Gen 10,13 ) e allo stesso modo altre popolazioni fino a sette.
E dopo averle enumerate tutte, conclude: Questi i discendenti di Cam nelle rispettive tribù secondo le lingue, nei rispettivi territori e popoli. ( Gen 10,20 )
Perciò i discendenti di molti non sono stati ricordati perché alla nascita furono aggregati ad altri popoli ed essi non seppero costituire un proprio popolo.
Non v'è altra ragione che, sebbene siano menzionati otto figli di Iafet, si ricordano soltanto i figli nati da due di loro e sebbene siano menzionati quattro figli di Cam, si aggiungono soltanto i nati da tre di loro e sebbene siano menzionati sei figli di Sem, si aggiunge soltanto la posterità di due.
Che gli altri rimasero senza figli? Non si può ammettere, ma non costituirono popolazioni con cui meritassero di essere consegnati alla storia perché, appena nascevano, erano aggregati ad altre popolazioni.
Poiché si fa riferimento al fatto che quelle popolazioni avevano ciascuna un proprio dialetto, l'agiografo torna al tempo in cui v'era un solo idioma ed espone l'avvenimento per cui ebbe origine la diversità dei dialetti.
Dice: Tutta l'umanità aveva un medesimo linguaggio e un medesimo idioma.
Avvenne che gli uomini, emigrando dall'Oriente, trovassero una pianura nella regione di Sennaar e vi si stabilirono.
E disse ciascuno al suo vicino: Venite, facciamo dei mattoni e cuociamoli al fuoco.
E furono usati da loro mattoni invece della pietra e bitume invece dell'argilla e dissero: Orsù, costruiamoci una città e una torre, la cui cima arriverà al cielo, così ci faremo un nome prima di sparpagliarci in ogni parte del mondo.
Il Signore discese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini avevano edificato.
E disse il Signore: Sono della medesima stirpe e parlano il medesimo dialetto e hanno cominciato questo edificio e ora non cesseranno di fare tutte le cose che hanno tentato di compiere.
Venite, e scendendo confondiamo in quel luogo il loro linguaggio affinché ognuno non capisca il linguaggio dell'altro.
E da lì Dio li disperse in tutto il mondo e cessarono dal costruire la città e la torre.
Per questo è stato assegnato a quella città il nome di "Confusione" perché in quel luogo Dio confuse i linguaggi di tutto il mondo e da lì il Signore li disperse in tutto il mondo. ( Gen 11,1-9 )
La città, che è stata chiamata "Confusione", è Babilonia.
Anche la storia profana ne esalta la meravigliosa struttura architettonica.
Babilonia dunque si traduce "Confusione".
Se ne deduce che il suo fondatore fu il gigante Nebrot, come si è accennato precedentemente. Nel passo in cui la Scrittura parla di lui dice che origine del suo regno fu Babilonia, come città che doveva esercitare un dominio sulle altre, in cui si avesse come in una capitale la sede del regno.
Tuttavia la città non fu ultimata nelle dimensioni che si proponeva la superba empietà. ( Gen 10,8 )
Era stata preventivata una eccessiva altezza, calcolata fino al cielo.
Si trattava forse di una sola torre, che macchinavano più figurativamente al singolare, come si dice il soldato e s'intendono migliaia di soldati, o rana e cavalletta perché così è stata indicata l'infinità di rane e cavallette nelle piaghe con cui gli Egiziani furono puniti da Mosè. ( Es 10,4-5 )
La sciocca presunzione umana non avrebbe ottenuto nulla, anche se avessero elevato l'imponenza della costruzione di qualsiasi qualità e grandezza verso il cielo contro il Signore, sia pure che sorpassasse tutti i monti, sia pure che uscisse fuori dalla dimensione di questa atmosfera caliginosa. ( Gen 11,4 )
In nessun modo avrebbe recato danno a Dio l'altezzosità, per quanto grande, delle coscienze e delle cose.
L'umiltà garantisce una via sicura e vera verso il cielo, perché leva il cuore in alto, al Signore, non contro il Signore.
In questo senso è stato considerato il gigante cacciatore contro il Signore. ( Gen 10,9 )
Non riflettendovi bene alcuni sono stati ingannati da una parola greca di doppio senso in modo da non tradurre contro il Signore ma davanti al Signore, perché έναντίον significa sia contro che davanti.
È questa la parola che si ha nel Salmo: E piangeremo davanti al Signore che ci ha creati, ( Sal 95,6 ) ed è la medesima che si legge nel libro di Giobbe: Nel furore ti sei slanciato contro il Signore . ( Gb 15,13 )
Qui con la parola cacciatore s'intende senz'altro un catturatore, inseguitore e uccisore di animali terrestri.
Nebrot innalzava dunque con i propri sudditi contro il Signore una torre da cui è simboleggiata la superbia miscredente.
Giustamente quindi viene punita una cattiva disposizione d'animo anche se non ne consegue l'effetto.
Ma quale fu il genere di pena?
Poiché il potere di chi comanda è nella lingua parlata, in essa è stata punita la superbia in modo che non fosse compreso chi impartiva ordini all'uomo perché non volle comprendere che doveva obbedire all'ordinamento di Dio.
Così fu sciolto il complotto perché ciascuno abbandonava il proprio simile che non comprendeva più per unirsi all'individuo con cui poteva scambiare la parola.
Proprio a motivo del linguaggio i popoli si distinsero e si sparpagliarono per il mondo come piacque a Dio che ottenne questo effetto nelle forme arcane e a noi incomprensibili.
Si legge nella Scrittura: Il Signore discese a vedere la città e la torre che avevano edificato i figli degli uomini, ossia non i figli di Dio, ma la società la quale vive secondo l'uomo e che consideriamo come la città terrena.
Dio non si muove nello spazio perché è tutto fuori del tempo e dello spazio, ma si dice che discende quando realizza nel mondo qualche effetto che, essendo realizzato fuori del normale procedimento della natura, mostra per analogia la presenza di Dio.
Così guardando non apprende nel tempo perché non può ignorare una cosa ma si dice che guarda e conosce nel tempo ciò che egli fa guardare e conoscere.
Quella città non era guardata nel modo con cui la fece guardare quando mostrò che ne era disgustato.
Si potrebbe tuttavia interpretare che Dio discese verso quella città perché vi discesero i suoi angeli in cui egli dimora.
L'aggiunta: E Dio disse: Ora sono un solo popolo e parlano la medesima lingua e il resto, come pure l'altra aggiunta: Suvvia, col discendere confondiamo la loro lingua ( Gen 11,5-7 ) sarebbero come un chiarimento per dimostrare in qual senso si era avverato quel che aveva detto in precedenza: Il Signore discese.
Se era già disceso, le parole: Suvvia, col discendere confondiamo, se vanno riferite agli angeli, significano soltanto che egli discendeva attraverso il ministero degli angeli, perché egli era negli angeli che discendevano.
E giustamente non dice: Suvvia, col discendere confondete ma: Confondiamo adesso la loro lingua.
Mostrava così di operare mediante i suoi esecutori affinché anche essi siano collaboratori di Dio, come dice l'Apostolo: Siamo collaboratori di Dio. ( 1 Cor 3,9 )
Anche quando è stato creato l'uomo, le parole: Facciamo l'uomo potrebbero essere interpretate in riferimento agli angeli, perché non ha detto: "Devo fare".
Però poiché seguono le parole: A nostra immagine e non è conveniente ritenere che l'uomo è stato creato a immagine degli angeli o che è una medesima l'immagine degli angeli e di Dio, a ragione in quel passo si intravede la pluralità della Trinità.
Ma poiché la Trinità è un solo Dio, la Scrittura, anche dopo aver detto: Facciamo soggiunge: E Dio creò l'uomo a immagine di Dio. ( Gen 1,26-27 )
Non ha detto: Fecero gli dèi o a immagine degli dèi.
Anche nel passo in questione poté essere indicata la Trinità nel senso che il Padre disse al Figlio e allo Spirito Santo: Suvvia, col discendere confondiamo adesso la loro lingua. ( Gen 11,7 )
E v'è qualcosa che impedisce di pensare agli angeli perché ad essi compete piuttosto di andare a Dio con santi impulsi, cioè con devoti pensieri, con i quali da essi si consulta l'immutabile Verità che è come la legge eterna nella loro curia del cielo.
Essi non sono verità a se stessi ma, partecipi della Verità che crea, si muovono a lei come a una sorgente di vita in modo da attingere da essa ciò che non compete al loro essere.
E questo movimento con cui vanno è stabile perché non si allontanano più.
E Dio non parla agli angeli nel modo con cui parliamo fra di noi o a Dio o agli angeli o gli angeli stessi a noi o Dio a noi con il loro intervento, comunque sempre in modo inesprimibile, sebbene a noi viene comunicato nel nostro modo d'intendere.
La parola di Dio più alta prima della sua azione nel mondo è la ragione immutabile dell'azione stessa perché non ha un suono che colpisce l'udito e passa ma una forza che rimane al di là del tempo ed opera nel tempo.
Con essa parla agli angeli, con noi in altra maniera perché siamo nello spazio.
Quando anche noi con l'udito della coscienza afferriamo qualche vibrazione di questa parola, ci rassomigliamo agli angeli.
Ma io non debbo proprio ad ogni momento rendere ragione in questa opera del modo di parlare di Dio.
È la non diveniente Verità che ineffabilmente parla da sé alla coscienza della creatura ragionevole o parla mediante una diveniente creatura tanto al nostro pensiero con intelligibili concetti come al senso con suoni sensibili.
Le parole: Ed ora non cesseranno di fare tutte le cose che hanno tentato di compiere ( Gen 11,6 ) non furono dette per prendere atto, ma nell'intento d'interrogare, come di solito si fa da coloro che minacciano.
A proposito scrive un poeta: Non allestiranno le armi e non lo seguiranno da tutta la città?3
Quindi si deve interpretare come se abbia detto: Forseché cesseranno di fare tutte le cose che hanno osato di compiere?
Ma se la frase si pronuncia con questo accento non esprime la minaccia.
Appunto per i più lenti di comprendonio ho aggiunto la particella interrogativa dicendo forseché? perché non riuscirei a riprodurre graficamente il tono di voce di chi parla.
Dunque da tre individui, i figli di Noè, cominciarono ad esistere nel mondo settantatré popolazioni o meglio, come determinerà una riflessione critica, settantadue e altrettanti dialetti che ampliandosi occuparono anche le regioni del Mediterraneo.
Il numero delle popolazioni si accrebbe più diffusamente che quello dei dialetti.
Sappiamo che anche in Africa molti popoli incivili parlano una sola lingua.
Non si può mettere in dubbio che gli uomini, dato l'aumento della razza umana, poterono passare con una imbarcazione alle zone marittime.
Però rimane il problema relativo ad ogni specie di animali che non sono allevati dagli uomini e di quelli che non nascono dalla terra come le rane, ma si propagano soltanto con l'accoppiamento del maschio e della femmina, come i lupi e tutti i mammiferi selvatici.
C'è il problema in qual modo dopo il diluvio, con cui furono sterminati tutti gli animali che non erano nell'arca, poterono essere nelle zone lungo il mare se si riprodussero soltanto da quelli che l'arca in ambedue i sessi sottrasse alla morte.
Si può pensare che alle zone marittime, ma più vicine, passarono a nuoto.
Però ve ne sono alcune così lontane dal continente da non sembrar probabile che alcun animale vi si possa esser trasferito a nuoto.
Non è incredibile il fatto che gli uomini li portarono con sé e per amore della caccia ne istallarono le specie nella maniera in cui erano nel luogo da cui provenivano, sebbene non si può negare che per comando o con la permissione di Dio poterono esservi trasferiti per opera degli angeli.
Se poi nella fase originaria sono stati prodotti dalla terra quando Dio disse: La terra produca l'anima che vive ( Gen 1,24 ) e se nelle zone marittime, in cui non potevano giungere a nuoto, la terra produsse molti animali, tanto più evidentemente si rileva che nell'arca vi furono tutte le specie non per conservare gli animali ma per indicare allegoricamente i vari popoli in relazione al mistero della Chiesa.
V'è anche il problema se si deve ritenere che dai figli di Noè, o meglio dall'unico progenitore da cui anche essi discendono, derivarono alcuni tipi mostruosi d'individui umani, di cui parla la storia profana.
Si tramanda che uno di essi aveva un solo occhio in mezzo alla fronte, le piante dei piedi di alcuni erano rivolte alla parte posteriore delle gambe, altri avevano i caratteri dei due sessi, la mammella destra virile e quella sinistra femminile e accoppiandosi alternativamente fra di sé fecondavano e partorivano, alcuni non avevano la bocca e vivevano respirando soltanto con le narici, altri ancora erano della statura di un cubito e per questo dal cubito i Greci li chiamano pigmei, in alcune parti le donne concepivano a cinque anni e non oltrepassavano l'ottavo anno di vita.
Narrano anche che esiste un popolo nel quale gli individui hanno una sola gamba inserita nei piedi, non piegano il ginocchio e sono di celerità prodigiosa, li chiamano sciopodi perché, giacendo supini per il caldo, si difendono con l'ombra dei piedi.
Dicono anche che alcuni senza la testa hanno gli occhi nelle spalle e di uomini o di ominidi le altre caratteristiche che, desunte dai libri di narrazione fabulatrice, sono state ritratte a mosaico, nel porto di Cartagine.
Non saprei che dire dei cinocefali perché la testa di cane e l'abbaiare fanno pensare più a bestie che ad uomini.
Però non è necessario ammettere tutti i tipi di uomini di cui si parla.
Anche nell'ipotesi che in un luogo qualunque nasca un uomo, cioè un animale ragionevole mortale, quantunque presenti ai nostri sensi una insolita tipologia somatica di forma, di colore, di movimento, di voce o di caratteristiche in termini di forza, organi e proprietà, il credente non deve dubitare che egli proviene dal primo uomo.
Si manifesta però che cosa la natura abbia raggiunto in parecchi soggetti e che cosa sia straordinario a causa della rarità.
La giustificazione che da noi si dà ad esemplari deformi di uomini è la medesima che si può dare della deformità di alcuni popoli.
Dio infatti è il creatore di tutti ed Egli sa il luogo e il tempo in cui è opportuno o era opportuno far esistere un essere perché conosce l'uguaglianza e la disuguaglianza delle parti con cui accordare l'armonia del cosmo.
Ma chi non può cogliere il tutto viene scioccato dall'apparente deformità di una parte, perché non sa a chi si conforma e a che cosa si riconduce.
Sappiamo che nascono individui con più di cinque dita nelle mani e nei piedi, ed è una deformità più lieve di ogni altra, tuttavia non si può essere sciocchi al punto di ritenere che il Creatore si è sbagliato nel calcolo delle dita dell'uomo, sebbene non si sa perché l'ha fatto.
Ed anche se v'è una più rilevante deformità, Egli sa ciò che ha fatto e non è possibile rimproverare le sue azioni.
A Ippona Diarrite esiste un uomo che ha le piante dei piedi a forma di mezzaluna e con due dita soltanto e le mani di egual forma.
Se fosse così un popolo sarebbe argomento della narrazione da favola e leggenda, di cui sopra.
Non per questo possiamo negare a questo uomo la sua provenienza da colui che per primo è stato creato.
È difficile che gli androgini, chiamati anche ermafroditi, sebbene attualmente siano rari, vengano a mancare nei vari tempi.
In essi l'uno e l'altro sesso si manifesta in maniera tale che è dubbio da quale di essi l'individuo debba essere denominato, tuttavia l'uso comune ha prevalso nel denominarlo dal più nobile, cioè dal maschile.
Nessuno ha mai parlato di androgine o ermafrodite.
Anni addietro, ma sempre a memoria d'uomo, nacque in Oriente un individuo che aveva doppie le parti in alto del corpo e scempie quelle in basso.
Aveva due teste, due toraci, quattro mani, ma un addome e due piedi corrispondenti cioè a un solo individuo.
Visse a lungo sicché la sua notorietà attirava parecchi a visitarlo.
Ma non è possibile rendersi ragione di quanto tutti i feti umani siano dissimili da quelli da cui con assoluta certezza derivano.
Come dunque non si può negare che queste deformazioni traggono origine da un solo progenitore, così si deve dire di tutti i popoli che, stando alle relazioni, derogano nelle deformazioni somatiche dal normale procedimento della natura che molti e quasi tutti conservano.
Se infatti sono inclusi nella definizione di animali ragionevoli e mortali, si deve ammettere che derivano la razza dal medesimo unico progenitore di tutti, purché sia vero ciò che si riferisce della dissomiglianza di quei gruppi e della notevole diversa conformazione fra di loro e con noi.
Se infatti ignorassimo che le scimmie, i cercopiteci e le sfingi non sono uomini, ma bestie, quegli storici, per vantarsi della propria ricerca, potrebbero farci credere con impunita vanagloria che siano razze umane.4
Ma se sono uomini quelli di cui sono stati narrati questi fatti eccezionali e se Dio ha voluto far esistere alcuni popoli con quelle caratteristiche, non dobbiamo pensare che la sua sapienza, con la quale modella la natura umana, abbia errato nei mostri che dalle nostre parti nascono necessariamente dagli uomini, come erra la tecnica di un artigiano meno esperto.
Non ci deve sembrare assurdo che come in ogni popolo vi sono individui deformi così in tutto l'uman genere vi siano alcuni popoli deformi.
Quindi per risolvere il problema gradualmente e con cautela: o le cose che sono state scritte di alcuni popoli non sono vere o, se lo sono, quelli non sono uomini o, se sono uomini, provengono da Adamo.
Non v'è dimostrazione scientifica per ammettere quel che alcuni favoleggiano sulla esistenza degli antipodi, cioè che uomini calcano le piante dei piedi in senso inverso ai nostri dall'altra parte della terra, dove il sole sorge quando da noi tramonta.
Non affermano infatti di averlo appreso in seguito a una esperienza storicamente verificatasi, ma prospettano col ragionamento una ipotesi perché la terra sarebbe sospesa nella volta del cielo e avrebbe lo stesso spazio in basso e al centro.
Suppongono perciò che l'altra faccia della terra, quella di sotto, non può esser priva di abitanti.
Non riflettono, anche se si ritiene per teoria o si dimostra scientificamente che il pianeta è un globo e ha la forma sferica, sulla non consequenzialità che anche dall'altra parte la terra è libera dalla massa delle acque e anche se ne è libera, non ne consegue necessariamente, di punto in bianco, che è abitata dagli uomini.
Difatti in nessun modo la sacra Scrittura mentisce perché con la narrazione dei fatti del passato garantisce l'attendibilità che le sue predizioni si avverino.
D'altronde è troppo assurda l'affermazione che alcuni uomini, attraversata l'immensità dell'Oceano, poterono navigare e giungere da questa all'altra parte della terra in modo che anche là si stabilisse la specie umana dall'unico progenitore.
Perciò fra le popolazioni umane, che risultano divise in settantadue stirpi e altrettanti dialetti, cerchiamo, se possiamo trovarla, la città di Dio in esilio sulla terra.
Essa era stata condotta fino al diluvio e all'arca e poteva essere additata come sopravvissuta nei figli di Noè mediante le benedizioni da loro ricevute, soprattutto dal più grande che si chiamava Sem, perché Iafet era stato benedetto con la formula che abitasse nelle tende di lui, suo fratello.
Si deve quindi riesaminare la serie delle generazioni da Sem perché ci mostri la città di Dio dopo il diluvio, come la serie delle generazioni dal patriarca Set ce la mostrava prima del diluvio.
Per questo la sacra Scrittura, dopo avere mostrato la città terrena a Babilonia, cioè nella confusione, ritorna per un compendio al patriarca Sem e inizia da lui le generazioni fino ad Abramo con il computo del numero degli anni che ciascuno aveva quando generava un figlio appartenente a questa genealogia e degli anni che era vissuto.
Nel fatto si deve riscontrare quanto poco fa avevo promesso che, cioè, sia chiaro il motivo per cui è stato detto dei figli di Eber: Il nome di uno è Falec perché ai suoi tempi fu diviso il territorio. ( Gen 10,25 )
Assegnare il territorio si può intendere soltanto in relazione alla diversità dei dialetti.
Omessi dunque gli altri discendenti di Sem, che non sono pertinenti all'argomento, nella genealogia sono elencati soltanto quelli con cui giungere fino ad Abramo, come prima del diluvio erano elencati quelli con cui giungere a Noè attraverso le generazioni che provenivano dal figlio di Adamo chiamato Set.
La lista di queste discendenze comincia così: Queste sono le generazioni da Sem.
Sem aveva cento anni quando generò Arfacsad due anni dopo il diluvio.
Sem dopo che generò Arfacsad visse cinquecento anni e generò figli e figlie e morì. ( Gen 11,10-11 )
Così continua con gli altri aggiungendo a quanti anni di vita ha generato il figlio appartenente alla serie delle discendenze che giunge ad Abramo e quanti anni sia vissuto in seguito.
Aggiunge che ha generato figli e figlie per farci capire che le popolazioni aumentarono di numero affinché, sorpresi per i pochi individui menzionati, non rimanessimo perplessi come fanciulli sul fatto che una così grande estensione di territori e di Stati sia stata riempita dai Semiti.
Questo vale principalmente per il regno di Assiria sul quale Nino, il celebre soggiogatore per molto tempo dei popoli orientali, regnò con grandissima prosperità e lasciò ai successori uno Stato molto esteso e solido che poteva continuare per lungo tempo.
Per non soffermarci più del necessario in questo elenco non riferiamo gli anni che ciascun patriarca della genealogia è vissuto, ma soltanto gli anni di vita che aveva quando generò il figlio.
Così assommiamo il numero degli anni dal diluvio ad Abramo e, oltre gli argomenti in cui lo stretto legame ci costringe a trattenerci, tocchiamo alla svelta e di sfuggita gli altri.
Dunque due anni dopo il diluvio Sem generò Arfacsad; Arfacsad quando aveva centotrentacinque anni generò Cainan; questi quando ne aveva centotrenta ebbe Sala; Sala quando aveva lo stesso numero di anni generò Eber; Eber aveva centotrentaquattro anni quando ebbe Falec e durante la sua vita fu distribuito il territorio; Falec aveva centotrenta anni e generò Ragan; Ragan centotrentadue ed ebbe Saruc; Saruc centotrenta e generò Nacor; Nacor settantanove e generò Tara; Tara settanta e generò Abram ( Gen 11,10-26 ) che Dio, cambiandogli il nome, chiamò Abramo. ( Gen 17,5 )
Dunque dal diluvio ad Abramo sono millesettantadue anni secondo il testo della Volgata, cioè dei Settanta.
Nel testo ebraico gli esegeti riferiscono un numero di anni molto più breve, ma non ne danno spiegazione o assai poco attendibile.
Quando dunque ricerchiamo la città di Dio nelle settantadue popolazioni, non possiamo affermare che nel tempo in cui si aveva un solo idioma, cioè una sola parlata, l'uman genere si fosse già sottratto dal culto al vero Dio, sicché la vera religione era rimasta soltanto in queste tribù che provengono dalla stirpe di Sem attraverso Arfacsad e giungono ad Abramo.
Però dalla vanagloria di edificare una torre fino al cielo, con cui è simboleggiata l'alterigia miscredente, si manifestò la città, cioè la società dei senza Dio.
C'è il problema se prima non esisteva o rimaneva ignota o piuttosto se esistevano tutte e due, la credente nei due figli di Noè che furono benedetti e nei loro discendenti, la miscredente in colui che fu maledetto e nella sua stirpe da cui discendeva anche il gigante cacciatore contro il Signore.
Non è facile la risposta.
Probabilmente, ed è la soluzione più attendibile, anche nei discendenti dei due Patriarchi, prima che si cominciasse a fondare Babilonia, vi furono degli atei e nei discendenti di Cam uomini che adoravano Dio.
Si deve tuttavia ammettere che mai mancarono nel mondo i due tipi di uomini. Si ha nella Scrittura: Tutti hanno deviato, tutti insieme sono diventati insipienti, non ve n'è uno che agisce bene, neppure uno. ( Sal 14,3; Sal 53,4 )
Tuttavia in tutti e due i Salmi in cui si hanno queste parole, si legge anche: Forseché non hanno intelligenza questi malfattori che distruggono il mio popolo mangiando a sue spese? ( Sal 14,5; Sal 53,5 )
Dunque ancora esisteva il popolo di Dio. Anche le parole: Non ve n'è uno che agisca bene, neppure uno si riferivano ai figli degli uomini non ai figli di Dio.
Infatti poco prima si legge: Dio dal cielo ha guardato sui figli degli uomini per vedere se ve n'è uno saggio che cerca Dio. ( Sal 14,2; Sal 53,3 )
Di seguito sono aggiunte le parole le quali comprovano che sono riprovati tutti i figli degli uomini che, cioè, appartengano alla città la quale vive secondo l'uomo e non secondo Dio.
Quindi, sebbene vi fosse un idioma comune a tutti non per questo mancarono i figli della perversione.
Anche prima del diluvio v'era un solo idioma, eppure tutti, fuorché la famiglia del giusto Noè, meritarono di morire nel diluvio.
Così, quando per colpa di una più altezzosa miscredenza, le genti furono punite e divise con la diversità dei dialetti e la città dei senza Dio ebbe il nome di Confusione, cioè fu chiamata Babilonia, si ebbe la tribù di Eber a far sì che si conservasse quello che precedentemente era il linguaggio di tutti.
Come ho ricordato dianzi,5 all'inizio della genealogia dei discendenti di Sem, i quali diedero origine alle varie popolazioni, per primo fu menzionato Eber, sebbene sia figlio di un pronipote, cioè al quinto grado nella discendenza da lui.
Mentre le altre popolazioni si dividevano nelle varie lingue, nella tribù di Eber rimase la lingua che, come giustamente si ritiene, prima era comune a tutto l'uman genere.
Perciò in seguito fu denominata ebraica.
Si richiedeva appunto che fosse distinta dalle altre lingue con una propria denominazione come le altre si distinsero mediante i rispettivi nomi.
Quando era la sola, si chiamava lingua o parlata umana perché con essa sola si esprimeva il genere umano.
Qualcuno potrebbe obiettare: Se al tempo di Falec, figlio di Eber, il territorio fu distribuito in base ai dialetti, cioè agli uomini che erano nel territorio, dal suo nome doveva essere designata la lingua che prima era comune a tutti.
Ma si deve riflettere che Eber stesso impose appunto un nome simile al figlio chiamandolo Falec, che significa "Divisione", perché gli era nato quando il territorio era diviso in base ai dialetti, cioè, proprio in quel tempo.
Così s'interpretano le parole: Ai suoi tempi fu distribuito il territorio. ( Gen 10,25 )
Se Eber non era più vivo quando avvenne il differenziarsi dei dialetti, la lingua che poté sopravvivere nella sua tribù non sarebbe stata denominata da lui.
Si deve perciò ritenere che era quella comune a tutti poiché provennero da un castigo il differenziamento e il mutamento dei dialetti e il popolo di Dio doveva essere esente da questo castigo.
E non senza motivo è la lingua che parlò Abramo, sebbene non poté trasmetterla a tutti i suoi discendenti ma soltanto a quelli che provennero da Giacobbe e che, costituendosi in forma più eminente e segnalata in popolo di Dio, poterono recepire le alleanze ed essere la stirpe di Cristo.
Ed Eber non ha trasmesso la lingua a tutta la sua discendenza ma a quella soltanto la cui genealogia era protratta fino ad Abramo.
Perciò quantunque non sia riferito con evidenza che esisteva un gruppo di uomini aderenti alla religione quando dai senza Dio venne edificata Babilonia, questo silenzio non è valso a deludere ma a stimolare l'interesse del critico.
Si legge dunque che prima v'era una sola lingua universale e fra tutti i discendenti di Sem si menziona prima di tutti Eber, sebbene sia al quinto grado, e si denomina ebraica la lingua che l'autorità dei Patriarchi e dei Profeti ha conservato non solo nel loro linguaggio usuale ma anche nella sacra Scrittura.
Si chiede allora in quale discendenza poté esser conservata la lingua che prima era di tutti, anche perché nella popolazione in cui essa si conservò non si ebbe il castigo che si verificò con il differenziamento dei linguaggi.
Si può replicare soltanto che si conservò nella stirpe che proveniva da colui dal cui nome essa ebbe il nome e che questo è un ricordo non indifferente della nobiltà della stirpe poiché, mentre le altre venivano punite con il differenziamento dei dialetti, non giunse ad essa tale punizione.
C'è inoltre il problema della possibilità che ebbero Eber e il figlio Falec di costituire due differenti popolazioni se entrambi parlavano una medesima lingua.
Certamente una sola è la popolazione ebraica che da Eber si protrasse fino ad Abramo e in seguito da lui fino a che si costituì il grande popolo d'Israele.
Come dunque tutti i discendenti menzionati dei tre figli di Noè costituirono popolazioni diverse se Eber e Falec non le costituirono?
Senza dubbio è ipotesi più probabile che il famoso gigante Nebrot costituì anche egli una sua popolazione ma a causa del prestigio del dominio e della statura è stato segnalato in forma più appariscente in modo da stabilire settantadue popolazioni e dialetti.
Falec è stato menzionato non perché costituì una popolazione in quanto la sua è la stessa popolazione e lingua ebraica, ma a causa del singolare scorcio di tempo, poiché durante la sua vita si distribuirono i territori.
Non ci deve turbare la considerazione che Nebrot non poté giungere al periodo di tempo in cui fu costruita Babilonia e avvenne il differenziarsi dei dialetti e conseguentemente la separazione delle popolazioni.
Dal fatto che Eber è al sesto grado da Noè e Nebrot al quarto non ne consegue che non furono contemporanei.
Questa vicenda poté verificarsi poiché vivevano di più quando le generazioni erano meno numerose e di meno quando erano più numerose, oppure nascevano più tardi quando le generazioni erano di meno e più presto quando erano di più.
Si deve riflettere che quando il territorio fu distribuito non solo erano nati gli altri discendenti di Noè, che sono ricordati come Patriarchi delle popolazioni, ma erano già in età di avere parecchie famiglie degne dell'appellativo di popolazioni.
Perciò non si deve affatto pensare che nacquero nell'ordine con cui sono elencati.
Altrimenti è inverosimile che i dodici figli di Iectan, l'altro figlio di Eber e fratello di Falec, avessero già costituito le popolazioni se Iectan era nato dopo suo fratello Falec come dopo di lui è menzionato, dal momento che i territori furono distribuiti al tempo della nascita di Falec.
Quindi si deve ammettere che fu menzionato per primo ma che era nato molto tempo dopo la nascita di Iectan, tanto che i dodici figli di quest'ultimo potevano già avere famiglie tanto numerose da poter essere distribuite secondo i rispettivi dialetti.
Perciò poté essere nominato per primo chi veniva dopo per nascita, allo stesso modo che dei discendenti dai tre figli di Noè al primo posto sono stati nominati i discendenti di Iafet che era il più piccolo dei tre, poi i discendenti di Cam che era il figlio di mezzo, infine i discendenti di Sem che era il primo e il più grande.
Le denominazioni di quelle popolazioni in parte rimasero, sicché anche oggi ne è manifesta la derivazione, come Assiri da Assur ed Ebrei da Eber, in parte sono cambiate col passar del tempo al punto che uomini dottissimi, i quali fanno ricerche di archeologia, sono riusciti a scoprire le origini di appena alcune di quelle popolazioni, non di tutte.
Difatti nessun dato etimologico fa apparire che gli Egiziani, come si afferma, abbiano origine da un figlio di Cam chiamato Mesraim.
Altrettanto si dice degli Etiopi che sono considerati discendenti del figlio di Cam, chiamato Cus.
Se si riflette bene, sono più le denominazioni cambiate che quelle rimaste.
Indice |
1 | O anche "norme" secondo Girolamo, Lib. interp. hebr. nom.: CC 72, 71 |
2 | Girolamo, Lib. interp. hebr. nom.: CC 72, 63 |
3 | Virgilio, Aen. 4, 592 |
4 | Plinio, Nat. hist. 8, 21, 72-76 |
5 | Vedi sopra 3.2 |