Vita di Mosé |
Dato che Mosè venne alla luce quando una legge dispotica imponeva l'uccisione di ogni neonato maschio, vediamo in che senso anche noi, con le libere scelte della nostra volontà, possiamo imitare quella sua fortunosa nascita.
Subito qualcuno obietterà vivacemente che è una pretesa assurda volerci rendere somiglianti a lui anche nel modo di nascere.
Ma non abbiamo difficoltà a prendere le mosse delle nostre riflessioni da questo aspetto alquanto difficile della imitazione di Mosè.
Nessuno ignora che ogni essere soggetto per natura a mutamenti, non rimane mai identico a sé stesso, ma passa continuamente da una condizione all'altra, divenendo migliore o peggiore in conseguenza di tali cambiamenti.
È questa una costatazione fondamentale per le nostre riflessioni.
Se infatti il tiranno egiziano lascia in vita le femmine, ciò fa perché il sesso femminile gli torna gradito, incarnando esso un'attrattiva fisica capace di destare passioni violente, alle quali la natura umana cede con facilità.
Invece il sesso maschile, dalle caratteristiche più austere e affini con la virtù, viene trattato dal tiranno come nemico, per il sospetto che possa un giorno insidiare il suo potere.
Ogni cosa soggetta a mutamenti deve in certo modo essere generata di continuo.
Nelle sostanze mutevoli nulla può restare identico a sé stesso.
Ma il particolare tipo di generazione al quale noi ci riferiamo, non ha origine da cause esterne, come capita nella generazione corporale di una nuova creatura.
Il suo frutto proviene invece da un atto libero della volontà.
Noi siamo perciò in certo senso padri di noi stessi, potendoci generare quali ci vogliamo e darci liberamente il volto che desideriamo o di maschio o di femmina, secondo che ci siamo lasciati guidare dalla virtù o dal vizio.
È certamente possibile anche a noi, contro il volere e con dispiacere del nostro tiranno, giungere a nascere spiritualmente e ottenere che i genitori di così bella creatura ( essi sono i buoni movimenti dell'animo ) possano ammirarla e mantenerla in vita, nonostante l'opposizione del tiranno.
Affinché ognuno, prendendo le mosse dai fatti della storia, ne possa cogliere meglio il significato recondito, vogliamo dire quale insegnamento ci dà qui la Scrittura.
Essa ci dice che l'inizio della nostra vita spirituale coincide con una nascita che reca dolore al nostro nemico.
Questa nascita è portata a buon fine dalla nostra volontà.
Ma se uno non mostrasse sopra di sé i segni visibili della vittoria sull'avversario, come potrebbe riuscire a rattristrarlo?
È compito esclusivo della libertà generare quella forte creatura che è la virtù, nutrirla con alimenti adatti e provvedere che venga salvata dalle acque senza che abbia a subire danni. 10
Coloro che consegnano i loro figli al tiranno, li espongono nudi e senza protezione alla corrente del fiume.
Chiamo fiume la vita che è agitata dalle onde incessanti delle passioni; esse sommergono e travolgono chiunque venga immerso nelle sue acque.
Ma le provvide e sagge disposizioni dell'animo, che sono padri di creature, virili, mettono al sicuro i loro figli dentro un cesto, allorché le necessità della vita le costringono ad abbandonarli alle onde.
Otterranno così che, nonostante la furia delle acque, i loro figli non finiscano affogati.
Il cesto che è formato dall'intreccio di molti giunchi rappresenta l'opera educativa, costituita da varie discipline e capace di tenere a galla sopra le onde chiunque a essa si affida.
La nuova creatura di cui siamo i padri, una volta messa al sicuro nel canestro di una solida formazione, non verrà trascinata per molto tempo alla ventura in balia di onde impetuose, ma sotto la loro stessa spinta, sarà automaticamente sbalzata dal pelago della vita sopra il terreno solido del litorale.
L'esperienza ci insegna che le persone capaci di non lasciarsi sommergere dalle umane illusioni, riescono a tenersi lontane dalle vicende tumultuose della vita, come se queste, nel loro incessante movimento, trattino come peso inutile quelli che ad esse si oppongono con la loro virtù.
La figlia del Faraone, che era sterile e senza figli ( in lei vedo simboleggiata la cultura pagana ) fa credere che il ragazzo sia suo per poter essere chiamata madre.11
Egli acconsente che duri quel fittizio legame fin quando non abbia superato l'età della fanciullezza.
Una volta arrivato all'età adulta, sappiamo che Mosè considera una vergogna essere chiamato figlio di una donna sterile.
Veramente la cultura profana è sterile, perché quando ha concepito, non porta a compimento il parto.
Quali sono i frutti derivati dalle dottrine che la filosofia pagana ha concepito in gran numero e a prezzo di tante fatiche?
Anche se tali dottrine non sempre sono del tutto vane e informi, succede che abortiscano prima di giungere alla luce della conoscenza di Dio.
Potrebbero divenire creature virili, ma nascoste come sono nel grembo di una sterile saggezza, esse finiscono per morire.
Mosè dunque ritorna vicino alla vera sua madre, dopo aver trascorso presso la regina degli Egiziani un periodo di tempo sufficiente a mostrare che era stato educato in mezzo a splendori regali.
In realtà non restò mai del tutto separato dalla madre neppure quando rimase presso la regina, perché fu proprio sua madre che lo allattò.
A mio parere qui ci viene insegnato che non dobbiamo lasciare il latte della Chiesa, nostra madre, quando nel periodo della formazione fossimo costretti a familiarizzare con dottrine estranee alla fede.12
Le leggi e gli usi della Chiesa rappresentano il latte che nutre le nostre anime e le irrobustisce, favorendone la crescita.
Mosè ci viene presentato in seguito dal testo biblico in mezzo a due nemici, che simboleggiano l'uno il complesso delle dottrine profane, l'altro l'insegnamento tradizionale.
C'è realmente un contrasto tra la religione ebraica e quella delle altre popolazioni, ed esse si battono per avere la preminenza.
Certe persone superficiali, lasciandosi persuadere, abbandonano la fede per allearsi con i suoi nemici e tradire così la dottrina dei loro padri.13
Ma chi possiede un animo grande e coraggioso come l'aveva Mosè, procura la morte a quanti si oppongono alla dottrina della fede.
Altri danno una diversa spiegazione di questo passo, dicendo che tale lotta tra nemici si svolge dentro di noi.
L'uomo infatti si trova in mezzo a due contendenti, a uno dei quali può procurare la vittoria sull'avversario, se egli si mette dalla sua parte.
Idolatria e vera religione, intemperanza e moderazione, giustizia e ingiustizia e ogni altra realtà morale in reciproca opposizione, riproducono in noi la lite tra l'egiziano e l'ebreo.
Mosè ci insegna con il suo esempio a farci alleati della virtù, sopprimendo chiunque a essa si opponga.
In realtà la vittoria della vera religione significa morte e distruzione dell'idolatria.
Parimenti l'ingiustizia viene eliminata dalla giustizia e la superbia uccisa dall'umiltà.
In noi si ripete anche la lite tra i due connazionali ebrei.
L'eresia infatti non troverebbe modo di affermarsi, se non si svolgesse dentro di noi una lotta serrata tra le vere e le false dottrine.
Quando, per il malefico influsso della cattiva condotta sui principi della verità, noi ci sentissimo deboli di fronte al dovere di difendere la sana dottrina, converrà che cerchiamo rifugio nell'adesione ai più alti misteri della fede, come ci viene indicato dall'esempio di Mosè.
Che se per necessità fossimo costretti a ritornare in mezzo agli stranieri, cioè a trattare con persone i cui principi sono contrari alla fede, questo possiamo farlo, purché anche noi allontaniamo i cattivi pastori dall'uso illegittimo dei pozzi.
In altre parole, noi dobbiamo confutare i maestri del male, che cercano di sfruttare la loro missione di insegnamento.
Vivremo allora in disparte,14 non più occupati a fare da pacieri tra persone litigiose, ma in mezzo a gente pacifica, che si trova in pieno accordo con i nostri pastori.
Ne conseguirà che anche i moti dell'anima resteranno sottomessi, come docili pecorelle, ai comandi dello spirito che li presiede.15
Mentre godiamo tale sosta di pace e di tranquillità, risplenderà su noi il sole della verità, che illumina con i suoi raggi gli occhi delle nostre anime.
Questa verità è Dio, manifestatosi a Mosè nella soprannaturale e ineffabile rivelazione, di cui abbiamo parlato.
Non dobbiamo trascurare, in relazione all'oggetto della nostra ricerca, il fatto che l'anima del Profeta venga rischiarata dalla luce proveniente da un cespuglio.
Se Dio è verità e la verità è luce, termini questi che il Vangelo applica al Dio incarnato ( Gv 1,2 ), solo la strada della virtù ci conduce alla conoscenza di quella luce divina che si è manifestata in una natura umana.
Essa non brilla a noi da un astro del cielo, per farci credere che emana da una materia celeste, ma da un cespuglio della terra, con una forza d'irradiazione superiore a quella degli astri del cielo.
In questa luce emanante dal cespuglio, noi scorgiamo il mistero della Vergine, dal cui parto sorse sul mondo la luce di Dio.
Questa lasciò intatto il cespuglio da cui proveniva, così che il parto non inaridì il fiore della verginità di lei.
La luce del cespuglio ci insegna che anche noi dobbiamo restare esposti ai raggi della vera luce.
Sulla cima ove splende la luce della verità, non si può salire con l'anima avvolta da quelle pelli di animali morti di cui fu rivestita all'inizio la nostra natura, quando ci trovammo denudati per aver disobbedito al comando divino.16
Solo se avremo tolto questi indumenti, fatti di cose morte, la verità ci si svelerà e ci rischiarerà.
Conoscere l'Essere significa liberarsi da tutte le cognizioni che hanno riferimento a ciò che non è.
La falsità è l'idea di una cosa che non esiste, ma si suppone esistente, mentre la verità è conoscenza certa di ciò che realmente esiste.
Dopo aver riflettuto a lungo e con tranquillità su problemi così ardui, nessuno riuscirà facilmente a comprendere che cosa realmente è l'Essere, che ha come prima sua proprietà quella di esistere e che cosa invece è il non essere il quale, possedendo una natura contingente, si riduce a una parvenza di essere.
Mosè nella divina visione, venne a sapere e riconoscere che nessuna delle nostre conoscenze sensibili e nessuna delle idee della nostra mente ha una reale esistenza.
Questa è posseduta invece in modo esclusivo da quella sostanza a tutte superiore che è causa del tutto e dalla quale tutto dipende.
Se fissiamo il nostro pensiero sugli altri esseri esistenti, in nessuno di loro noi possiamo scoprire quella emancipazione da legami con altri esseri che renda loro possibile esistere senza possedere l'essere per partecipazione.
Quale sarà allora l'Essere per essenza?
Esso sarà l'Essere sempre identico a se stesso, quello che non cresce e non diminuisce, non cambia in peggio o in meglio ( infatti non contiene nessun male e non c'è un altro bene che possa superano ), non abbisogna di nessun altro.
Sarà questo l'Essere unicamente desidèrabile, dal quale ogni cosa prende esistenza, ma che non si colloca al livello degli altri esseri, che hanno una esistenza partecipata.
Conoscere questo Essere equivale a conoscere la verità.
Mosè si avvicinò a lui.
Anche chi vuole imitarne l'esempio deve prima liberarsi dal peso delle cose terrene e mirare poi alla luce che esce dal roveto, simbolo questo della carne che manda su noi i suoi raggi quale luce di verità, come dice il Vangelo ( Gv 1,9 ).
Per effetto di quella luce Mosè fu completamente trasformato, tanto da poter provvedere alla salvezza degli altri.
Si diede allora a contrastare la tirannide prepotente e rovinosa con l'intento di ridare la libertà al suo popolo, sottomesso a una spietata schiavitù.
Ciò avvenne dopo che la mano mutò miracolosamente il suo colore naturale e dopo che la verga taumaturgica si cambiò in serpente.
A mio parere, questi fatti alludono al mistero dell'Incarnazione del Signore, con la quale la Divinità apparve tra gli uomini per debellare il tiranno e liberare quelli sottomessi al suo dominio.
Ci sono i testi dei Profeti e del Vangelo a suffragare queste mie dichiarazioni.
Dice il Profeta: « La destra dell'Altissimo non è più la stessa » ( Sal 77,11 ).
Il Profeta, pur continuando a considerare immutabile la natura divina, dice che essa si è esternamente mutata per accondiscendere alla nostra debolezza e ha assunto la somiglianza della nostra natura.
Secondo il racconto biblico, la mano del legislatore Mosè, non appena fu estratta dal seno, assunse un colore non naturale; quando l'ebbe rimessa là donde l'aveva tolta, riacquistò la primitiva bellezza.
Anche l'Unigenito Figlio che è nel seno del Padre ( Gv 1,18 ), è la destra dell'Altissimo.
Uscendo dal seno di Dio per apparire in mezzo a noi, egli assunse la nostra somiglianza.
Ma dopo averci purificato dalle nostre debolezze, egli portò in cielo, nel seno del Padre, quella mano che la natura gli aveva dato simile alla nostra e allora non fu la sua natura divina, immune da alterazioni, che mutò, ma fu la nostra natura umana, mutevole e passibile, che divenne inalterabile al contatto con l'Essere immutabile.
I credenti in Cristo vedendo che noi ora connettiamo l'esposizione del mistero con un animale che è il meno adatto a simboleggiarlo, cioè con il serpente nel quale si mutò la verga di Mosè, non devono sentirsi in imbarazzo.
La stessa Verità non disdegna simile accostamento quando dichiara nel Vangelo: « Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo » ( Gv 3,14 ).
La ragione è chiara: se l'autore del peccato ebbe dalla Scrittura il nome di serpente e se un serpente, come è evidente, non genera che serpenti, il peccato viene di conseguenza ad avere il nome stesso di colui che ne è stata la causa.
Ci sono le parole dell'Apostolo a testimoniare che Cristo è divenuto peccato per noi ( 2 Cor 5,21 ), dopo aver assunto la nostra natura peccatrice.
A ragione dunque viene applicato a Cristo il simbolo del serpente,17 se teniamo ben presente che serpente e peccato sono la stessa cosa e che Cristo è diventato peccato.
Cristo, divenuto peccato, si fece serpente perché questo, come abbiamo visto, altro non è che il peccato.
Fu per noi che Cristo divenne serpente onde divorare e distruggere i serpenti egiziani, chiamati a vita dai maghi.
Dopo di ciò, egli torna a essere verga per l'emendamento dei peccatori e per sostegno di coloro che salgono lungo l'erta della virtù, appoggiati alla speranza e alla fede.
La fede infatti è sostanza di cose sperate ( Eb 11,1 ).
La comprensione di queste realtà fa di noi come degli dei rispetto agli oppositori della verità che si lasciano facilmente ingannare dalle apparenze, persuadendosi che dare ascolto al vero Essere è cosa spregevole.18
Il Faraone pensa appunto così, quando dice: « Chi è mai costui perché io lo ascolti? Io non conosco il Signore » ( Es 5,2 ).
Egli apprezza soltanto le cose materiali e carnali, oggetto delle sensazioni più irragionevoli.
Mosè invece ricevette tanta forza dalla luce della verità che gli consentì di affrontare vigorosamente i suoi oppositori.
Egli fece come l'atleta che, dopo il tirocinio con il maestro di ginnastica, si accinge con coraggio e fiducia ad affrontare l'avversario.19
Mosè con in mano la famosa verga, simbolo della dottrina della fede, riuscì a eliminare i serpenti egiziani.
Sua moglie, che era forestiera, volle accompagnarlo.
Essa è simbolo della cultura profana, servendoci della quale noi potremmo anche riuscire a far maturare, in noi i frutti della virtù.
La filosofia morale e la filosofia fisica potrebbero realmente favorire un'autentica vita spirituale, qualora riuscissimo a purificare i loro dati dottrinali dalle deturpazioni di errori profani.
Siccome Mosè non aveva provveduto a distruggere totalmente ciò che era impuro e dannoso, gli mosse incontro un Angelo a minacciargli la morte.
Sua moglie allora procurò di eliminare i segni che facevano riconoscere il loro figlio come uno straniero e lo presentò, così purificato all'Angelo, cui rivolse le sue suppliche.
Dovrebbe risultare chiaro da ciò che ho detto a chi è iniziato al simbolismo della storia, che la virtù progredisce gradualmente; ciò appare nel significato simbolico delle vicende che la Scrittura va a mano a mano raccontando.
In realtà gli insegnamenti delle dottrine filosofiche contengono qualcosa come di carnale e di incirconciso.
Se lo togliamo, esse splendono di quel nobile decoro che è tutto israelitico.
La filosofia pagana insegna che l'anima è immortale e si tratta indubbiamente di un insegnamento buono.
Essa però torna alla condizione degli stranieri incirconcisi e carnali, quando dichiara che l'anima passa da un corpo all'altro, trasformandosi in una natura irrazionale.20
Simili esemplificazioni si potrebbero moltiplicare.
Così essa afferma che Dio esiste, ma poi lo concepisce come un essere materiale.21
Lo riconosce creatore, ma dice contemporaneamente che non può creare se gli manca la materia.22
Concede che egli sia buono e potente, ma ammette che spesso è soggetto alla forza del fato.23
Troppo lungo sarebbe passare in rassegna a una a una le dottrine lodevoli della filosofia profana, cui sono congiunti insegnamenti assurdi.
Se li togliamo, ci apparirà benevolo l'Angelo di Dio a mostrarci ciò che di buono contengono tali dottrine.
Indice |
10 | È importante notare il ruolo
principale che Gregorio assegna alla libertà nella vita spirituale. Non siamo ormai troppo distanti nel tempo dall'Epistula ad Demetriadem di Pelagio, che fa dipendere l'adempimento integrale della legge divina dalle sole disposizioni personali dell'uomo. |
11 | Tutta la pericope della nascita di Mosè e della sua salvezza segue l'interpretazione allegorica filoniana. |
12 | Gregorio delinea qui, nella figura di Mosè, il ritratto spirituale del fratello Basilio, come appare dalle pagine dell'elogio di Basilio ( PG 46, 809 A ), che usano il medesimo simbolismo |
13 | Abbiamo forse un riferimento alle numerose defezioni della fede avvenute durante la persecuzione di Giuliano l'Apostata ( 361-363 ). |
14 | Tutto il passo allude a situazioni concrete della cristianità dell'Oriente in quegli anni di turbamenti dottrinali e di violenze fisiche. L'ideale dell'asceta che vive nella contemplazione, lontano dal mondo, corrisponde al ritratto di san Basilio dopo gli anni di Atene, contenuto in una delle lettere di Gregorio (PG 46, 809 C). |
15 | Abbiamo qui l'eco di temi platonici e stoici intrecciati con le interpretazioni esegetiche della scuola alessandrina da Filone ( De sacrificiis Abelis et Caini, 10, 45 ) ad Origene ( Omelie su Geremia V, 6 ). |
16 | Le pelli di animali morti o tuniche
di pelle, come vengono chiamate da Gregorio in altri scritti, rappresentano la
natura animale dell'uomo, venuta in primo piano dopo il peccato originale. Esse hanno sostituito quel rivestimento di doni soprannaturali che costituiscono la vera « natura » dell'uomo, quale Dio lo concepì e quale sarà nella finale resurrezione. |
17 | Il simbolo appare già in sant'Ireneo ( Adversus Haereses III 21,8 ). |
18 | Questi accenni derivano probabilmente dal testo biblico, dove il Signore dice a Mosè: « Vedi io ti ho fatto qual Dio rispetto a Faraone » ( Es 7,1 ). |
19 | L'immagine dell'atleta è la prima espressione
letteraria dell'ideale ascetico cristiano. Essa compare per la prima volta in Clemente Alessandrino ( Pedagogo 1,8 ). È ripresa da Gregorio nel commento all'Ecclesiaste ( PG 46,617 c ), nel secondo panegirico di santo Stefano protomartire e nella vita di santa Macrina ( PG 46, 913 C ). |
20 | Critica della metempsicosi platonica, già sviluppata lungamente da Gregorio nel De anima et resurrectione ( PG 46, 113 B 116 A ) e nel trattato De opificio hominis ( PG 44, 232 A 233 B ). |
21 | Critica della concezione stoica di Dio, che
non è puro spirito ma materia nella forma più sottile dell'etere igneo. Così appare ad esempio nel famoso inno a Zeus di Cleante. |
22 | Critica della dottrina platonica dell'eternità della materia, affermata nel Filebo e nel Timeo, dialoghi dell'ultimo periodo dell'attività di Platone. |
23 | Critica della dottrina stoica dell'eimarmene, catena infrangibile delle cause e degli effetti, che determina il corso delle cose. |