Vita di Mosé |
All'epoca in cui nacque Mosè, una legge dispotica, ricordata dalla Scrittura, imponeva che i nati maschi fossero soppressi.
Ma i suoi genitori non vollero sottostare a quella legge, perché nel volto del bambino già allora splendeva la bellezza che tutti in seguito avrebbero ammirato.
Costretti, tuttavia, a cedere alle minacce del tiranno, affidarono il bambino alle acque del fiume, preoccupandosi che non venisse subito sommerso.
Lo misero in un canestro spalmato di pece e lo abbandonarono così alla corrente. ( Questi particolari ci sono riferiti con esattezza dagli storici della sua vita ).
Il canestro, come guidato dalla mano di Dio, entrò in uno dei canali laterali del fiume e finì per essere sbalzato dalla corrente sui bordi del canale stesso.
La figlia del re che passava lungo i prati proprio là dove il canestro si era fermato, lo scoprì sentendo uscirne dei vagiti.
Piena di stupore per la bellezza del bambino, decise di portarlo con sé, di curarlo e tenerlo come un figlio.
Ma il bambino, per istinto di natura, non si lasciava allattare da estranee per cui, alcune persone avvedute, appartenenti alla sua stessa razza, riuscirono a farlo allattare da sua madre.
Uscito di fanciullezza, dopo che era stato educato nelle discipline di quel popolo straniero, egli ricusò gli onori che avrebbe potuto ottenere presso di loro; si staccò dalla madre fittizia che l'aveva tenuto come figlio e tornò tra i compatrioti presso la propria madre.
Fuga nel deserto di Madian ( Es 2,11-12 )
Un giorno, imbattutosi in un ebreo e in un egiziano che litigavano, volle prender le difese del compatriota ed uccise l'egiziano.
In altra occasione si adoperò per pacificare due ebrei che rissavano furiosamente.
Inutilmente ricordò a essi che erano fratelli e avrebbero dovuto risolvere la controversia non già con l'ira ma nello spirito della reciproca comunanza di stirpe: quello dei due che aveva torto lo costrinse ad andarsene ed egli approfittò dell'offesa per acquistarsi una saggezza più alta.1
Portatosi lontano, fuori dai rumori del mondo, in luoghi solitari, si mise al servizio di una persona straniera molto saggia e sperimentata nel giudicare i costumi e la condotta degli uomini.2 Fu sufficiente l'episodio dell'assalto dei pastori perché quest'uomo comprendesse il valore del giovane Mosè.
Costui infatti si rese conto che Mosè non si era scagliato contro i pastori a scopo di lucro o di difesa essi non l'avevano provocato ma perché, giudicando un onore potersi battere per la giustizia, aveva voluto punire appunto il loro ingiusto comportamento.
Fu questo atto che gli meritò l'ammirazione del suo padrone straniero, il quale finì per dargli in moglie la figlia, tenendo in gran conto il coraggio del giovane e non badando invece alla sua povertà.
Lo lasciò libero di condurre il genere di vita che più gli gradisse.
Così Mosè, divenuto pastore di pecore, continuò a restare nel deserto, lontano dalla confusione della folla, pienamente soddisfatto di quella vita.
Fu nel tempo in cui si trovava nel deserto che, secondo la testimonianza della storia, Dio gli si manifestò in modo miracoloso.
Un giorno, in pieno meriggio, fu colpito da una luce così intensa che superava quella del sole e quasi lo accecò.
L'insolito fenomeno, pur avendolo sbalordito, non gli impedì di levare gli occhi verso la cima del monte, dove vide un chiarore di fuoco attorno a un cespuglio, i cui rami però continuavano a restare verdi anche in mezzo alle fiamme, come se fossero coperti di rugiada.
A quella vista Mosè esclamò: « Andrò a vedere questa grande visione » ( Es 3,3 ) e mentre pronunziava queste parole avvertì che il chiarore del fuoco raggiungeva contemporaneamente e incredibilmente tanto i suoi occhi come il suo udito.
Da quelle fiamme avvampanti vennero infatti a lui come due grazie diverse: l'una attraverso la luce dava vigore agli occhi, l'altra faceva risuonare alle orecchie ordini santi.
La voce proveniente dal chiarore ingiunse a Mosè di levare i calzari e di salire a piedi nudi verso il luogo in cui splendeva la luce divina.
Poiché ritengo superfluo, per l'intento che mi sono proposto, dilungarmi su tutte le singole vicende esteriori della vita di Mosè, mi basta far notare che l'apparizione divina gli donò tanta forza che fu in grado di accettare l'ordine di liberare il popolo dalla schiavitù degli Egiziani.
Egli fece esperienza della forza ricevuta, attraverso prove che Dio gli comandò di eseguire lì sul momento.
Fatta cadere per terra una verga che teneva in mano, essa si trasformò in serpente, ma non appena l'ebbe raccolta da terra, ritornò come prima.
Fu poi la volta di una mano che, appena estratta dal seno, mutò il colore della pelle, divenendo bianca come neve, ma rimessa al posto di prima riacquistò il colore naturale.
Decise allora di ritornare in Egitto conducendo con sé la moglie e il figlio.
Nel viaggio, come dice la storia, gli andò incontro un angelo, che gli minacciò la morte, ma la donna riuscì a placarlo con il sangue della circoncisione del figlio.
Anche Aronne, suo fratello, venne a incontrarlo e a parlargli secondo l'ordine che aveva ricevuto da Dio.
Il popolo che viveva disperso in mezzo agli Egiziani e oppresso sotto i lavori forzati, fu da loro convocato in assemblea, dove essi promisero a tutti la liberazione dalla schiavitù.
Il proposito fu manifestato al sovrano da Mosè stesso, ma quello si mise a opprimere ancor più gli Israeliti, mostrandosi più esigente con i sovrintendenti ai lavori.
Ordini più severi imposero la raccolta di una quantità maggiore di argilla, di paglia e di stoppa.
Quando il Faraone, tale era il nome del tiranno degli egiziani, fu informato dei portenti che Mosè aveva compiuto in mezzo al suo popolo, escogitò dei raggiri servendosi degli indovini.
Era convinto che le arti magiche di costoro avrebbero potuto riprodurre lo stesso portento delle verghe trasformate da Mosè in serpente al cospetto di tutti gli Egiziani.
In realtà, anche le verghe degli indovini divennero serpenti, ma il serpente uscito dalla verga di Mosè si lanciò su di loro e li divorò.
Questo bastò a smascherare l'errore e mostrare che la magia aveva saputo procurare alle verghe soltanto una vita effimera, capace di destare l'ammirazione di persone facili a lasciarsi ingannare.
Quando Mosè s'accorse che anche il popolo egiziano appoggiava pienamente il despota autore di quei raggiri, procurò di colpirli tutti indistintamente, con dei castighi.
Gli stessi elementi del mondo materiale, quasi un esercito agli ordini di Mosè, si schierarono contro gli Egiziani: la terra, l'acqua, l'aria, il fuoco mutarono le loro qualità naturali, ma soltanto quando si trattava di castigare gli Egiziani maldisposti verso gli Ebrei.
Quando qualcuno di questi elementi causava la punizione dei primi, contemporaneamente e nel medesimo luogo lasciava immuni gli altri, perché innocenti.
Così le acque d'Egitto si mutarono in sangue coagulato che, formando una massa compatta, fece morire i pesci.
Ma per gli Ebrei l'acqua restò quella che era, anche se, per il suo apparente colore, poteva essere scambiata per sangue.
Gli indovini presero a pretesto l'apparenza di sangue che aveva l'acqua usata dagli Ebrei, per ordire nuovi inganni.
Una moltitudine di rane riempì in seguito tutto l'Egitto.
Esse non venivano da una eccezionale proliferazione della natura, ma le fece accorrere in numero straordinario un ordine di Mosè.
Penetrarono così in tutte le case degli Egiziani, causando gravi danni, ma non toccarono quelle degli Ebrei.
Il nuovo castigo degli Egiziani fu di non riuscire più a distinguere il giorno dalla notte.
Restarono avvolti in una oscurità continua, mentre gli Ebrei non trovarono mutato il consueto alternarsi di luce e tenebre.
Molte altre calamità vennero suscitate da Mosè contro gli Egiziani: la grandine, il fuoco, le mosche, le pustole, i topi, gli sciami di cavallette.
Tutte queste cose procurarono danni di maggiore o minore entità in conformità con la loro specifica natura.
Come sempre, gli Ebrei non subirono danno alcuno, ma ne venivano a conoscenza dalle grida e dalle informazioni dei loro vicini Egiziani.
Tuttavia il fatto che rese più evidente questa diversità tra Ebrei ed Egiziani, fu la morte dei primogeniti.
Davanti ai loro figli più cari trovati morti, gli Egiziani levarono grandi grida di dolore, mentre tra gli Ebrei c'era piena tranquillità e sicurezza.
Essi infatti avevano segnato gli stipiti delle porte di ogni loro casa con il sangue degli agnelli uccisi e questa fu la ragione della loro salvezza.
Mosè non appena vide gli Egiziani colpiti indistintamente con la morte dei loro primogeniti e, per tanta disgrazia, immersi nel dolore e nel pianto, diede agli Israeliti l'ordine della partenza, rendendoli docili con l'invito a chiedere agli Egiziani le loro suppellettili, a titolo di prestito.
Per tre giorni gli Ebrei camminarono fuori dei confini dell'Egitto, ma l'Egiziano, ci dice la storia, dispiaciuto che Israele non fosse più sottoposto alla sua schiavitù, decise di assalirli con la forza, mandando contro di loro un esercito di cavalieri.
Alla vista dell'esercito con armi e cavalli gli Ebrei, poco pratici di guerra e non abituati a tali spettacoli, si spaventarono e si ribellarono a Mosè.
Ma qui la storia riferisce sul conto di questi un fatto quasi incredibile: mentre infatti egli moltiplicava le energie per incoraggiare i suoi, esortandoli a nutrire buone speranze, nel suo intimo supplicava il Signore che li liberasse dalle angustie.
Riferiscono che Dio intese quel grido silenzioso, consigliando a Mosè come scampare dal pericolo.
Intanto era apparsa una nube a far da guida al popolo.
Essa non consisteva di vapori umidi, soggetti a condensazione, come normalmente avviene.
Era una nube dalla straordinaria composizione cui corrispondevano altrettanto straordinari effetti.
Infatti era guidata dal Signore e, se stiamo alle informazioni del racconto, avveniva questo: quando i raggi del sole splendevano con forza, la nube faceva da riparo al popolo, mandando ombra a chi le stava sotto e insieme una sottile rugiada, che rinfrescava l'aria infuocata; di notte invece, si trasformava in fuoco che, da sera fino all'alba, mandava luce sul cammino degli Israeliti3
Mosè la seguiva e altrettanto raccomandava di fare al popolo.
Giunsero così, dietro tale guida, sulle rive del Mar Rosso.
Ma l'esercito egiziano piombò alle spalle degli Israeliti, mettendoli in grave angustia, poiché non avevano altra via di scampo che spingersi dentro il mare.
Sorretto dalla forza di Dio, Mosè operò allora un prodigio grande, incredibile.
Stando sulla riva del mare, ne colpì con la verga le acque ed ecco, sotto i colpi della verga, il mare si divise e le onde, rotte a una estremità, portarono la loro spaccatura fino alla riva opposta, proprio come succede in un vetro, quando la frattura fatta a un capo si estende fino all'altro capo.
Tutti, Mosè e il popolo, scesero nel fossato che aveva diviso in due il mare e lì non solo si trovarono all'asciutto, ma perfino il sole arrivò ad avvolgerli con la sua luce.
Attraversarono allora a piedi il fondo asciutto del mare, senza paura delle pareti di ghiaccio che di qua e di là si levavano come un muro.4
Anche il Faraone entrò coi suoi per la strada aperta in mezzo alle acque, ma queste subito tornarono ad accavallarsi e confondersi e il mare, ripresa uniformità d'aspetto, ricominciò a fluire alla maniera consueta.
Quando gli Israeliti avevano ormai terminato il tragitto sul fondo del mare e si trovarono sull'altra riva, intonarono un inno di vittoria in onore del Signore, che aveva drizzato innanzi a loro un trofeo non intriso di sangue5 e aveva sommerso nelle acque gli Egiziani, con cavalli, carri e armi.
Avanzarono nel deserto per tre giorni, senza trovare acqua.
Mosè era preoccupato per l'impossibilità di soddisfare la sete di tante persone.
Si accamparono attorno a una palude dalle acque salate e più amare di quelle del mare.
La gente, divorata dalla sete, fissava, seduta sui bordi, l'acqua della palude.
Ma ispirato da Dio, Mosè andò in cerca di un pezzo di legno e lo gettò nelle acque: subito esse divennero dolci.
Per effetto del legno, l'acqua amara era diventata dolce.
Poiché la nube riprese a precederli, essi non avevano che da seguire gli spostamenti di quella guida, stando a questa regola: se la nube si fermava sospendevano la marcia; viceversa quando riprendevano il cammino, la nube tornava a guidarli.
Seguendola, giunsero in una località ricca di buone acque, che zampillavano tutt'intorno da dodici abbondanti fonti, ombreggiate da un boschetto di palme.
Erano appena settanta queste palme, ma tanto alte, belle e grosse da lasciare meravigliati chi le mirava.
La nube li guidò verso un'altra località, dove fecero sosta.
Il luogo era deserto, coperto di sabbia asciutta e bruciata, senza alcuna vena d'acqua che lo inumidisse.
Di nuovo allora tornò la sete a tormentarli e Mosè procurò acqua dolce, buona e abbondante più del bisogno, facendola ancora scaturire da una roccia della collina, colpita con la sua verga.
Intanto si era esaurita la provvista di cibo che ciascuno aveva preso per il viaggio e si trovavano ormai stretti dalla fame, quando avvenne un'incredibile meraviglia.
Il cibo arrivò non dalla terra come è normale, ma dal cielo, al pari di rugiada.
Proprio come una rugiada infatti esso scendeva di mattina, ma nell'atto in cui lo raccoglievano, trovavano che si trattava di cibo.
Non erano infatti delle gocce, come avviene nella rugiada, ma certi grani cristallini, simili al seme di coriandro, rotondi e dal sapore di miele.
I fatti riguardanti la raccolta di questo cibo hanno dello straordinario: succedeva anzitutto che i più deboli non raccogliessero meno degli altri, tutti invece finivano per avere una porzione eguale, anche se età e capacità fisiche erano differenti e ciascuno cercasse di raccoglierne in proporzione dei propri bisogni.
Ma non mancava qualcuno che, non accontentandosi del fabbisogno quotidiano, ne ammassava per il giorno seguente.
Orbene, la porzione accantonata diveniva immangiabile, trasformandosi in vermi.
Solo nel giorno precedente a quello consacrato, per mistica ragione, al riposo, ognuno scopriva di aver raccolto una porzione doppia, nonostante che la quantità discesa e raccolta fosse la medesima degli altri giorni.
Avveniva questo, perché la necessità di raccogliere il cibo, non servisse di pretesto per violare la legge del sabato.
Si trovavano dunque di fronte a una più chiara manifestazione della divina Potenza.
Infatti negli altri giorni, il cibo preso in più si guastava; esso invece restava intatto e non meno fresco del solito, quando veniva raccolto per il sabato, che era il loro giorno festivo.
Gli Amaleciti, una popolazione straniera, mossero guerra contro di loro.
Era la prima volta che il popolo d'Israele scendeva armato a combattere.
Furono in realtà uomini appositamente scelti quelli che sostennero la battaglia, non già tutto il popolo, ma veri e propri soldati, in grado di condurre una guerra.
In quell'occasione Mosè sperimentò una strategia nuova.
Nel tempo stesso in cui l'altro capo degli Israeliti, Giosuè, muoveva con l'esercito contro gli Amaleciti, Mosè in disparte stava sopra un colle, con gli occhi rivolti al cielo, assistito di qua e di là da due aiutanti.
Il racconto ci fa sapere che l'esercito d'Israele aveva il sopravvento sui nemici, fin quando Mosè teneva sollevate le mani al cielo; cedeva invece ai loro assalti, quando anche le mani di Mosè si lasciavano andare.
Ciò costatando, i due assistenti pensarono di tenergli sollevate le braccia, divenute, per ignote ragioni, troppo pesanti per stare alzate da sole.
Ma anch'essi si stancarono di restare in quella posizione e perciò fecero accomodare Mosè su un seggio di pietra; così gli fu più facile tener sollevate le mani verso il cielo.
Nel frattempo gli Israeliti riuscirono a travolgere i loro nemici.
La nube continuava a guidarli dall'alto e, seguendola, non avrebbero potuto perdere la giusta direzione.
Avevano dunque di che vivere senza troppe fatiche, giacché il pane pioveva dal cielo già pronto, né mancava acqua da bere, scaturendo essa dalla roccia.
La nube da parte sua li proteggeva contro il calore del giorno, e di notte, risplendendo come fuoco fiammeggiante, disperdeva le tenebre.
Durante una sosta nel deserto ai piedi di una montagna, dove avevano piantato l'accampamento, subirono una prova dolorosa.
In compenso là furono iniziati da Mosè ai misteri divini.
Fu anzi Dio stesso che introdusse Mosè e il popolo ai suoi misteri per mezzo di grandiosi miracoli.
Questa mistagogia avvenne in questo modo.
Fu dato ordine al popolo che si tenesse lontano da ogni impurità di corpo e di anima.
Dovevano anche compiere diverse abluzioni e astenersi dal matrimonio in determinati giorni.
Purificati da queste osservanze e liberate le loro anime dalle passioni, essi dovevano salire verso il monte, per essere introdotti ai misteri di Dio.6
Il nome di questa montagna era il Sinai.
L'accesso a questo monte era permesso solo alle persone di sesso maschile, purché si fossero purificate da ogni macchia.
Venne predisposta anche una rigorosa sorveglianza per impedire che non vi si trovasse nessun animale e per scacciano immediatamente, qualora se ne fosse scoperta la presenza.
L'aria, prima chiara e luminosa, si fece improvvisamente oscura e una nube venne a coprire il monte.
Davanti a simile spettacolo, molti incominciarono a tremare di paura e ancor più s'impaurirono, quando videro un fuoco provenire dalla nube e circondare tutta la montagna insieme a nubi di fumo.
Mosè avanzava davanti a tutti, ma anch'egli guardando a quanto succedeva, si sentiva agitato dalla paura.
Tremava al pari degli altri e, non riuscendo a nascondere il suo stato d'animo, confessò apertamente il terrore che si era impossessato di lui, visibile del resto anche dal tremore delle sue membra.
Dall'apparizione usciva un suono terrificante così che la loro paura traeva alimento dalla vista e dall'udito.
Era un suono simile a quello di numerose trombe, grave e spaventevole come mai fu dato di udire.
Nessuno, al suo primo esplodere, poté sostenerne il rimbombo.
Più il suono si avvicinava e si spandeva attorno, più metteva paura.
Poi, per divina virtù, si espresse in voce articolata, come quella degli organi vocali e formulò un discorso, ritrasmesso dall'aria.
Non erano parole di cui si potesse tener poco conto, poiché esse comunicavano gli ordini di Dio.
Avvicinandosi, la voce cresceva di intensità e le parole risuonavano assai più forti e distinte che non il suono di tante trombe, come era all'inizio.7
Ma il popolo non riuscì né a sostenere la visione, né a percepire i suoni.
Tutti allora, di comune accordo, chiesero a Mosè che si incaricasse di trasmettere loro gli ordini provenienti dalla voce.8
Tutti erano persuasi che si trattasse di un insegnamento soprannaturale, ossia di una rivelazione divina.
Essi si ritrassero e scesero dal monte, lasciandovi Mosè, solo.
In lui allora successe il contrario di quanto avviene normalmente.
Rimasto solo, si sentì pieno di coraggio, come nessun altro avrebbe potuto averne, mentre di fronte a cose spaventose di solito si prende coraggio quando si è in molti.
Questo significa che la paura iniziale non derivava propriamente da lui, ma dall'influsso che su di lui aveva la paura degli altri.
Non appena egli fu lontano dalla folla timorosa, ebbe l'ardire di entrare solo nella nube e, scomparso ormai alla vista di chi lo guardava, s'accostò alle realtà invisibili.
Non visto, stava dunque vicino all'Essere invisibile, insegnando, a mio parere, con questo fatto, che chiunque voglia unirsi a Dio deve estraniarsi dalle cose visibili, per volgere la sua mente alla cima di quei monte che è l'Essere invisibile e incomprensibile, cioè l'Essere divino.
Esso si trova là dove non può arrivare la comprensione dell'intelligenza.
Mosè giuntovi, ricevette i divini comandamenti, che sono un ammaestramento alla virtù.
Il primo di essi riguarda la virtù della religione e ci impone di avere esatte cognizioni intorno alla natura divina.
Dobbiamo pensare che essa supera ogni nostra cognizione derivata dai sensi o dall'intelligenza, così che risulta impossibile qualsiasi paragone tra le nostre cognizioni e la natura divina.
Non dobbiamo dunque definire Dio secondo concetti umani, perché la sua natura è superiore a tutte le cose dell'universo e non ha alcuna somiglianza con quanto noi conosciamo.
Dobbiamo soltanto credere che essa esiste, senza darci pensiero di cercare la sua qualità e quantità, l'origine e le modalità della sua esistenza: tutto questo sarebbe infatti irraggiungibile dal pensiero umano.
I comandamenti divini, così come erano formulati, contenevano anche ammaestramenti atti alla correzione dei costumi.
Essi si possono distinguere in leggi generali e leggi particolari.
La legge generale che comandava l'amore al prossimo, era atta a togliere alla radice ogni ingiustizia.
Da essa deriva il dovere di non far del male agli altri.
Alle leggi particolari apparteneva l'obbligo del rispetto verso i genitori.
Era poi elencata e condannata tutta una serie di altre mancanze.
Purificato da queste leggi, Mosè venne introdotto a più alti misteri, quando Dio gli presentò. la complessa costruzione del Tabernacolo.
Era un tempio la cui bellezza e varietà non possono essere facilmente descritte.
Comprendeva un ingresso a colonne, tendaggi, lampadari, tavole, un altare dei sacrifici e un altare degli olocausti e nell'interno un santuario inaccessibile.
Dio ordinò a Mosè di edificare quell'edificio di armoniosa bellezza, affinché i posteri ne conservassero il ricordo e ancor più ne ammirassero la meraviglia.
Perciò Mosè non doveva limitarsi a descrivere il Tabernacolo da lui visto in cielo, ma doveva riprodurlo in una costruzione visibile qui in terra, usando i più preziosi e più splendidi materiali che potesse trovare.
I fusti delle colonne furono rivestiti d'oro, i loro capitelli d'argento, mentre le basi erano di bronzo.
Questa varietà di colori aveva, a mio parere, lo scopo di dare maggior risalto ed estensione al bagliore dell'oro.
Le parti in bronzo stavano immediatamente sopra e sotto quelle in argento.
Anche i tessuti dei tendaggi, delle coperture e dei drappi che correvano attorno al Tabernacolo ed erano stesi sopra le colonne, furono fatti di materiali finissimi, dalle tinte più varie: l'azzurro e la porpora, il rosso fuoco o il bianco naturale e vivace del lino.
Infatti, alcuni tessuti destinati a usi particolari, erano di lino, altri invece di crine.
I drappi in rosso contribuivano da parte loro a rendere più attraente tutto il complesso.
Appena sceso dal monte, Mosè incominciò la costruzione del Tabernacolo, servendosi di aiutanti per l'esecuzione.
Già in antecedenza, quando ancora stava nel Tabernacolo celeste, Mosè ricevette da Dio istruzioni circa i paramenti che avrebbe dovuto indossare il Sommo Sacerdote, entrando nel sacrario.
C'erano vesti esterne e vesti interne e Dio gliele fece conoscere in tutti i particolari, incominciando da quelle esterne.
Comprendevano anzitutto gli omerali, il cui colore corrispondeva a quello delle tende del Tabernacolo ma recavano anche ricami in oro.
Ai due lati erano trattenuti da fibbie cerchiate d'oro e splendenti di smeraldi.
Da queste bellissime pietre irradiavano bagliori verdognoli.
Erano oggetto di ammirazione anche i ceselli che le ornavano, presentandosi però in forma diversa da quella dei culti idolatrici.
Invece di idoli vi erano incisi i nomi dei Patriarchi, sei nomi per ciascuna pietra: davvero una meraviglia!
Attaccati alle fibbie, sul davanti, c'erano piccoli scudi, da cui pendevano, a modo di rete, cordicelle intrecciate, di bellissimo effetto, perché ricevevano risalto dalle parti sottostanti.
Anche sul petto, il Sommo Sacerdote portava una stoffa lavorata in oro; vi apparivano, disposte su quattro file, pietre preziose di diverso tipo, tante quanti sono i Patriarchi.
Ogni fila comprendeva tre pietre e ogni pietra portava incisi i nomi dei capostipiti delle tribù.
Sotto gli omerali scendeva fino ai piedi una tunica, intorno alla quale correva una bella frangia, decorata di vari ricami e alla quale erano sospesi campanelli dorati e piccole melograne, che la dividevano simmetricamente.
Sul capo il Sommo Sacerdote portava una fascia di colore violaceo e in fronte una lamina d'oro, su cui erano incise parole arcane.
Le pieghe troppo larghe della tunica erano strette da una fascia, e un apposito indumento copriva le parti del corpo che vanno coperte.
Ogni singola veste e ogni suo ornamento erano simbolo e richiamo di corrispondenti virtù richieste nel Sommo Sacerdote.
Dio dopo aver impartito a Mosè questi arcani insegnamenti, gli comandò di uscire dalla nube caliginosa e scendere, interiormente rinnovato, là dove si era accampato il popolo, per far conoscere a tutti ciò che gli era stato mostrato nella teofania: le leggi, il tabernacolo, il sacerdozio, tutto secondo gli esemplari visti sul monte.
Egli portava in mano le sacre tavole consegnategli da Dio; esse non erano dovute al lavoro dell'uomo ma tutto, sia il materiale di cui eran fatte, sia le lettere che vi si vedevano incise, era opera di Dio.
Ma il popolo, prima che il Legislatore scendesse dal monte, si era dato all'idolatria, rendendo così inutile il dono della legge che figurava scritta sulle tavole.
Infatti, durante i quaranta giorni e le quaranta notti del lungo colloquio di Mosè con Dio nella nube caliginosa, quando egli veniva iniziato ai misteri divini e faceva esperienza di una vita non più terrena, ma soprannaturale ( il suo corpo per tutto quel periodo non ebbe bisogno di cibo ), il popolo si lasciò andare ad azioni disordinate, come farebbe un fanciullino, quando non si sente più sorvegliato dal pedagogo.
Tutti, infatti, si recarono da Aronne e lo costrinsero a farsi promotore di un culto idolatrico.
Costruirono un idolo d'oro in forma di vitello e stavano già raccogliendosi intorno all'empio simulacro, quando sopraggiunse Mosè, che infranse contro di esso le tavole consegnategli da Dio.
Questo fece per castigare il loro peccato e per significare che avevano perduto la grazia del Signore.
I trasgressori lavarono con il loro sangue la macchia di tanto delitto e la loro punizione, che riuscì a placare il Signore, fu affidata ai Leviti.
Mosè fece distruggere anche l'idolo, poi, passati altri quaranta giorni, tornò con altre tavole.
Questa volta aveva dovuto lui stesso procurarsi le pietre, mentre la Potenza divina provvide solo a incidervi le lettere.
Anche in quell'occasione, prima del ritorno con le nuove tavole, era vissuto quaranta giorni in maniera straordinaria e soprannaturale, senza sentire alcun bisogno di cibo.
Innalzato il Tabernacolo per il servizio religioso e date le leggi, stabilì il sacerdozio, conforme alle indicazioni ricevute dal Signore.
Furono eseguite anche molte altre opere inerenti al Tabernacolo: la sistemazione dell'ingresso e quella dell'interno, l'altare dell'incenso e l'altare degli olocausti, il candelabro, i drappi, il santuario interno, destinato alla preghiera, le vesti sacerdotali, i profumi, le cerimonie sacre, le purificazioni, le orazioni di ringraziamento, quelle per scongiurare i malanni e di propiziazione per i peccatori, tutto fu ordinato in conformità alle istruzioni ricevute.
Ma l'invidia, male congenito della natura umana, si insinuò nell'animo dei suoi stessi familiari, di Aronne suo fratello, che pure aveva l'onore del sommo sacerdozio e di Maria, sua sorella, che fu presa da una gelosia tutta femminile per gli onori che Mosè aveva ricevuto da Dio.
Costoro osarono muovere gravi critiche contro Mosè, tanto che il Signore non poté lasciare impunita tale colpa.
In quella circostanza si rivelò l'ammirevole mansuetudine di Mosè perché, volendo Dio punire la cattiveria della sorella egli, superando il risentimento, supplicò il Signore in suo favore.
Mormorazioni per il cibo ( Nm 11 )
In seguito ci fu una ribellione tra il popolo, causata dai piaceri smoderati del ventre.
Infatti, non erano contenti di vivere bene, senza malattie, con il cibo che scendeva dal cielo, ma desideravano avere la carne, disprezzando così i beni che avevano a disposizione e rimpiangendo i tempi della schiavitù sotto gli Egiziani.
Mosè parlò al Signore per queste lamentele e il Signore, pur manifestando il suo disappunto, fece in modo che avessero quanto desideravano, mandando sull'accampamento una moltitudine di uccelli, che volavano raso terra.
Questo facilitò la loro cattura e la gente ebbe la carne tanto bramata.
Ma avendo a disposizione molta varietà di cibi, ne usarono per preparare intingoli dannosi alla salute, causa di malattie e perfino di morte.
Viste tali conseguenze rovinose, si ridussero a migliori consigli, cosa che dovrebbe ripetersi a beneficio di chiunque si soffermi a meditare su tali fatti.
Il paese che per assegnazione divina, avrebbero dovuto abitare, fu perlustrato da osservatori inviati da Mosè.
Ma, in seguito alle false notizie riferite da alcuni di loro, il popolo di nuovo si adirò contro di lui.
Dio, vedendo tanta diffidenza nel suo aiuto, impedì loro per castigo che potessero giungere a vedere la terra promessa.
Continuava frattanto la marcia attraverso il deserto e di nuovo venne a mancare l'acqua.
Si era ormai dileguato dalla loro memoria il ricordo del miracolo con cui precedentemente il Signore aveva fatto scaturire l'acqua dalla roccia.
Essi perciò non avevano fiducia di ottenere da Dio ciò di cui abbisognavano.
Giunsero perfino, nella loro disperazione, a lanciare oltraggi contro Dio e contro Mosè e sembrò che anche questi stesse per cadere nell'incredulità.
Avrebbe Dio mutato ancora la dura roccia in acqua, con un nuovo miracolo?
In preda ancora una volta alle basse brame della gola, essi rimpiangevano i pasti abbondanti dell'Egitto, sebbene non mancasse loro il necessario.
I promotori della ribellione, tutti giovani, furono puniti da serpenti, che li assalirono e li morsero, iniettando in loro un veleno mortale.
Molti infatti morirono e Mosè allora, per suggerimento del Signore, fece innalzare su un'altura, al cospetto dell'intero accampamento, un serpente di bronzo.
Il danno arrecato dai serpenti in mezzo al popolo fu fermato e tutti si sentirono liberati dall'estrema rovina.
Bastava volgere gli sguardi all'immagine bronzea del serpente, per essere immunizzati dai morsi dei veri serpenti, come se il loro morso, per una misteriosa operazione, iniettasse un veleno dolce.
Avvenne una nuova rivolta del popolo contro i capi, perché costoro volevano assumere con la forza la dignità sacerdotale.
Mosè si presentò ancora al Signore, supplicandolo in favore dei rivoltosi, ma questa volta le decisioni della divina Giustizia ebbero il sopravvento sui suoi sentimenti compassionevoli.
Il Signore provocò nel terreno l'apertura di una voragine che, rinchiudendosi, divorò tutti quelli che si erano sollevati contro l'autorità di Mosè.
Coloro che avevano voluto usurpare il sacerdozio con la violenza, circa duecentocinquanta persone, furono bruciati vivi e questa punizione fece diventare più saggi gli altri.
Per persuaderli che la grazia del sacerdozio viene dal Signore, Mosè consegnò una verga ai capi di ciascuna tribù, facendovi incidere il loro nome.
Tra le verghe c'era anche quella del Sommo Sacerdote Aronne.
Collocate davanti all'altare, le verghe indicarono senza equivoci chi il Signore aveva scelto alla dignità sacerdotale.
Infatti, sola fra tutte, la verga di Aronne germogliò dal suo fusto ( era legno di noce ), produsse e maturò un frutto.
La cosa fu giudicata miracolosa perfino dai più scettici, visto che si trattava di un legno secco, legato in fascio con gli altri, senza radice, eppure produsse un frutto, come si fosse trattato di una pianta viva.
La Potenza divina aveva dunque operato in quel legno ciò che normalmente e insieme operano il terreno, l'umidità, la corteccia e la radice.
Dopo questi fatti, Mosè fece avanzare le sue schiere verso il territorio di una popolazione straniera, che però non permise a loro di passare.
Ciononostante egli riuscì ugualmente a seguire la strada maestra, senza deviare dall'esatta direzione.
Quei nemici non si diedero per vinti ma, sconfitti in battaglia, lasciarono via libera a Mosè.
Un certo Balac, re degli Edomiti, un popolo piuttosto evoluto, visto ciò che era capitato ai prigionieri catturati dagli Ebrei, e temendo di subire la stessa sorte, mandò in soccorso dei Madianiti non un esercito armato ma un certo Balaam, maestro nelle arti magiche e divinatorie, di cui menava gran vanto e da cui s'aspettava sorprendenti risultati.
Egli esercitava l'arte della divinazione con l'aiuto del demonio.9
Sapeva perciò incutere timore e causare gravi danni alle persone superstiziose.
Mentre stava percorrendo la strada insieme a quelli che erano venuti a condurlo dal re, egli si sentì dire dalla voce del suo asino, che la sua sarebbe stata una fatica vana.
Fu poi istruito da un'apparizione come comportarsi.
Così ogni malefico influsso della magia risultò annullato, dal momento che egli non maledisse affatto gli Ebrei impegnati in una battaglia, nella quale avevano l'appoggio di Dio.
Non più ispirato dalle potenze demoniache, ma da Dio stesso, pronunciò parole profetiche circa gli eventi futuri.
Sottratto alle arti del male, avendo preso coscienza dell'Onnipotenza divina, abbandonò le pratiche divinatorie e si fece interprete della divina volontà.
Israele, che ormai si era fatto forte nelle azioni di guerra, riuscì a sterminare il popolo dei Madianiti, ma fu a sua volta sconfitto a causa dell'incontinenza nei riguardi delle donne prigioniere.
Finees passò a fil di spada quanti si contaminarono con tali unioni illegittime e allora si placò l'ira del Signore contro i colpevoli, che la passione aveva travolto.
Fu quella l'epoca in cui Mosè, il grande Legislatore, abbandonò questa vita terrena, dopo che poté osservare da lontano, sulla cima di un monte, la terra assegnata a Israele con promesse già fatte agli antichi patriarchi.
Egli non lasciò in terra nessun vestigio corporale né il ricordo della sua partenza è legato a qualche particolare luogo di sepoltura.
Gli anni non offuscarono la sua grazia, ne lo splendore dei suoi occhi, né la maestà del suo volto.
Sebbene la natura sia soggetta a continui cambiamenti, egli mantenne immutata la sua bellezza.
Ti ho presentato in sunto la storia di quest'uomo, così come l'abbiamo appresa, dilungandomi necessariamente su quei fatti che interessano da vicino il nostro tema.
È venuto il momento di applicare le vicende ora esposte allo scopo della nostra trattazione e dobbiamo perciò riprendere da capo tutta la storia.
Indice |
1 | L'interpretazione del soggiorno di Mosè a Madian data qui da Gregorio, deriva dalla Vita di Mosè di Filone ( Vita Moysis 1, 9, 46 50 ), che lo presenta come un periodo di purificazione ascetica. |
2 | Si tratta di Jetro, sacerdote di Madian. Cf Es 2,16; Es 18,1 |
3 | Questi elementi della scienza fisica antica relativi alla composizione delle nubi, sono trattati da Gregorio anche in altre sue opere come l'Explicatio in Exaemeron ( PG 44, 97 D ), e i Libri contra Eunomium ( PG 45, 344 B 577 A ). |
4 | Il testo biblico (
Es 14,22 ) parla di « uraglia », prodotta dalle acque. La precisazione che si trattasse di pareti di ghiaccio è un'ovvia deduzione, già contenuta in Filone, Vita Moysis 1, 32, 177 180. |
5 | L'espressione significa: una vittoria incruenta, senza spargimento di sangue. Essa deriva dalla terminologia relativa al martirio nei primi secoli della Chiesa. Il martirio infatti era un segno di vittoria, ma intriso del sangue dei martiri. |
6 | La teofania del Sinai, è qui presentata come un « mistero » nella linea della interpretazione allegorica alessandrina, che prese le mosse da Filone ( Vita Moysis 3,3 ). |
7 | Questa descrizione dell'esperienza concreta della trascendenza si trova in altri passi dell'opera di Gregorio, come ad esempio nelle omelie del commento al libro dell'Ecclesiaste ( PG 44,732 B ). |
8 | Il tema di Mosè mediatore è ripreso dallo stesso Gregorio nel trattato Sulle Iscrizioni dei Salmi ( PG 44,457 B C ). Nel racconto biblico l'allontanamento del popolo e il suo ritorno ai piedi del monte sono in un primo tempo attribuiti all'iniziativa di Mosè ( Es 19,23 ), mentre l'attribuzione al popolo dell'iniziativa è documentata in Es 20,18-21. |
9 | Per quanto la Bibbia non parli di questo aiuto del demonio, è un tema caro a tutta l'antica esegesi cristiana. |