Summa Teologica - II-II

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Articolo 8 - Se l'uomo forte provi piacere nel proprio atto

In 3 Ethic., lect. 18

Pare che il forte provi piacere nel proprio atto.

Infatti:

1. Il piacere, al dire di Aristotele [ Ethic. 7, c. 12 ], consiste in « un atto connaturale al proprio abito compiuto senza impedimenti ».

Ma l'atto dell'uomo forte deriva da un'abito, il quale agisce come una seconda natura.

Quindi chi è coraggioso prova piacere nel proprio atto.

2. Nel commentare quel testo di S. Paolo [ Gal 5,22 ]: « Frutto dello Spirito è carità, gioia, pace », S. Ambrogio [ cf. P. Lomb., Sent. 1,1,3 ] afferma che gli atti virtuosi sono chiamati frutti poiché « ristorano l'anima dell'uomo con una gioia pura e santa ».

Ora, il coraggioso compie atti di virtù [ cioè di fortezza ].

Quindi egli prova gioia nel proprio atto.

3. Ciò che è più debole è vinto da ciò che è più forte.

Ma il coraggioso ama il bene morale più del proprio corpo, che è da lui esposto ai pericoli di morte.

Quindi il gusto del bene morale toglie il dolore fisico.

E così egli agisce con pieno diletto.

In contrario:

Il Filosofo [ Ethic. 3,9 ] insegna che nel suo agire l'uomo coraggioso « non pare avere nulla di piacevole ».

Dimostrazione:

Come si è detto nel trattato sulle passioni [ I-II, q. 31, a. 3 ], ci sono due tipi di godimento: il primo corporale, che deriva dal senso del tatto; il secondo spirituale, che deriva dalla conoscenza dell'anima.

Ed è quest'ultimo che propriamente accompagna le azioni virtuose, in quanto in esse viene percepito il bene di ordine razionale.

Ora, l'atto principale della fortezza è il resistere, cioè il sopportare delle prove dolorose secondo l'apprensione dell'anima, come la perdita della vita fisica ( che l'uomo virtuoso ama, non solo perché è un bene naturale, ma anche perché è indispensabile per l'esercizio delle virtù ), e quanto ad essa si riconnette; come pure il sopportare dei dolori fisici, ad es. ferite e flagelli.

Quindi il forte da una parte, cioè secondo il godimento spirituale, ha ciò di cui rallegrarsi, vale a dire il compimento dell'atto virtuoso e la prospettiva del fine; dall'altra invece ha di che dolersi, sia spiritualmente, nel considerare la perdita della propria vita, sia corporalmente.

Da cui le parole di Eleazaro [ 2 Mac 6,30 ]: « Io soffro nel corpo atroci dolori, ma nell'anima sopporto volentieri tutto questo per il tuo timore ».

Ora, il dolore sensibile del corpo impedisce di sentire il godimento spirituale della virtù, a meno che la sovrabbondanza della divina grazia non sollevi l'anima alle cose di Dio, dove essa trova la sua gioia, più fortemente di quanto essa sia afflitta dai dolori del corpo: come si legge [ Legenda aurea 23,3 ] di S. Tiburzio il quale, camminando a piedi nudi sui carboni ardenti, disse che gli pareva di camminare su petali di rose.

Tuttavia la virtù della fortezza fa sì che la ragione non venga sopraffatta dai dolori fisici.

Il godimento della virtù vince poi la tristezza sensibile: inquantoché uno preferisce la virtù alla vita corporale e ai beni annessi.

Perciò il Filosofo [ Ethic. 3,9 ] afferma che « dall'uomo forte non si richiede che goda come se sentisse piacere, ma basta che non si abbandoni alla tristezza ».

Analisi delle obiezioni:

1. L'intensità di un atto o di una passione che si produce in una potenza ostacola le altre potenze nell'esercizio dei loro atti.

Perciò il dolore dei sensi può impedire alla mente dell'uomo forte di provare piacere nella propria operazione.

2. Le azioni virtuose sono piacevoli specialmente in vista del fine, ma possono essere mortificanti per la loro natura.

E ciò si verifica soprattutto nella fortezza.

Da cui le parole del Filosofo [ l. cit. ], il quale afferma che « non in tutte le virtù l'operazione è piacevole, se non in quanto essa raggiunge il fine ».

3. Nell'uomo forte il dolore sensibile è vinto dal diletto della virtù.

Siccome però il dolore del corpo è percepito più intensamente nella sensibilità, e la conoscenza sensitiva è per l'uomo più manifesta, è chiaro che per la gravità del dolore fisico il diletto spirituale, che ha per oggetto il fine della virtù, quasi svanisce.

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