Supplemento alla III parte |
1 - Nelle prime otto questioni del volume XXX continua il trattato sulla Penitenza, che ha occupato con la sua mole imponente tutto il volume XXIX.
La tirannia dello spazio ha imposto questo smembramento nella nostra edizione bi lingue della Somma Teologica.
Ma forse non tutto il male vien per nuocere; poiché l'innaturale suddivisione ci offre il pretesto se non altro di trattare con una certa ampiezza due questioni di attualità: le censure ecclesiastiche e le indulgenze.
S. Tommaso aveva dedicato pochi articoli a codesti temi nel suo Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo.
Da essi l'ignoto compilatore del Supplemento ha ricavato sette brevi questioni ( qq. 21-27 ), limitandosi a disporre i testi dell'Aquinate secondo lo schema espositivo della Somma Teologica.
A chi fosse in vena di contestare il tono di attualità del nostro discorso, diremo subito che per noi la Somma Teologica non è un cimelio storico: è un libro sempre attualissimo per la riflessione teologica.
E d'altra parte anche quando ce ne servissimo di pretesto per discutere i nostri problemi, non faremmo che seguire l'esempio di S. Tommaso, il quale ha trovato modo di trattare della scomunica, sviluppando pochi accenni vaghi di Pietro Lombardo; e non ha esitato a parlare delle indulgenze, mentre il libro che egli commentava non ne parlava affatto.
2 - All'inizio del 1969 la rivista internazionale di teologia Concilium ha offerto ai suoi lettori una delle sue più clamorose sorprese.
Il primo numero dell'annata si apre con una « Dichiarazione sulla libertà e la funzione della teologia nella chiesa », firmata dai redattori e da non pochi collaboratori, la cui celebrità è indiscutibile.
Secondo codesti teologi, tutti più o meno illustri, sarebbe per « rispuntare attualmente la possibilità d'una minaccia sulla libertà del lavoro teologico »; e per questo si sono sentiti « spinti a fare una serie di proposte costruttive », che in sostanza si riducono a una serie di condizionamenti del magistero ecclesiastico nelle sue funzioni disciplinari mediante una « Commissione di teologi », che dovrebbe essere gradita all'eventuale malcapitato il quale fosse sottoposto a un giudizio presso la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Intanto la rivista Concilium faceva seguire alla dichiarazione e alle 38 firme un formulano già pronto di adesione, proponendolo ai « professori di teologia ».
Si sollecitava, insomma, un pronunciamento da parte della base, per sventare le manovre della reazione in agguato …
- Naturalmente questi sistemi hanno lasciato perplessi e contrariati non pochi colleghi, i quali hanno espresso le loro autorevoli riserve soprattutto per il tono allarmistico della dichiarazione stessa.
Ma le riserve fatte confidenzialmente sono innumerevoli, a cominciare dall'ortografia.
Quell'insistenza, p. es., a scrivere il termine chiesa cattolica con la lettera minuscola, mentre tutte le altre istituzioni, esistenti e non esistenti, compresa la Commissione dei teologi da loro proposta, vengano presentate con tanto di maiuscola, dà l'idea del fanatismo e della pignoleria antitradizionalista con la quale si lavora nella redazione di Concilium.
Vien fatto di pensare che questi redattori neghino implicitamente l'istituzionalità della Chiesa.
A nostro giudizio la cosa che rende più intollerabile codesta iniziativa è l'inopportunità di intralciare l'opera di vigilanza e di correzione, che il magistero deve continuare a svolgere per mandato divino, in un momento come questo, in cui, per un eccesso di irenismo, si delineano pericoli gravissimi per la fede cattolica.
Poiché se di una cosa si deve oggi rimproverare la gerarchia, è proprio del difetto contrario a quello temuto da quegli illustri teologi.
Per quanto ci risulta dai grandi organi di informazione, è così raro il caso di punizioni esemplari e di censure, da far dubitare seriamente della loro esistenza nella prassi attuale della Chiesa.
Il discorso che stiamo per iniziare sulla scomunica, e sulle censure ecclesiastiche in genere, non è dei più facili ai tempi che corrono.
Siamo convinti però della necessità assoluta di non abbandonare le armi della censura e della correzione, se ci premono le anime che Cristo ha redento con il suo sangue.
- Sappiamo bene che il Concilio Vaticano II, rompendola con la tradizione ininterrotta della Chiesa, ha ignorato del tutto le scomuniche e le altre censure.
Per usare un linguaggio scolastico diremo che le ha ignorate e in actu exercito e in actu signato, cioè le ha ignorate sia in pratica che in teoria.
Non è detto però che l'ultimo Concilio abbia inteso condannare la dottrina cattolica già definita in proposito, negando alla Chiesa la facoltà di scomunicare.
Ma il clima che ne è derivato non è certo favorevole all'applicazione di quei rimedi, anche quando la gravità dei fatti l'esigerebbe.
D'altra parte il Concilio non ha certo inventato per conto proprio questo spirito di tolleranza; ma lo ha accettato come un presupposto per il dialogo col mondo contemporaneo, dove esso ha prevalso in una misura davvero inaccettabile.
Infatti in molte nazioni democratiche, imbevute di cultura occidentale, alla base della reciproca tolleranza si trovano sistemi di pensiero che si riallacciano all'agnosticismo, al fenomenismo, e al pragmatismo.
Naturalmente i Padri Conciliari hanno inteso accettare uno stile di tolleranza, senza suffragare l'errore da cui esso in molte parti è scaturito.
Anzi i Padri hanno respinto espressamente « un certo fenomenismo e agnosticismo », derivante da una infatuazione per i metodi della ricerca scientifica positiva ( cfr. Gaudium et Spes, n. 57 ).
- E nella tanto discussa Dichiarazione sulla libertà religiosa, in cui si è raggiunto l'estremo limite della tolleranza, i Padri hanno tenuto a precisare che le loro parole riguardano « l'immunità dalla coercizione nella società civile », lasciando « intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e della società verso la vera religione dell'unica Chiesa ( n. 1 ).
« D'altra parte, essi dichiarano con un senso di realismo ben comprensibile, « non sembrano pochi [ oggi ] quelli che, sotto il pretesto della libertà respingono ogni dipendenza e apprezzano poco la dovuta obbedienza » ( ibid. n. 8 ).
Il problema della tolleranza ha fatto sì che nei riguardi dei fratelli separati, facenti capo alle sette ereticali ripetutamente colpite dalla scomunica, si è adottato un atteggiamento di comprensione, di cui molti non vedono e non accettano più i limiti.
- Verso la Chiesa ortodossa si è fatto qualche cosa di più.
Il 7 Dicembre 1965 5. S. Paolo VI e il Patriarca Atenagora pubblicarono una dichiarazione comune, in cui venivano abolite le scomuniche reciproche della Chiesa Romana e della Chiesa di Costantinopoli che risalivano al tempo di Michele Cerulario [ anno 1054 ].
3 - Stando così le cose c'è proprio da chiedersi se sia ancora il caso di parlare delle censure in un trattato di teologia.
Vien fatto però di pensare che se le censure sono oggi praticamente contestate, senza una chiarificazione dottrinale, si corre il rischio di accantonarle per motivi irrazionali, che potranno avere facilmente un influsso deleterio sulla vita della Chiesa.
Guardandoci intorno non è certo il caso di fare gli ottimisti ingenui ad ogni costo.
Ormai gli scandali nel clero e nel popolo sono stati denunziati apertamente dai pastori, senza sottintesi.
Il Sommo Pontefice in questo ha dato a tutti l'esempio.
Dobbiamo quindi chiederci, se i pastori della Chiesa si possano dispensare dal dovere della correzione mediante la censura, quando i richiami paterni cadono sistematicamente nel vuoto.
Alcuni forse saranno tentati di pensare che un discorso chiaro e completo in proposito spetti ai canonisti più che ai teologi; ma nessuno dei nostri colleghi si sentirà disposto a cedere il proprio diritto di discutere le basi teologiche di questa facoltà-dovere, che la gerarchia ecclesiastica ha sempre rivendicato.
Spetta al teologo esaminare non tanto le singole censure, quanto piuttosto le fonti di questo potere coercitivo, le quali vanno ricercate nella rivelazione divina, e discutere l'opportunità o meno di infliggere, nei casi concreti che occorrono ordinariamente, tali castighi.
S. Tommaso d'Aquino, per rifarci all'esempio più illustre e pertinente al nostro lavoro, non ebbe il tempo di completare il trattato De Poenitentia nella Somma Teologica, ma nel commentare le Sentenze di Pietro Lombardo non aveva omesso di discutere anche questa funzione del potere delle chiavi, come del resto suggeriva l'esempio dei grandi maestri che l'avevano preceduto, prendendo in esame soprattutto la scomunica ( cfr. 4 Sent., d. 18, q. 2, aa. 1-5 ).
Qualcuno anche di recente ha scritto che scomunica e indulgenze nell'esposizione tomistica sono come delle appendici al trattato sulla penitenza.
Tale può essere l'impressione di chi considera il Supplemento come opera originale.
Ma se noi riportiamo quei testi entro la stesura originaria del commentario, vediamo che il maestro dei teologi, seguendo con la comprensione più vigile il testo delle Sentenze, considera il problema delle censure strettamente connesso con il potere dei ministri, sia nell'amministrazione della penitenza, che nel compito ingrato della correzione e fraterna e giudiziaria ( cfr. ibid., d. 18, div. text.; d. 19, q. 1, prol., q. 2 ).
4 - Constatiamo così un fatto sorprendente: l'Aquinate, pur non avendo a disposizione le conoscenze storiche sufficienti intorno alla prassi sacramentale della Chiesa dei primi secoli, ha intravisto nella scomunica un fatto intimamente connesso con la penitenza.
Ora, noi sappiamo che la scomunica era il primo atto di quella penitenza pubblica, che nei primi secoli era riservata ai peccati più gravi, e terminava con la riconciliazione del peccatore con Dio e con la Chiesa.
Perciò un trattato completo sull'argomento della penitenza, privo di un capitolo almeno dedicato alla scomunica, oggi è da considerarsi inaccettabile.
E neppure convince la divisione salomonica dei manuali moderni di teologia, che rimandano alla morale il trattato delle censure, mentre svolgono in dogmatica il tema delle indulgenze.
Questa riscoperta del sistema penitenziale più antico mette bene in luce l'incongruenza della cosiddetta Riforma, che vide nelle scomuniche e nelle altre censure uno strumento disciplinare contrario al sentimento genuino e spontaneo del cristianesimo primitivo.
I cristiani dei primi secoli non avevano difficoltà a riconoscersi peccatori, e quindi bisognosi di correzione.
Il rigore stesso, col quale nei primi secoli venne amministrata la penitenza pubblica per i peccati più gravi, dovrebbe imporre ai vescovi e ai teologi una seria riflessione sulle esigenze della disciplina all'interno della Chiesa, per evitare lo scadimento progressivo della pubblica moralità.
Quel non ammettere alla penitenza i recidivi, se da una parte spaventa, dall'altra ci costringe a un confronto imbarazzante.
- « Sicut unum baptisma ita una poenitentia »; « come c'è un solo battesimo così c'è un'unica penitenza », afferma S. Ambrogio ( 2 De Poenitentia, c. 10 ).
E S. Agostino giustifica appunto codesto rigore con le esigenze della disciplina : « affinché la medicina non diventi meno efficace per i malati; poiché essa sarà tanto più salutare quanto meno sarà disprezzabile e a buon mercato » ( Ep. 153, 7 ).
La scomunica però, che introduceva il peccatore pentito nello stato dei penitenti, non deve essere confusa così semplicemente con quella di cui l'autorità ecclesiastica si serviva per reprimere l'audacia dei fedeli ribelli e contumaci.
Tuttavia l'una e l'altra promanano sostanzialmente dall'identico potere e mirano al medesimo scopo : ricondurre all'ovile le pecore sbandate.
Si tratta di pene medicinali.
Ma per accidens le censure vere e proprie possono considerarsi pene vendicative: cioè nel caso in cui l'ostinazione dello scomunicato riduce la censura inflitta a un puro mezzo di pressione morale sul gregge dei fedeli, perché questi si astengano dal seguirne l'esempio.
C'è anche un elemento intrinseco a distinguerle, secondo S. Tommaso: la scomunica inflitta ai contumaci priva costoro dei suffragi pubblici della Chiesa ( cfr. q. 21, a. 1 ); mentre quella cui si sottoponevano volontariamente i penitenti sollecitava piuttosto codesti suffragi da tutta l'assemblea dei fedeli.
5 - Dopo aver precisato il concetto di scomunica, S. Tommaso prende in esame questo secondo quesito: « Se la Chiesa abbia il dovere di scomunicare qualcuno » ( q. 21, a. 2 ).
I commentatori invece e i manualisti più recenti si chiedono piuttosto, se la Chiesa ne abbia il potere.
La diversa impostazione del quesito si spiega con la necessità, in cui si sono trovati i teologi più recenti, di difendere codesto potere dalle negazioni dei politicanti e degli eretici.
La prima aperta negazione della scomunica pare che risalga alla lotta delle investiture.
Infatti il Sinodo Lateranense del 1102, tenuto contro i fautori dello scomunicato Enrico IV, prescrisse a tutti i metropoliti d'occidente questa formula: « Anatematizzo tutte le eresie, e specialmente quella che turba lo stato della Chiesa attuale, ossia quella che insegna e propugna l'idea di doversi disprezzare la scomunica ( anathema ) e tutti i legamenti della Chiesa » ( cfr. DENZ.-S., 704 ).
Non meraviglia affatto ritrovare questa idea sotto la penna di Marsilio da Padova [ 1275-1343 ], a servizio delle aspirazioni antipapali di Ludovico il Bavaro; e sotto quella di Giov. Wyclif [ 1320-1384 ], iniziatore del movimento dei Lollardi, che si propagò in Boemia come primo fermento della pseudoriforma ( cfr. Ibid., 945, 1129-1135, 1161-1163, 1180, 1271-73 ).
In questo campo Lutero [ 1483-1546 ] non ebbe che da raccogliere quanto costoro avevano seminato, affermando, in aperta sfida contro il papato, che « i Cristiani devono essere ammaestrati più ad amare che a temere la scomunica » ( cfr.DENZ.-S., 1474 ).
6 - La contestazione dei protestanti scatenò la reazione dei cattolici ; cosicché gli apologisti si posero animosamente all'opera, per difendere la legittimità delle censure in genere e della scomunica in particolare.
Ecco quanto ha scritto in proposito Tommaso Campanella [ 1568-1639 ], che ebbe modo di conoscere a fondo il travaglio spirituale del secolo XVI: « Tutti coloro che sono entrati nella Chiesa, la quale è il regno dei cieli, comunicano coi santi nel vincolo della carità, nella grazia santificante, nell'uso dei sacramenti, nei suffragi comuni e finalmente nella pratica naturale e civile, cioè nelle funzioni della società, nei saluti, nella mensa e nella convivenza.
Infatti "noi siamo tutti"―, come fu detto, "un unico corpo", e quelli che rompono una così grande comunione, sono indegni di essa.
Onde anche nella società degli infedeli, quando qualcuno offende il bene comune o lede i privati cittadini, viene dal principe separato dal corpo sociale, o colla morte, coll'esilio, o col carcere, oppure viene privato dei mezzi con cui ha leso gli altri, cioè della mano, o del piede o del denaro, o dei fondi, che sono appunto gli strumenti onde usano gli uomini per benfare o malfare.
Il medesimo avviene nella Chiesa di Cristo, che cioè tutti coloro che violano questa comunione, meritano di essere privati di essa ed espulsi da essa o totalmente o parzialmente: questa è la scomunica, come il vocabolo stesso manifesta.
E questo il Cristo stesso comandò che si facesse nella sua Chiesa, dicendo in Mt 18,17: "Se non avrà ascoltato la Chiesa, sia per te come un pagano e un pubblicano".
Ora i pagani sono fuori della Chiesa, e dunque il Signore comanda che costui sia scomunicato, come tutti i Dottori spiegano e innanzi tutto il Cristo stesso: "Se il tuo occhio ti scandalizza, strappalo e gettalo lontano da te".
Il medesimo si trova comandato in Mc 9,42 e in Gv 2: "Non date loro nemmeno il saluto", e in Tt 3,10: "Dopo la prima e la seconda correzione, evita l'eretico", e nella 1 Cor 5,11: "Con tali uomini non prendere nemmeno il cibo", e nella 2 Ts 3,14: "non accompagnatevi con lui, affinché resti confuso".
« E invero gli Apostoli esercitarono questo potere fino al punto di colpire ( anche di morte corporale ) quelli che violavano la comunione dei santi, qualche volta colla morte dell'anima e del corpo, come fece S. Pietro ad Anania e Saffira ( At 5,1-11 ), qualche volta invece colla sola morte del corpo, affinché lo spirito andasse salvo, come fece l'Apostolo Paolo consegnando a Satana il Corinzio incestuoso ( 1 Cor 5 ) e Imeneo e Alessandro, abbandonandoli a Satana come carnefice e torturatore, affinché imparassero a non bestemmiare ( 1 Tm 1 ).
E questa pena, la inflissero anche alcuni santi, come è attestato dal Crisostomo, dagli antichi Padri Teodoreto e Apollinare e da S. Paolino nella Vita di S. Ambrogio, che abbandonò al diavolo un servo di Stilicone ».
7 - Stabilito che la gerarchia della Chiesa ha il potere di scomunicare, resta da considerare se ne abbia il dovere, come intendeva concludere S. Tommaso.
Invitiamo i nostri lettori a leggere per intero l'articolo del Supplemento che abbiamo citato; intanto possiamo anticipare qui il nucleo centrale della soluzione: « Il modo di giudicare della Chiesa deve imitare quello di Dio.
Ma Dio punisce i peccatori in diverse maniere per guidarli al bene: primo, con i castighi; secondo, abbandonando l'uomo a se stesso affinché questi, privo degli aiuti che lo ritraevano dal male, riconosca la sua debolezza tornando umilmente a Dio dal quale si era allontanato con superbia.
La Chiesa, con la scomunica, imita il modo di procedere divino in ambedue i casi.
Imita cioè il giudizio di Dio che castiga con le pene, separando [ il colpevole ] dalla comunione dei fedeli, "affinché ne arrossisca".
Mentre, escludendolo dai suffragi e dagli altri beni spirituali, imita il modo di procedere di Dio il quale talora abbandona l'uomo a se stesso, affinché questi umilmente riconosca la sua condizione e faccia ritorno a lui » ( Suppl., q. 21, a. 2 ).
Si tratta dunque di imitare la bontà divina, che ai colpevoli non fa mancare la medicina amara, ma efficace, della correzione.
Ecco perché il Santo Dottore avvicina la trattazione della scomunica alle questioni dedicate alla correzione, sia fraterna, che giudiziaria.
Ecco come il Santo imposta il problema, spiegando la definizione della correzione fraterna: « Per camminare rettamente nella via della salvezza l'uomo attende tre tipi di soccorso da parte di colui che deve averne cura.
Primo, di essere indirizzato al debito fine: e rispetto a questo si dice che il superiore dirige l'inferiore a lui affidato.
Secondo, di essere protetto, affinché non si allontani dalla via che conduce a codesto fine: e in rapporto a questo si dice che lo governa.
Terzo, qualora gli capiti di allontanarsene, attende di essere ricondotto sulla retta strada: e in rapporto a quest'ultimo compito si dice che lo corregge.
Correzione che talora implica la restaurazione della giustizia da parte del suddito: quando cioè, colui che aveva sbagliato si emenda per l'interessamento di cui è oggetto; talora invece esige che il ripristino della rettitudine di giustizia gli venga imposto mediante i castighi, anche se egli per parte sua non si corregge.
Chi però si è allontanato dalla via retta può esservi ricondotto in due maniere, come nota il Filosofo [ 10 Ethic., cc. 10,14 ]: mediante il timore o l'odio di ciò che disonora ( per timorem turpis ), come quando uno detesta il peccato e ne prova vergogna; oppure mediante il timore o l'odio di ciò che contrista ( per timorem tristis ), come quando uno per i castighi inflitti o previsti lascia il peccato.
E poiché questa seconda maniera implica una certa violenza, si parla di correzione, esprimendo codesto termine l'idea di raddrizzamento …
Da ciò risulta chiaro che la seconda maniera di correggere spetta solo ai prelati, le cui parole hanno valore coercitivo mediante la comminazione dei castighi; mentre la prima maniera non richiede una superiorità gerarchica; sebbene anche i superiori debbano servirsene: poiché [ ordinariamente ] anche i prelati non devono ricorrere al secondo tipo di correzione, senza prima aver adoperato il primo » ( In 4 Sent., d. 19, q. 2, a. 1 ).
I due tipi di correzione, spiegherà meglio il Santo Dottore, si collocano su due piani diversi: sul piano della carità la correzione fraterna, sul piano della giustizia la correzione coercitiva e giuridica ( cfr. II-II, q. 33, aa. 1,3 ). « Anche nella correzione fraterna, che spetta a tutti, il dovere dei prelati è più grave, come nota S. Agostino nel De Civit. Dei [ c. 9 ].
Infatti come uno è tenuto di più a beneficare materialmente coloro che sono affidati alle sue cure temporali, così è tenuto di più a beneficare spiritualmente con la correzione, con l'insegnamento, ecc., quelli che sono affidati alle sue cure spirituali » ( II-II, q. 33, a. 3, ad 1 ).
8 - Pensiamo che nessuno oserà contestare teoricamente questa dottrina; ma quando si tratta di applicarla ai casi concreti è facilissimo trovare pretesti per non adempiere un dovere così gravoso, che soprattutto oggi sembra fatto apposta per assicurare ai superiori un alone di dissenso e d'impopolarità.
Le ragioni che sono invocate con più frequenza si possono ridurre a quattro:
a) la paura di far peggio provocando la ribellione aperta, o addirittura uno scisma;
b) il dovere di imitare la pazienza di Dio, il quale sopporta i peccatori, senza sterminarli, o punirli immediatamente;
c) l'ottimismo cristiano, che vede attuarsi nella storia un'evoluzione quasi fatale verso il meglio; per cui si deve solo avere la pazienza di aspettare che le cose si aggiustino da sé;
d) l'impossibilità in cui ci troviamo, ai tempi che corrono, di far capire il vero significato della correzione e del castigo.
Ora, è evidente che codeste ragioni devono suggerire una certa maniera e misura nell'uso dei mezzi coercitivi; ma non sono sufficienti a dispensare i prelati dal dovere di adoperarli.
Sappiamo bene infatti, anche per espèrienza personale, che l'uomo è portato dai suoi istinti mal repressi a sottrarsi all'impero della legge e della ragione; se quindi si lascia a ciascuno la facoltà di regolarsi col proprio criterio ( magari con la pretesa che siamo oggi tutti più maturi … ), non c'è poi da meravigliarsi che i giovani più audaci e ribelli ci rendano amara e difficile la vita.
A coloro i quali non fossero ancora persuasi che la contestazione globale dei giovani promana direttamente dagli errori di chi doveva educarli, dedichiamo questa pagina meravigliosa di S. Tommaso: « Per natura l'uomo ha una certa attitudine alla virtù; ma la perfezione di codesta virtù viene da lui raggiunta mediante una disciplina.
Del resto vediamo che l'uomo fa fronte anche alle sue necessità di cibo e di vesti mediante l'industria personale, di cui la natura offre i primi elementi, cioè la ragione e le mani, non però il completo sviluppo come negli altri animali, cui la natura offre già completo il rivestimento e il cibo.
Ora, l'uomo non risulta facilmente preparato in se stesso a codesta disciplina.
Poiché la perfezione della virtù consiste principalmente nel ritrarre l'uomo dai piaceri illeciti, che attirano di più, specialmente i giovani, sui quali la disciplina è chiamata ad agire maggiormente.
Perciò è necessario che gli uomini siano applicati da altri a codesta disciplina, per poter raggiungere la virtù.
Ora, per quei giovani che sono portati ad atti virtuosi dalle buone disposizioni di natura, o dalla consuetudine, o più ancora da un dono di Dio, basta la disciplina paterna, che si limita ai consigli.
Siccome però non mancano i ribelli e i soggetti inclini al vizio, che non si lasciano muovere facilmente dalle parole, era necessario ritrarli dal male con la forza e col timore; affinché desistendo dal mal fare, rendessero quieta agli altri la vita, ed essi stessi abituandosi a questo, arrivassero a compiere volontariamente quello che prima eseguivano per paura, e così diventassero virtuosi.
Ebbene, codesta disciplina, che costringe con la paura della punizione, è la disciplina della legge.
Perciò era necessario stabilire delle leggi per la pace e per la virtù degli uomini: poiché, a detta del Filosofo, "come l'uomo se è perfetto nella virtù è il migliore degli animali; così se è alieno dalla legge e dalla giustizia, è il peggiore di tutti" ; poiché l'uomo, a differenza degli animali, ha le armi della ragione per soddisfare la sua concupiscenza e la sua crudeltà ».
Perché la legge possa raggiungere gli scopi educativi accennati è indispensabile che venga fatta rispettare anche col rigore delle sanzioni.
E questo è vero non solo per la legge civile, ma anche per quella ecclesiastica.
Purtroppo è più difficile sul piano soprannaturale rendersi perfettamente conto del vero bene comune da tutelare ad ogni costo con la disciplina.
Spesso infatti si confondono le prospettive, indulgendo a un certo naturalismo, in cui la carità viene scambiata con un cameratismo molto superficiale, senza tener conto dell'avvertimento di S. Agostino: « Non autem carnalis sed spiritualis inter vos debet esse dilectio » ( Regula ).
9 - Più ancora che dal malinteso sull'amore del prossimo la fobia delle censure promana da un amore malinteso verso se stessi.
A giudizio di S. Caterina i superiori non puniscono perché dominati dall' « amor proprio di sé ».
E da codesto amor proprio nascono le paure.
Si ha paura di passare per retrogradi; di essere superati dagli eventi, ossia dalle riforme in atto in seno alla Chiesa stessa; si ha paura degli organi di stampa caduti ormai sotto il controllo di preti e laici progressisti; si ha paura di suscitare la ribellione aperta …
Come se un nemico aperto non fosse preferibile, per la Chiesa stessa, a un elemento infido che scardina la società dell'interno.
Ma ascoltiamo direttamente i rimproveri che la Santa Senese rivolge ai prelati del suo tempo, dopo aver elogiato, per bocca del' Eterno Padre, i santi pastori fioriti nella Chiesa nel corso dei secoli, « prelati che correggevano senza timore servile, perché ne erano privi »: « Ora io voglio che tu sappia che per nessun'altra causa è venuta tanta tenebra e divisione nel mondo tra secolari e religiosi, tra chierici e pastori della Santa Chiesa, se non perché il lume della giustizia è mancato ed è venuta la tenebra della ingiustizia.
« Nessuno Stato si può conservare nella legge civile e nella legge divina di grazia senza la santa giustizia, perché colui, che non è corretto e non corregge, fa come il membro che è cominciato ad imputridire, se il cattivo medico vi pone subito l'unguento solo, non brucia la piaga, tutto il corpo imputridisce e si corrompe.
Così il prelato, e gli altri signori che hanno sudditi, vedendo il membro del loro suddito essere imputridito per la puzza del peccato mortale, se vi pongono solo l'unguento della lusinga senza la riprensione, non guariscono mai, ma guasteranno le altre membra, che gli sono dintorno, e sono legate in uno stesso corpo ad uno stesso pastore.
Ma se il prelato sarà vero e buon medico di quelle anime, come erano questi gloriosi pastori, non darà l'unguento senza il fuoco della riprensione.
E se il membro fosse pure ostinato nel suo mal fare, lo toglierà dalla comunità, acciò che non infetti gli altri colla puzza del peccato mortale.
« Ma essi non fanno oggi così; anzi fanno vista di non vedere.
E sai tu perché ? Perché in loro vive la radice dell'amor proprio, da cui traggono il perverso timore servile.
Per timore di perdere lo Stato le cose temporali o la prelazione, non correggono, ma fanno come accecati, e per questo non conoscono in che modo si conservi lo Stato; ché se vedessero come si conserva colla santa giustizia, la manterrebbero.
Ma poiché sono privi del vero lume, non lo conoscono; credendolo conservare colla ingiustizia, non riprendono i difetti dei loro sudditi; ma sono ingannati dalla loro passione sensitiva e dall'appetito della signoria o della prelazione.
« Inoltre non correggono, perché essi sono in quei medesimi difetti, o anche maggiori.
Si sentono presi nella colpa, e perciò perdono l'ardire e la sicurezza; legati dal timore servile, fanno vista di non vedere.
E se pure vedono, non correggono ».
A questa requisitoria c'è poco da aggiungere.
C'è solo da sperare che ne prendano atto non solo i nostri pastori, ma anche i teologi e i moralisti cristiani, che hanno il dovere di presentare le censure ecclesiastiche alla riflessione del clero e del laicato, non solo sotto la luce sinistra di gravi abusi cui si prestarono nel passato, ma anche nella prospettiva di quel rinnovamento esterno ed interiore auspicato da tutti i buoni cristiani in quest'epoca post-conciliare.
È certo però che questo rinnovamento richiede la fede incondizionata verso tutto l'insegnamento evangelico.
Ora, a base del potere coercitivo della Chiesa e del suo esercizio c'è la fede nei rigori della giustizia divina nell'altra vita, come spiega il Card. O. Journet: « Se non si crede più nei terribili rigori dell'altro mondo, è troppo evidente che non si potranno intendere affatto i rigori della vita presente di cui fa uso la Chiesa per scongiurarli, quando la giustizia l'esige.
Ma allora il problema si sposta: non è più la questione del potere coercitivo che bisogna discutere, ma la questione ben più fondamentale della realtà dei suoi fini.
Ma qui il Vangelo è ben netto.
Coloro che si scandalizzano del Vangelo, saranno certo scandalizzati dalla dottrina della Chiesa ( L'Église du Verb Incarné, Paris-&uges, 1938, p. 304 ).
Chi potrebbe oggi mettere in dubbio che alla radice di certa insofferenza per ogni tipo di sanzioni ecclesiastiche c'è una vera crisi di fede nell'esistenza stessa dell'inferno?
A togliere l'eventuale dubbio basterebbe il numero della rivista Concilium citato da noi all'inizio; dove l'escatologia cristiana è presentata in una certa maniera, da potersi amalgamare virtualmente con tutte le ideologie antiche e moderne, senza escludere recisamente neppure il marxismo.
Ci sia lecito quindi affermare che la mancata repressione degli errori e degli scandali espone ormai palesemente il gregge di Cristo alle iniziative dell'incredulità.
1 - Dopo quattro secoli dalla crisi protestante, occasionata dalla predicazione delle indulgenze, questo tema sembra ormai maturo per la riflessione teologica, superando nei due campi avversi le aspre polemiche del passato.
Per i progressi dell'ecumenismo questa riflessione è indispensabile; perché le indulgenze, come talora furono concepite nel passato, sono oggetto di contestazione anche da parte dei cristiani ortodossi delle Chiese orientali.
Ecco come si esprime in proposito uno di essi: « Dall'erronea dottrina della Chiesa romana circa la necessità della soddisfazione della divina Giustizia mediante le Penitenze è stato creato in essa l'uso delle così dette Indulgenze.
La Chiesa romana pretende che il Vescovo di Roma, con tali decreti di amnistia da lui scritti applicando il tesoro, come dice essa, dei meriti di Gesù Cristo e di tutti i Santi - tesoro scoperto dalla fantasia Scolastica occidentale nel XIII secolo - ha il diritto di accorciare o cancellare del tutto la pena dall'anima del peccatore, tanto in vita, quanto anche dopo la morte, nell'inferno o nell'immaginario Purgatorio.
Così dispensa i vivi ed i morti dalla pena quando possono arrivare al possesso di tale documento, i vivi direttamente, i morti mediante coloro che s'interessano per essi.
L'uso delle Indulgenze è deplorevole, perché la dottrina su di esse si poggia su sbagliate presupposizioni, cioè sulla necessità della soddisfazione della divina Giustizia con le Penitenze e l'ammissione dell'esistenza di un tesoro dei meriti di altri a disposizione del Vescovo di Roma.
Il tesoro in parola, si dice, è costituito dagli infiniti meriti di Gesù Cristo e da quelli della Vergine Maria, di tutti i Santi e dei pii fedeli, i cui meriti superano le pene che meritavano i loro peccati.
- Tali meriti, per quanto enormi ed infiniti possano essere, non possono considerarsi come eccedenza che dia diritto ad un mortale di disporre, a pagamento, della pena dell'anima altrui ed in più indipendentemente dalla fede e dalle disposizioni di spirito di chi le può comprare, facilitando così la salvezza dei "ricchi epuloni" » ( KATSANEVAKIS BEN., I Sacramenti della Chiesa ortodossa, Napoli, 1954, pp. 239 ).
Nessun teologo cattolico è disposto a riconoscere nella descrizione riferita i connotati delle indulgenze, ma una caricatura molto polemica di esse.
Sull'argomento abbiamo ormai un documento pontificio di alto valore dogmatico, nella costituzione apostolica Indulgentiarum Doctrina, pubblicata da S.S. Paolo VI il 1 Gennaio 1967.
E speriamo che in seguito i nostri fratelli separati vogliano prenderne atto, prima di pronunziarsi su un tema tanto discusso.
2 - Noi in questa breve introduzione non pretendiamo di scrivere un trattato in proposito, ma solo di mettere in evidenza il contributo di S. Tommaso alla migliore formulazione della dottrina cattolica sulle indulgenze.
Il pensiero che egli esprime è in parte condizionato dalle contingenze storiche della sua epoca e del suo ambiente; però non va dimenticato che le sue brevi riflessioni personali in proposito segnano un momento importantissimo per gli sviluppi successivi del pensiero cristiano, pur derivando dalle tappe più recenti che i secoli XI e XII avevano fatto percorrere a questo esercizio caratteristico del potere di giurisdizione esistente nella Chiesa.
Se un appunto si può fare a S. Tommaso in proposito è quello di non aver avuto un'adeguata conoscenza storica della prassi penitenziale primitiva e della relativa modernità delle indulgenze.
In questo i teologi del secolo XX sono ben più fortunati dopo gli studi storici compiuti negli ultimi cento anni.
- Era logico che codeste indagini fiorissero soprattutto in Germania, nella patria di Lutero, per verificare quanto c'era di serio e quanto di avventato nelle critiche mosse dal protestantesimo alle indulgenze.
La bibliografia in proposito è imponentissima, ma i contributi più significativi rimangono per ora l'opera monumentale di N. Paulus ( Geschichte des Ablasses im Mitteralter, 3 voli., 1922-1923 ) e gli articoli di B. Poschmann ( soprattutto Der Ablass im Licht der Bussgeschichte, in « Theophania » 4, 1948 ).
3 - I risultati dell'indagine storica sono ormai divulgati.
Ecco come il P. K. RAHNER sintetizza le conclusioni cui è giunto quest'ultimo suo connazionale, fino agl'inizi del secolo XII: « Poschmann espone anzitutto gli elementi della dottrina penitenziale della Chiesa antica, che sono importanti per la concezione posteriore delle indulgenze ( 1-14 ): la necessità di una penitenza soggettiva come fattore remissivo dei peccati post-battesimali, senza però distinguere tra colpa e pena; l'appoggio dato a questa penitenza soggettiva dalla cooperazione della Chiesa ( comunità, martiri, pneumatici, ecc. ) e soprattutto dalla preghiera impetratoria del sacerdote, che si deve distinguere dal vero atto di riconciliazione con la Chiesa e quindi anche con Dio, e che non può considerarsi come assoluzione ( nel senso odierno ) in forma deprecativa.
« Tratta poi espressamente dell'essenza, delle forme e dell'efficacia delle "assoluzioni" dell'alto medioevo, che si usavano fuori del sacramento, come avveniva già prima sin dai tempi di S. Gregorio Magno e nello stesso sacramento dal X sec.
Queste "assoluzioni" sono, anche indipendentemente dal condono della penitenza imposta dalla Chiesa.
Un'autentica continuazione delle preghiere, con cui il sacerdote implorava per i penitenti la remissione dei peccati.
Nonostante che ci si richiami spesso al mandato apostolico al potere delle chiavi, esse sono da considerarsi una preghiera, con cui la Chiesa implora, anche se autoritativamente.
La piena remissione dei peccati del penitente compresa la pena temporale, e non un atto giurisdizionale, quindi infallibile, di assoluzione della pena temporale.
Ciò deriva dal loro sorgere, persino antecedente, fuori del sacramento, specie nelle "assoluzioni generali", dal loro stile, dalle loro clausole restrittive, dalle teorie dei primi scolastici sull'essenza e la portata dell'azione sacerdotale nel sacramento della penitenza.
« Poschmann espone quindi ( 36-43 ) i presupposti teorici e storici della penitenza che diedero origine alle indulgenze.
La trasformazione dell'istituto penitenziale dalla penitenza pubblica nella p. privata, con lo spostamento della riconciliazione prima dell'esecuzione delle opere espiatorie imposte dalla Chiesa, porta a distinguere nel peccato in modo riflesso il reato di colpa da quello di pena.
Così la penitenza soggettiva vien riferita unicamente all'espiazione della pena temporale e le assoluzioni vengono valutate come aiuto della Chiesa per l'espiazione di questa pena, senza che perciò si tratti di una remissione di penitenze da essa imposte.
- Segue poi ( 43-62 ) un'analisi delle prime vere indulgenze.
Esse sorsero per prime in Francia nel secolo XI, mentre il condono della penitenza per i pellegrinaggi romani sin dal secolo IX sono da considerarsi ancora, contro l'opinione di N. Paulus, redenzioni applicate gratuitamente.
- L'essenza delle nuove indulgenze sta nel fatto che, a causa della separata efficacia delle assoluzioni deprecative per la remissione della pena temporale davanti a Dio, si condonava al penitente anche una parte della penitenza ecclesiastica.
In tal modo all'assoluzione sinora usata subentrò, nell'indulgenza propriamente detta, un elemento giurisdizionale, in quanto l'assoluzione si riferisce ora anche alla penitenza ecclesiastica e di fronte ad essa ha naturalmente anche un carattere giuridico.
Accanto alle indulgenze propriamente dette continuano ad esistere ancora per lungo tempo le semplici assoluzioni intese nel senso antico.
« L'inizio delle indulgenze si trova così nella prassi che si sviluppa, senza accorgersi di una innovazione.
La Chiesa aveva sempre rivendicato il diritto di adattare la misura delle penitenze da imporre alle circostanze concrete e alle possibilità del penitente.
Questa prassi, che già esisteva nell'antichità, fu allargata nel primo medioevo mediante le commutazioni e le redenzioni.
Ora invece, sebbene il peccatore dovesse sempre espiare la pena temporale davanti a Dio, anche se con l'appoggio della Chiesa e la sua impetrazione autoritativa, gli si concedeva tale assoluzione come aiuto per la sua espiazione personale in considerazione di un'opera buona, che lo rendeva particolarmente degno, e gli si rimetteva una parte della penitenza ecclesiastica, perché si pensava che si era raggiunto lo scopo mediante la preghiera deprecativa ed assolutoria della Chiesa » ( RAHNER K., Sull'indulgenza, Roma, 1968, pp. 38-41 ).
4 - Il Poschmann non si è contentato, come si vede, di indagare sull'origine storica delle indulgenze, ma ha cercato di darne una nuova interpretazione teologica, basata sulle vicende storiche della loro istituzione.
Dal fatto che nella prassi primitiva della penitenza il cristiano mirava direttamente a ottenere la pace con la Chiesa, che Poschmann considera res et sacramentum della penitenza sacramentale, si deduce che il ritrovato stato di grazia non elimina la pena temporale meritata per il peccato, sulla quale si esercita l'indulgenza, in sostituzione di altre opere penitenziali.
E dal fatto che le indulgenze derivano dalle formule deprecatorie di assoluzione, usate anche fuori del sacramento, Poschmann deduce che esse devono essere concepite più come preghiere proposte ufficialmente dalla Chiesa, che come veri e propri atti di giurisdizione.
Il risultato più discutibile di codesta ricostruzione sta nel fatto che l'indulgenza perde così l'intrinseco valore di condono totale o limitato della pena temporale dovuta per i nostri peccati per assumere quello di suffragio, lasciando ogni determinazione alle disposizioni individuali.
Ora, questo è contro l'esplicita dichiarazione della Chiesa che la concede.
È vero che secondo la nuova teoria le determinazioni indicate dalla Chiesa, inizialmente almeno, dovevano riferirsi solo alle penitenze imposte dal potere delle chiavi, e non alle meritate da parte della giustizia di Dio; ma è ben difficile dare codesta interpretazione alle formule più recenti.
Ci sembra quindi che in effetti si torni a concepire codeste determinazioni di indulgenze plenarie e parziali come dei piccoli inganni materni, che la Chiesa eserciterebbe per ottenere l'impegno fattivo dei suoi figli nel compimento di opere buone.
Codesta idea era abbastanza diffusa presso i teologi prima di S. Tommaso, come vedremo nell'analisi del testo.
Ma proprio contro di essa il Santo aveva rivolto la sua critica convincente ( cfr. q. 25, a. 2 ), raccogliendo il consenso pressoché unanime dei teologi successivi.
In tal senso si è espresso anche di recente il magistero ecclesiastico: « Nell'indulgenza .., la Chiesa, facendo uso del proprio potere di ministra della redenzione di Cristo Signore, non soltanto prega, ma con intervento autoritativo dispensa al fedele debitamente disposto il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei Santi in ordine alla remissione della pena temporale » ( Indulg. Doctr., 8 ).
Si potrebbe forse obbiettare che proprio da codesto documento sono state eliminate le determinazioni classiche dell'indulgenza parziale.
Non si parlerà più ormai, né di anni, né di quaresime, né di giorni: « Si è ritenuto opportuno stabilire che la remissione della pena temporale, che il fedele acquista con la sua azione, serva di misura per la remissione di pena che l'Autorità ecclesiastica liberamente aggiunge con l'indulgenza parziale » ( ibid. 12 ).
- É facile però replicare che anche questo è un modo di determinare, facendo corrispondere mediante un atto positivo del potere gerarchico, al valore intrinseco satisfattorio delle azioni compiute dai fedeli, la maggiore o minore quantità dell'indulgenza.
Comunque è certo che quando concede l'indulgenza plenaria l'Autorità ecclesiastica intende condonare, a chi ha le dovute disposizioni, ogni reato di pena temporale.
Se il dubbio circa l'effettivo conseguimento del beneficio da parte dei singoli fedeli rimane, non dipenderà dal potere gerarchico che lo concede, bensì dalle indisposizioni del soggetto.
5 - Per procedere con ordine nella riflessione teologica sull'argomento, ci sembra indispensabile non solo tener d'occhio tutti i presupposti della dottrina cattolica in proposito ( il che è stato fatto con perizia e autorità somma nella costituzione apostolica citata; senza scostarsi affatto dall'insegnamento dell'Aquinate ), ma iniziare la ricerca dicendo a chiare note quello che l'indulgenza non è e non vuole essere.
a) Prima di tutto va ricordato che le indulgenze non sono un mezzo necessario per la salvezza e per la santificazione personale: « La Chiesa … lascia che ciascuno usi di questi mezzi di purificazione e di santificazione nella santa libertà dei figli di Dio » ( Indulg. Doctr. 11 ).
Anche in passato le indulgenze sono state concepite come concessioni, e nessuno ha mai pensato d'imporle.
b) Va escluso che le indulgenze possano dispensare dalla penitenza interiore, ossia dalla conversione sincera, che è il presupposto necessario per lucrare qualsiasi remissione di pena.
c) Sebbene la soddisfazione offerta per le pene meritate possa essere accompagnata dalla carità, e quindi dal merito, di suo rimane sul piano della giustizia.
Perciò l'indulgenza che viene offerta con materna condiscendenza dalla Chiesa al peccatore pentito per accelerare la soddisfazione, non è fatta di suo per accrescere il merito essenziale, o per lo meno non è un contributo diretto al raggiungimento di tale scopo.
Ecco perché la recente costituzione apostolica cita in proposito quel testo dell'Aquinate: « Benché le indulgenze siano molto utili per la remissione della pena, tuttavia altre opere satisfattorie sono più meritorie quanto al premio essenziale, il quale è infinitamente superiore al perdono della pena temporale » ( q. 25, a. 2, ad 2 ).
In base a codesto concetto ci sembra di dover escludere l'interpretazione dell'indulgenza tentata dal Rahner, il quale vorrebbe attribuirle una funzione sanante e riparatrice rispetto ai postumi disastrosi personali e sociali lasciati dal peccato anche dopo la remissione della colpa ( op. cit., pp. 7-29 ).
Infatti non riusciamo a comprendere quale vantaggio possa offrire al penitente, impegnato mediante l'esercizio delle virtù nella dura lotta contro le cattive tendenze e il disordine scatenati dal suo peccato, l'intervento autoritativo della Chiesa.
Sulla pena immanente che il peccato comporta, oltre il peccatore, ci sembra che possa agire, come causa diretta, Dio soltanto, il quale è capace di mutare, di plasmare e di rinnovare lo spirito dell'uomo.
Codesta sanazione può avvenire soltanto con « degni frutti di penitenza », e non pare che la Chiesa voglia dispensarcene con le indulgenze.
6 - Ci sembra che le indulgenze debbano perciò concepirsi in riferimento a quelle pene positive che la divina giustizia infligge per il peccato, sia nella vita presente che nel purgatorio.
Soddisfare il debito contratto è un dovere morale, oltre ad essere una necessità ineluttabile rispetto al giudizio di Dio.
Ebbene, la Chiesa interviene su questo piano di giustizia, in forza dei pieni poteri a lei concessi da Cristo a vantaggio dei fedeli, concedendo delle mitigazioni e dei condoni, in considerazione delle buone disposizioni che essi manifestano, ottemperando a certe condizioni.
Riconosciamo francamente l'imbarazzo in cui si trova il teologo nel concepire e nel descrivere le pene suddette, quando si tratta delle condizioni in cui vengono a trovarsi le anime dei trapassati non ancora del tutto purificate dalle loro colpe; e quindi è comprensibile il tentativo di Rahner, che ha di darcene un'idea approssimativa, riportandole sul piano psicologico e sociologico.
Ma non sembra che tutto il tormento delle anime disincarnate possa così ridursi semplicemente alle nostre medesime categorie.
Né d'altra parte si possono escludere dalla lista delle pene temporali le stesse penalità più o meno gravi della vita presente, le quali tra l'altro includono « la suora nostra morte corporale », che pochi sono disposti a subire con meno dolore dei rimorsi di coscienza e dei disordini morali, specialmente quando è accompagnata da particolari circostanze.
Ci sembra perciò che la suddetta descrizione delle pene temporali cui le indulgenze si riferiscano non possa coincidere né con la dottrina tradizionale, né con le chiare affermazioni della recente costituzione apostolica.
« dottrina divinamente rivelata », scrive Paolo VI, « che i peccati comportino pene inflitte dalla santità e giustizia di Dio, da scontarsi sia in questa terra, con i dolori, le miserie e le calamità di questa vita e soprattutto con la morte, sia nell'aldilà anche con il fuoco e i tormenti o con le pene purificatrici » ( ibid., 2 ).
In calce la costituzione apostolica citata si richiama anche a un testo di S. Tommaso: « Siccome il peccato è un atto disordinato, è chiaro che chi pecca agisce sempre contro un dato ordine.
Ne segue perciò che dall'ordine medesimo deve essere represso.
E codesta repressione è appunto la pena » ( I-II, q. 87, a. 1 ).
7 - Abbiamo insistito nel precisare la nozione di pena in genere, e di pena temporale in ispecie, perché da essa dipendo il concetto di indulgenza.
E proprio per questo crediamo utile richiamare l'attenzione su tutta la questione 87 della Prima Secundae.
Forse per lo stesso dialogo ecumenico, che è nella prospettiva di certe nuove impostazioni, servirà meglio qualche precisazione tomistica che non sempre è stata tenuta nel debito conto.
Quando, p. es., i nostri fratelli separati protestano che « l'applicazione delle penitenze [ satisfattorie nel sacramento della penitenza ], non è un fattore assolutamente necessario per la salvezza dell'uomo, perché essa dipende dal sacrificio del Golgota, che viene appropriato dall'uomo con la fede e il vero ravvedimento » ( KATSANEVAKIS B., op. cit., p. 229 ), possiamo assicurarli che sono molto vicini al massimo teologo della Chiesa Cattolica, il quale afferma che « la pena soddisfattoria, sebbene considerata in astratto sia contraria alla volontà, tuttavia in concreto è volontaria.
Perciò in senso assoluto è volontaria …
Si deve dunque concludere che, tolta la macchia della colpa [ con l'aderire a Cristo nella fede e nella carità ], può rimanere l'obbligazione a una pena soddisfattoria, non già a una vera punizione » ( I-II, q. 87, a. 6 ).
Anche per noi cattolici, quindi la vera pena dovuta per il peccato è tolta radicalmente nel peccatore pentito dal sacrificio del Golgota.
Ma è troppo semplicistico dire che le penitenze non s'impongono o non è lecito imporle per soddisfare alla divina giustizia.
S. Tommaso ci tiene ad abbracciare le cose in tutta la loro complessità: « Tolta la macchia è risanata la piaga del peccato nella volontà.
Ma si richiede ancora la pena per guarire le altre potenze dell'anima sconvolte dal peccato, mediante medicine contrarie.
E si richiede anche per ristabilire l'equilibrio della giustizia, e per togliere lo scandalo subito dagli altri; in modo da edificare con la pena coloro che furono scandalizzati con la colpa, come avvenne nel ricordato esempio [ cfr. 2 Re 12 ] del re David » ( I-II q. 87, a. 6, ad 3 ).
Questo piccolo saggio di riflessione teologica, lo ripetiamo, non pretende di esaurire l'argomento; ma vuol essere un incentivo alla ricerca, e un invito a non abbandonare in codesta impresa le preziose indicazioni dell'Aquinate.
P. TIT0 S. CENTI O. P.
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