18 Dicembre 1974
Noi parleremo anche questa volta, del Natale che viene.
Vi sono mille modi di parlare di questo avvenimento nella storia dell'umanità, di questa festa nel ciclo della liturgia, di questo mistero nella riflessione spirituale.
Il tema del Natale è d'una tale importanza, che chi lo nega, o lo copre di silenzio e d'indifferenza priva la concezione del mondo d'una sua luce centrale, castiga se stesso all'ignoranza d'una chiave esplicativa della propria vita e dell'universo, e copre ogni cosa d'un velo di oscuro mistero, che invece il mistero luminoso del Natale illumina con bagliori affascinanti.
Procuriamo di rivolgere l'attenzione del nostro spirito su questo fatto, che chiamiamo Natale; e consideriamo un istante, fosse pure un istante solo, lo stato d'animo, l'effetto psicologico primo di cui abbiamo in noi stessi coscienza.
È come se aprissimo la finestra della stanza chiusa in cui trascorre la nostra ordinaria esistenza, e ci si presentasse lo spettacolo di certe limpide notti d'estate, punteggiate di stelle innumerevoli, mondi e spazi incommensurabili; l'universo, la realtà immensa e silenziosa in cui siamo immersi, di cui siamo minima, ma pur vera parte.
Pascal si sentiva spaventato dall'immensità silenziosa degli spazi ( Pensées, 206 ).
Noi, contemplando la realtà, la profondità del Natale, che vuol dire della venuta di Cristo nel mondo, cioè il fatto dell'Incarnazione del Verbo di Dio, quale il Vangelo ci presenta, quale la fede ci aiuta in qualche modo a comprendere, noi quale improvvisa emozione proviamo, quale scossa interiore, quale sentimento?
Pare a noi che il sentimento spontaneo e dominante, suscitato dall'annuncio, un annuncio relativo ad una realtà, di cui storia e fede ci fanno sicuri, sia e debba essere la meraviglia, cioè la sorpresa, che subito si evolve in ammirazione, un'ammirazione estatica ed esaltante, sconfinata ed inesauribile: Dio con noi?
Dio come noi? Dio per noi?
e in quel quadro umano, che chiamiamo presepio?
in quella umiltà, che più d'ogni aspetto incantava S. Agostino: « cum esset altus humilis venit » ( En. in Ps. 31,18; Sermo 30,7; etc. ).
E che la meraviglia debba poi formare l'atmosfera di tutta la vita cristiana non ci deve apparire una tensione artificiosa della nostra spiritualità, se, da un lato, essa si svolge in un ordine sopranaturale.
Il disegno della religione cristiana si svolge tutto in un piano superiore a quello ordinario della nostra esistenza naturale, e ci offre continuamente verità, modelli, esperienze che superano il livello normale della nostra vita; pur troppo noi siamo indotti ad abituarci ad ogni manifestazione del mistero divino, alla cui presenza e alla cui conversazione siamo stati ammessi ( Cfr. Ef 1,1-10 ); e siamo inoltre diffidenti giustamente circa la nostra facilità al mito, cioè a inserire la nostra fantasia creatrice nella concezione ideale del nostro mondo.
Ma qui, nell'ambito autentico della fede, la fantasia non crea, forse ci aiuta a rivestire di qualche analogia, di qualche parabola, di qualche immagine artistica le verità divine, che superano la nostra diretta capacità intellettiva.
E se, dall'altro lato, le parole, con cui la rivelazione ci enuncia queste verità, sono esse stesse iperboliche, ci sollecitano ad uno sforzo mentale per sollevarci a quel « regno dei cieli », al quale non possiamo accostarci senza essere invasi da stupore, da meraviglia, da ammirazione.
Citiamo di sfuggita alcune espressioni scritturali, che sembrano destinate ad alimentare in noi tale stato d'animo superpsicologico, che poi, semplicemente definiremo, nel linguaggio cristiano, devozione, fervore, giubilo, ebbrezza spirituale ( Cfr. L'inno di S. Ambrogio: Laeti bibamus sobriam ebrietatem Spiritus ), e di cui S. Francesco di Sales, con la sua rinomata « Introduzione alla vita devota », ancora ci è maestro ( Cfr. anche S. TH. II-IIæ, 82, 3 e 4 ).
Non dice, ad esempio, S. Paolo, che « quando ancora eravamo peccatori … e nemici, siamo stati riconciliati a Dio? » ( Rm 5,8-10 ); e che « noi eravamo figli d'ira, … e che Dio, ricco di misericordia, per il grande amore che ci portava, pur essendo noi morti per le nostre colpe ci richiamò a vita in Cristo … »? ( Ef 2,4-5 )
Egli ci parla di questo amore di Dio per noi, qualificandolo un amore che sorpassa ogni scienza ( Ef 3,19 ); e ci dirà l'evangelista S. Giovanni che: « in questo si manifesta la carità ( di Dio ), perché Egli per primo ci ha amati, e ha mandato il suo Figlio come propiziazione per i nostri peccati » ( 1 Gv 4,10 ).
Potremmo continuare.
Ma questi accenni scritturali ci orientano verso il punto focale del mistero cristiano, e che nella celebrazione del Natale deve illuminare ogni effusione religiosa ed umana che dal Natale deriva: esso è un mistero d'amore di Dio, in Cristo, per noi.
Chi non avverte questa folgorazione dell'amore di Dio nel Natale, che precede e prepara la Pasqua, è come cieco davanti al sole.
Questa è la rivelazione cristiana.
Noi dobbiamo far nostra la parola, ancora di S. Giovanni: « Noi abbiamo conosciuto e creduto alla carità che Dio ha per noi » ( 1 Gv 4,16 ).
E questa è la risposta che S. Anselmo dà, con tutta la teologia cattolica, alla questione ch'egli si è posto: Cur Deus homo? perché Dio si è fatto uomo? ( Cfr. PL 158, p. 359 ss.; e cfr. la sua bella preghiera, p. 769 )
Con la nostra Benedizione Apostolica.