Conseguenze interne delle diatribe sociali

Per Giuseppe Flavio la causa "teorica" della guerra è così riassumibile

"nell'uomo è insito un naturale desiderio di guadagno, e nessuna passione è così pronta ad affrontare qualsiasi rischio come l'avidità. In altre circostanze, certamente, queste brame hanno un limite e sono tenute a freno dalla paura, ma questa volta era il dio che aveva condannato tutto il popolo e indirizzava alla rovina ogni loro via di scampo".

Lo storico non lesina critiche al governo di alcuni Romani che con il loro comportamento alimentarono la ribellione, un procuratore in particolare:

"Gessio Floro, inviato da Nerone quale successore di Albino, portò al colmo le molte disgrazie dei Giudei. […] Floro era tanto malvagio e arbitrario nell'esercizio della sua autorità che i Giudei, per la loro estrema misera, lodavano Albino come benefattore.

Quest'ultimo infatti, teneva nascosta la sua infamia […], ma Gessio Floro […] ostentatamente sfoggiava la sua […].

Non conosceva pietà, nessun guadagno lo saziava, era una persona che ignorava la differenza tra i guadagni più grandi e i più modesti, tanto che si associava persino ai briganti. […]

Era Floro che ci costringeva alla guerra contro i Romani, perché preferivamo perire insieme piuttosto che a poco a poco".

Giuseppe rifiuta comunque, di principio, la ribellione:

"Certamente era bello combattere per la libertà, ma bisognava farlo al principio; ora, una volta sottomessi e rimasti soggetti per tanto tempo, il voler scuotere il giogo non era da persone amanti della libertà, ma da persone che volevano fare una brutta fine.

Si doveva certo disprezzare dei padroni di poco conto, ma non quelli che dominavano il mondo intero. […]

Legge suprema in vigore presso le bestie come presso gli uomini era quella di cedere al più forte, e che il dominare spettava a che aveva armi più potenti".

I risvolti di queste rivolte sfociarono dapprima in una resa dei conti intestina, in cui i ceti benestanti diventarono bersaglio prescelto dei rivoltosi:

"Distribuitisi in squadre per il paese, saccheggiavano le case dei signori, che poi uccidevano [...]"

Ogni farabutto, circondato da una propria banda, s'innalzava al di sopra dei suoi come un capobanda o un signorotto, e si serviva dei suoi scherani per angariare la gente dabbene.

Ma i benestanti non volevano la guerra:

"Quelli, che erano persone di rango e che, avendo delle proprietà, desideravano la pace, […]"

A rimetterci furono anche i sacerdoti di rango inferiore, quest'ultimi alleatisi ormai con i ceti sociali meno abbienti, tanto da bisticciare anche per il cibo:

"Era allora accesa una mutua inimicizia e lotta di classe tra i sommi sacerdoti, da una parte; e i capi della plebaglia di Gerusalemme dall'altra.

Ognuna delle fazioni formava e raccoglieva persone temerarie e rivoluzionarie pronte ad agire come i loro capi. […]

Tale era poi la petulanza vergognosa e l'ardire dei pontefici, che non dubitavano di mandare schiavi sulle aie del grano battuto e prelevare le decime dovute ai sacerdoti, col risultato che i sacerdoti più bisognosi morivano di fame.

[…] Così accadeva che i sacerdoti, che negli antichi giorni vivevano delle decime, ora erano ridotti a morire di fame".

Il risvolto di tale comportamento da parte dei sommi sacerdoti si ebbe nel momento in cui i ribelli presero il sopravvento:

"Alla fine il popolo giunse a tale estremo di impotenza e di terrore, e quelli di follia, da voler prendere nelle loro mani anche l'elezione dei sommi sacerdoti. Pertanto abolirono i privilegi delle famiglie da cui si erano sempre presi a turno i sommi sacerdoti, e nominarono individui comuni e di bassa estrazione per averli alleati nelle loro empie ribalderie […]".

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