Sommario della conferenza con i Donatisti |
Il terzo giorno della conferenza, cioè sei giorni prima delle idi di giugno, dopo che le parti fecero il loro ingresso nell'aula, in primo luogo il giudice chiese se gli atti fossero stati loro notificati.
L'ufficio di segreteria rispose che erano stati trasmessi il giorno precedente a quello promesso, come si poteva controllare dalle ricevute delle due parti.
Furono lette le dichiarazioni, da cui risultò che i Cattolici avevano ricevuto gli atti otto giorni prima delle idi di giugno, all'ora quinta, mentre i Donatisti all'ora terza dello stesso giorno.
In secondo luogo il giudice ordinò di entrare ormai nel merito della questione principale.
I Cattolici dissero che da molto tempo volevano trattare il problema di fondo, cioè che i Donatisti provassero, se ne erano in grado, la fondatezza delle accuse che abitualmente lanciano contro la Chiesa diffusa nel mondo intero.
I Donatisti risposero che prima si doveva accertare l'identità delle persone, chiamate a trattare l'argomento, e così, discutendo sulle persone, cercavano di guadagnar tempo.
Si sviluppò un lungo e vivace dibattito sulla questione: i Cattolici vi si opponevano e insistevano con determinazione perché si affrontasse la questione, lasciando da parte cavilli e tergiversazioni; i Donatisti al contrario pretendevano con forza che si discutesse sulle persone e chiedevano a gran voce di sapere chi avesse chiesto all'imperatore di convocare questa conferenza.
Essi volevano in effetti che fosse riconosciuto ufficialmente che erano stati i Cattolici ad appellarsi, per poter così discutere, a norma del diritto civile, sulle persone che avevano promosso la causa.
Per questo, già nella prima sessione, era stato letto il mandato dei Cattolici, in cui si dimostrava che essi non avevano intentato la causa, ma piuttosto erano stati chiamati in causa per difendersi dalle accuse che i Donatisti abitualmente lanciano contro la loro comunione.
Gli stessi Donatisti precedentemente avevano reclamato dicendo che, nel trattare la causa della Chiesa, non ci si doveva servire di formule giuridiche, ma piuttosto delle testimonianze delle divine Scritture, e avevano riconosciuto, dopo aver letto il mandato dei Cattolici, che costoro avevano voluto appoggiare la causa della Chiesa sulle sante Scritture, promettendo a loro volta di attenersi alla stessa autorità della Legge divina.
Ora invece, quasi dimentichi di ciò che avevano espressamente reclamato e promesso, appena i Cattolici avevano sostenuto l'opportunità di trattare la questione delle accuse contro la Chiesa per confutarle, essi cominciarono a sollevare la questione delle persone che avevano fatto ricorso in giudizio, per poterle giudicare in base alle norme del diritto civile.
Invece i Cattolici si opponevano, e per tagliar corto a tutte le loro manovre ostruzionistiche, dei cui preparativi erano al corrente e di cui ormai era evidente la messa in atto, insistevano con fermezza perché si trattasse piuttosto la causa della Chiesa.
Mentre ferveva la discussione, fu inoltrata la richiesta di far leggere l'editto imperiale, che aveva ordinato di celebrare la conferenza, affinché in tal modo constasse con certezza chi fossero le persone che l'avevano chiesta. In effetti, anche il giudice, per non dare l'impressione ai Donatisti di negare loro ciò che legittimamente chiedevano a norma del diritto processuale, era convinto che prima si dovessero identificare con certezza gli attori della causa.
Pertanto, fatto leggere l'editto imperiale, dichiarò che erano stati i Cattolici ad aver sollecitato la conferenza, e la richiesta era stata accolta.
Allora i Donatisti vollero conoscere il testo della supplica con cui i Cattolici avevano chiesto questa conferenza.
A questo punto il giudice intervenne personalmente precisando che non rientrava nella prassi di inserire in un rescritto pratico la supplica; allora i Donatisti cambiarono tattica: volevano cioè che i Cattolici esibissero una copia del loro mandato, con cui avevano sollecitato l'imperatore a convocare la conferenza, e rivelassero i nomi dei legati che avevano inviato a questo scopo.
Sostenevano infatti che dovevano discutere fra loro il contenuto di questo mandato per potervi cogliere ciò che i Cattolici avevano detto all'imperatore a loro riguardo.
I Cattolici capirono bene che questa mossa tendeva a creare nuove occasioni per rallentare e rimandare indefinitivamente il dibattito, perciò sostennero che la loro richiesta era del tutto estranea alla causa, dal momento che l'imperatore stesso aveva dimostrato in modo inequivocabile che i Cattolici avevano richiesto la conferenza, nominando un giudice per confutare l'errore sulla base di ragioni inoppugnabili.
E insistevano energicamente perché, messi una buona volta da parte tutti i tentativi per bloccare o sviare il dibattito, si trattasse piuttosto l'argomento che l'imperatore aveva ordinato di risolvere con questa conferenza, che gli era stata chiesta e lui aveva autorizzata.
Nel corso di questa discussione ci fu uno scambio di opinioni e di obiezioni fra le due parti per sapere a chi spettasse veramente la qualifica di cattolico, ma fu deciso di riservare la questione alla discussione dell'argomento principale.
E poiché poco dopo i Donatisti ritornarono sulla questione dell'appellativo di cattolico, che era stato usato nella discussione, ribadendo che la Chiesa cattolica era piuttosto la loro, intervenne il giudice per spiegare che, per il momento e senza pregiudizio di alcuno, non poteva chiamare Cattolici se non coloro che l'imperatore aveva chiamato così: lui, infatti, era stato nominato giudice dall'imperatore.
Quanto ai Donatisti, più si proclamavano cattolici, più erano tenuti ad affrontare la questione di fondo, mettendo da parte ogni manovra dilatoria: unica via per dimostrare che questo titolo competeva piuttosto a loro.
A questo punto i Donatisti, dopo tanto temporeggiare e altrettanti interventi interlocutori del giudice contro di loro, il quale premeva perché si addivenisse una buona volta alla trattazione vera e propria della causa e ribadiva che la questione sulla persona dei legati o sul mandato loro affidato non aveva nulla a che vedere con la natura della causa, né lui aveva avuto alcun incarico di indagare su questi punti, dopo tutto ciò dichiararono che, se i Cattolici non volevano sottostare a quanto disposto in riferimento alla identificazione dei delegati o del mandato che avevano ricevuto, almeno si pronunciassero su questo punto: se cioè intendevano assumere il ruolo di attori in giudizio.
I Cattolici restarono veramente sorpresi all'udire che i Donatisti li accusavano di non ottemperare alle disposizioni, perché si rifiutavano di presentare copia del mandato conferito ai loro delegati, in quanto era proprio contro costoro che il giudice si era pronunziato ripetutamente con tanto di sentenze interlocutorie.
Domandarono dunque i Cattolici a quale disposizione non avessero ottemperato; e non avendo risposto a ciò i Donatisti, intervenne il giudice intimando ai Cattolici di rispondere alla questione, posta dai Donatisti, sulla loro posizione di attori.
Ed essi risposero facendo questa proposta: le accuse, che i Donatisti erano soliti lanciare contro la loro comunione, dovevano essere provate o revocate definitivamente, affinché la separazione dei Donatisti potesse essere giustificata oppure eliminata.
Allora il giudice esigette una risposta da parte dei Donatisti, che fu la seguente: gli Africani, che si dicono Cattolici, vogliono difendere in realtà un'altra causa, cioè quella della Chiesa universale; e questo non deve tornare a loro pregiudizio, dal momento che tale problema è in discussione tra Africani; nel frattempo è bene piuttosto lasciare in sospeso la questione della Chiesa transmarina, in quanto coloro che usciranno vincitori dal dibattito apparterranno ad essa e potranno a buon diritto fregiarsi del titolo di cattolico.
Tuttavia, concludendo il loro intervento, reclamarono ancora una volta che fosse data loro una risposta sulla questione della persona del citante.
I Cattolici replicarono brevemente ad ambedue le questioni dicendo che la questione delle persone era già stata definita da un primo e poi da un secondo giudizio, e che sono essi, non i Donatisti, che vivono in comunione con la Chiesa diffusa in tutto il mondo, alla quale rende testimonianza la divina Scrittura: per questo a pieno titolo sono Cattolici di nome e di fatto.
I Donatisti risposero che il nome di cattolici era stato scelto, non tanto in considerazione dell'universalità dei popoli, quanto della pienezza dei sacramenti; pertanto chiedevano ai Cattolici di dimostrare di essere effettivamente in comunione con tutti i popoli.
I Cattolici gradirono assai questo invito e chiesero facoltà di poterlo dimostrare, ma essi cominciarono a rivoltare la questione del famoso mandato affidato ai delegati, di cui avevano reclamato la comunicazione, tentando di accantonare un'altra volta la trattazione della causa della Chiesa, che era già stata posta al centro del dibattito, ora reclamando il mandato suddetto, ora insistendo sulla persona del citante affinché constasse chi aveva assunto questo ruolo, ora chiedendo al giudice di pronunciarsi sul complesso delle loro richieste, sulle quali ripetutamente era intervenuto il giudice per dichiarare che essi chiedevano invano una risposta.
Invece il giudice, benché fosse evidente che costoro, senza alcun appiglio giuridico, chiedevano di poter avere visione del mandato che i delegati avevano ricevuto, in quanto i requisiti per istruire la causa: presentazione della domanda e permesso di tenere la conferenza, erano ormai un dato acquisito, ritenne giustificata la loro richiesta di conoscere l'identità del citante.
I Cattolici ormai si rendevano conto, sia perché erano stati messi sull'avviso sia perché vedevano poste in atto le loro reali intenzioni, che l'interesse dei Donatisti per la questione delle persone dei citanti non mirava ad altro che a fornire un pretesto per allungare a dismisura i tempi della discussione, perciò si opponevano decisamente ad affrontare tale questione, in quanto erano al corrente che al riguardo costoro non avevano nulla da dire, come i fatti successivi, anche se troppo tardi, avrebbero confermato.
E così i Cattolici, in previsione di ciò, non accettarono di assumersi il ruolo di citanti, sostenendo che non erano loro a lanciare accuse, ma si difendevano dalle accuse di cui erano oggetto.
E si sarebbero difesi, fornendo al contempo le prove della falsità delle accuse, perché apparisse in modo inequivocabile che razza di gente fossero i Donatisti e quale iniquità avessero commesso separandosi dall'unità.
I Donatisti, di rimando, asserivano che i Cattolici avevano avuto gioco facile a prendere l'iniziativa di costringere i loro avversari a rispondere persino delle accuse, di cui essi desideravano giustificarsi: in ogni caso, essi avevano il ruolo di attori della causa.
Ma i Cattolici replicavano che, se avevano chiesto la convocazione della conferenza, non era per lanciare accuse da confutare, ma per confutare le accuse lanciate contro di loro; tant'è vero che, sia il mandato dei Donatisti era stato formulato contro i traditori e i persecutori sia le parole di Primiano ai Cattolici, che lo avevano invitato precedentemente a un colloquio, comprovavano che li aveva accusati di un crimine in questi termini: " È indecoroso che si riuniscano in una stessa assemblea i figli dei martiri e i discendenti dei traditori ".
E benché allora rifiutasse il colloquio, più tardi invece dichiarò di voler essere ascoltato e di discutere davanti al tribunale dei prefetti.
Ora, essendo in possesso i Cattolici di questo loro consenso per una conferenza, avevano chiesto all'imperatore che fosse convocata.
A questo punto il giudice ingiunse [ai Donatisti] di provare ormai le loro accuse, accantonando la questione di sapere a chi spettasse il ruolo di attore per aver chiesto la conferenza, essendo stato provato che ambedue le parti l'avevano chiesta.
E qui i Donatisti cominciarono a chiedere con insistenza che il giudice si pronunziasse sulla persona [ del citante ].
Il giudice si pronunziò, sentenziando che, se ambedue le parti avevano chiesto il dibattito, si doveva considerare attore chi aveva formulato le accuse.
Allora i Donatisti pretesero dai Cattolici la prova che ambedue le parti avevano sollecitato la conferenza.
E quando il giudice disse: " Ai Cattolici il compito di provarlo ", nacque di nuovo una discussione a scopo dilatorio sul significato del nome di Cattolici, di Donatisti e di Cecilianisti.
Alla fine i Cattolici presentarono gli atti di un procedimento tenuto nel tribunale della prefettura, per provare che anche i Donatisti avevano sollecitato il dibattito.
Quando il giudice ordinò di leggerli, essi tornarono a fare istanza perché il giudice si pronunziasse in merito, cioè sulla persona e sul mandato dei delegati, cosa che aveva fatto più volte, e di cui essi avevano reclamato invano la comunicazione.
Il loro comportamento, per quanto era dato di capire, era dovuto al timore che venissero letti gli atti della prefettura, nei quali avevano pregiudicato la loro causa per certe risposte sconsiderate e temerarie.
Così sollevarono un prolungato dibattito soprattutto con il giudice: chiedevano che esibisse loro il documento del mandato conferito ai delegati o quantomeno che si pronunciasse se la loro richiesta non poteva essere accolta.
Il giudice rispose che si era già pronunciato e si pronunciava ancora una volta, dichiarando che la richiesta non aveva nulla a che vedere con il procedimento attuale, poiché il rescritto imperiale aveva chiaramente definito ciò che era stato domandato e accordato.
Finalmente, dietro suo ordine, fu data lettura degli atti prefettizi.
Ma appena si lessero la data e i nomi dei consoli di quegli atti, di nuovo i Donatisti interruppero bruscamente la lettura per rinnovare le petizioni precedenti.
Il giudice interloquì, stabilendo di far leggere gli atti per determinare con certezza chi fosse la persona dell'attore; ma essi fecero nuovamente opposizione sostenendo che esistevano atti più antichi: prima si dovevano leggere questi.
I Cattolici replicarono che, se si opponevano alla lettura degli atti prefettizi, era perché temevano di leggervi le proprie dichiarazioni.
I Donatisti dunque presentarono gli atti proconsolari e quelli della prefettura vicariale, in cui i Cattolici avevano fatto domanda, notificata attraverso gli atti municipali, per invitare costoro ad un confronto, affinché si potesse eliminare l'errore attraverso una conferenza, e questo molto tempo prima di una loro analoga richiesta all'imperatore.
Grazie a questi atti, volevano dimostrare che i Cattolici si presentavano in veste di attori, poiché in essi avevano affermato che i Donatisti " erano eretici ed avevano commesso molti crimini contro le leggi divine e umane ".
I Cattolici reagirono a questo attacco affermando che fin d'allora avevano sollecitato la convocazione di una conferenza per rispondere ufficialmente, in nome della Chiesa, alle loro accuse.
Domandarono anche a più riprese che, se si dovevano leggere prima gli atti di cui constava l'anteriorità, si dovevano piuttosto leggere quelli che i Donatisti avevano inviato fin dall'inizio all'imperatore Costantino attraverso il proconsole Anullino per istruire il processo contro Ceciliano.
E così, per leggere gli atti presentati da loro, non lessero più quelli prefettizi, di cui era appena iniziata la lettura.
Nacque un nuovo conflitto, perché era stata data la preferenza agli atti presentati dai Donatisti, anziché a quelli presentati dai Cattolici, in quanto erano stati considerati anteriori.
Era necessario che, almeno dopo la loro lettura, si leggessero anche gli atti, di gran lunga anteriori, in cui si evidenziava come, nelle varie fasi di questa controversia, essi fin dall'inizio si fossero presentati nel ruolo di accusatori davanti all'imperatore con la mediazione del proconsole.
Per impedire questa lettura, i Donatisti si opposero tenacemente con tutta una serie di argomentazioni, proprio come avevano fatto in precedenza per impedire la lettura degli atti prefettizi.
Nel corso di questa accesa polemica ritornarono più volte su quell'argomento, ripetutamente formulato da loro e ripetutamente respinto dal giudice con sentenza interlocutoria: il loro diritto cioè di ottenere una copia del mandato dei delegati. Ponevano anche la questione, già risolta, se i Cattolici preferissero procedere in base alle testimonianze della Legge divina o con atti pubblici; e argomentavano che, se i Cattolici preferivano seguire la strada delle testimonianze della Legge divina, dovevano mettere da parte tutte le leggi e gli atti pubblici; se invece preferivano procedere in base alle leggi e agli atti pubblici, dovevano lasciare da parte i testi divini.
Comunque ribadivano che, se i Cattolici preferivano trattare la questione utilizzando i documenti degli atti pubblici, essi non avrebbero permesso di leggere neppure gli atti che i Cattolici esibivano, poiché a buon diritto li consideravano ormai passati in prescrizione.
Ed era precisamente il punto sul quale, tanto i Cattolici quanto il giudice, avevano replicato in modo più che soddisfacente: essi infatti continuavano a sostenere che la causa era ormai caduta in prescrizione, quindi non si poteva più celebrare, avendo superato il giorno nel quale si compivano i quattro mesi.
Era ormai evidente che avevano una terribile paura che si leggessero gli atti, comprovanti che Ceciliano, prima era stato accusato dai loro antenati presso l'imperatore, poi era stato assolto e riabilitato dai tribunali ecclesiastici e imperiali; in altri termini, temevano che si iniziasse a trattare la causa stessa per cui erano stati convocati, poiché si aspettavano una sonora sconfitta.
Il loro rifiuto e la loro paura erano talmente reali, che si vedevano costretti a confessare di essere sospinti quasi inavvertitamente, cioè a poco a poco, ad entrare nella causa e poi nel fondo della questione : opzione che senz'altro avrebbero dovuto fare, se non volevano fondare le loro argomentazioni su manovre inutili e dilatorie, anziché sulla verità della stessa causa.
Al contrario i Cattolici si impegnavano al massimo per iniziare a trattare la causa, dal momento che constatavano l'assoluta indisponibilità dei Donatisti su questo punto, i quali tuttavia continuavano a rispondere monotonamente alle stesse questioni che non cessavano di proporre, nonostante fossero già state risolte.
Due in sostanza erano le questioni al centro del dibattito: la prima, esibire il mandato che era stato conferito ai delegati; l'altra, se i Cattolici preferivano trattare la causa appellandosi alle testimonianze divine o agli atti pubblici.
Quanto all'esibire quel mandato, i Cattolici ribadirono che la cosa non riguardava affatto né loro né la causa in corso; lo stesso giudice, come aveva dichiarato più volte, confermò che non poteva assolutamente mettere in discussione la persona dei delegati e il mandato che avevano ricevuto, né doveva discostarsi dalle direttive ricevute, tanto più che la lettera imperiale, nominandolo giudice di questa causa, mostrava chiaramente che la conferenza era stata accordata dall'imperatore.
Quanto alla seconda questione, di sapere cioè se i Cattolici sceglievano di appellarsi alle divine Scritture o agli atti pubblici, i Cattolici per l'ennesima volta risposero che, se i Donatisti rinunciavano alle accuse di tipo personale, che abitualmente lanciano contro coloro che considerano traditori, per trattare unicamente la questione di sapere chi è e dove è la Chiesa, essi non si sarebbero serviti degli atti pubblici, ma unicamente dei testi delle divine Scritture; se invece persistevano nell'accusare e criminalizzare le persone, dato che anch'essi non potevano dimostrare la loro infondatezza senza fare ricorso ad atti di tal genere, senza alcun dubbio si sarebbero difesi da queste incriminazioni con gli stessi atti: non c'era altro mezzo in effetti per sostenere o per confutare queste accuse.
Ecco quanto i Cattolici e lo stesso giudice continuavano a ripetere e ribadire loro, mentre essi tornavano sugli stessi argomenti facendo le stesse domande, variando continuamente la tattica del loro ostruzionismo per impedire che si venisse alla discussione della causa e si leggessero gli atti, che vedevano già fra le mani.
Alla fine però il giudice riuscì a piegare la loro prolungata ostinazione e fece leggere la documentazione presentata dai Cattolici.
Si cominciò così finalmente a trattare la causa, per la quale si erano riuniti tanti vescovi di una e dell'altra parte.
Fatto veramente sorprendente: i Donatisti volevano un'inchiesta sulla persona dell'attore in causa per impedire la trattazione della causa, e fu proprio questa inchiesta sulla persona dell'attore che pose subito la causa al centro del dibattito!
Ecco dunque ciò che fu fatto in terzo luogo.
Fu data lettura del rapporto del proconsole Anullino all'imperatore Costantino.
I Donatisti domandarono da dove fosse stata tirata fuori questa relazione; i Cattolici risposero che, se avevano qualche dubbio, dovevano consultare l'archivio del proconsole.
Questo rapporto contiene la prova schiacciante che erano stati i Donatisti a prendere l'iniziativa di rivolgersi all'imperatore Costantino, tramite il citato proconsole, per presentargli le accuse che lanciavano contro Ceciliano.
Terminata la lettura, i Donatisti cominciarono a domandare ai Cattolici chi chiamassero loro padre.
Ed essi risposero loro citando il testo evangelico: Non chiamate nessuno vostro padre sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, Dio. ( Mt 23,9 )
Malgrado questa citazione, essi si misero ugualmente a chiedere se consideravano Ceciliano loro padre o madre.
I Cattolici risposero che non lo consideravano né padre né madre, ma fratello: se si comportava bene, fratello buono; se si comportava male, fratello cattivo.
In forza della comunione dei sacramenti, infatti, anche se fosse stato cattivo, continuava ad essere fratello.
Questa risposta provocò un lungo battibecco fra Donatisti e Cattolici: stesse domande, stesse risposte.
I Donatisti fecero anche la seguente obiezione con le parole dell'Apostolo: Anche se aveste molti pedagoghi in Cristo, non avreste però molti padri, perché sono io che vi ho generati in Cristo Gesù, mediante il vangelo. ( 1 Cor 4,15 )
Risposero i Cattolici che qui si trattava di un titolo di onore in rapporto al mistero evangelico, del quale era dispensatore l'Apostolo; in realtà, in rapporto alla fede e alla salvezza eterna, non c'è che un solo padre: Dio.
D'altronde non è possibile che l'Apostolo si sia espresso in contrasto con la dichiarazione di Cristo: Non chiamate nessuno vostro padre sulla terra, perché uno solo è il padre vostro, Dio; lui invece, l'Apostolo, quasi opponendosi alle parole di Cristo, si è chiamato padre di coloro ai quali aveva annunziato il Vangelo.
Il problema è che si deve distinguere bene ciò che poteva essere detto in rapporto alla grazia divina e ciò che era detto in ragione di un onore umano.
I Donatisti chiesero anche chi fosse il vescovo che aveva ordinato Agostino, penso per ordire chissà quali calunnie, come si sospettava.
Egli rispose loro immediatamente che era stato ordinato da Megalio, che a quel tempo era primate dei vescovi della Chiesa cattolica in Numidia, e insistette perché tirassero subito fuori le accuse che avevano architettato contro di lui, per poter dimostrare che anche in questo caso erano calunniatori.
Allora essi cambiarono subito argomento, portando la discussione sulla persona di Ceciliano, il quale, secondo i Cattolici, non poteva pregiudicare la Chiesa, anche se si fosse riusciti a dimostrare che le accuse mosse contro di lui erano vere, accuse che peraltro nessuno era in grado di provare.
Allora i Donatisti produssero la lettera, che dicevano di aver ricevuta dal loro concilio generale; con essa intendevano rispondere al mandato dei Cattolici, che era stato allegato il primo giorno del dibattito e di cui il giorno seguente, prima di iniziare la seconda sessione nel terzo giorno, i Donatisti avevano sollecitato la pubblicazione con una petizione scritta per poter venire all'udienza debitamente informati.
Probabilmente, anche per avere il tempo necessario di redigere accuratamente questa lettera,avevano chiesto di rimandare di sei giorni la seconda seduta: cosa che era stata loro concessa.
Ed ecco ciò che fu fatto in quarto luogo.
Fu data lettura della citata lettera dei Donatisti, nella quale tentavano di rispondere al mandato dei Cattolici, che era stato inserito negli atti della prima sessione.
Al quale mandato essi non furono in grado di rispondere, come potrà facilmente constatare chi vorrà prendersi la briga di mettere a confronto i due documenti.
Prima di tutto essi si rifiutarono di leggere ed esaminare direttamente le testimonianze della Legge divina, dei Profeti, dei Salmi, degli scritti apostolici ed evangelici, che abbiamo citato per dimostrare che la Chiesa cattolica, cominciando da Gerusalemme, ( Lc 24,47 ) si è diffusa in tutto il mondo; e da lì, espandendosi via via per tutte le regioni vicine e lontane, essa ha raggiunto anche l'Africa e molti altri territori e città, nei quali fin dalle origini si è diffusa, e in cui si trovano molte chiese che appartengono all'unica Chiesa, fondate dal lavoro degli Apostoli, con le quali i Donatisti notoriamente non sono in comunione.
Ebbene, nella loro lettera pur così prolissa, essi non hanno osato citare alcun testo delle sante Scritture per stabilire che la Chiesa del partito di Donato era quella predetta e preannunziata, mentre invece i Cattolici hanno fornito numerosi testi in favore della Chiesa con la quale sono in comunione, quella che partendo da Gerusalemme si espande per tutto il mondo.
Essi dunque non hanno attinto nulla da una tale mole di testimonianze, anzi, non ne hanno fatto parola alcuna, come se nel mandato dei Cattolici, cui sembravano voler rispondere, non fossero citate; in cambio tentarono di dimostrare con l'ausilio di molte citazioni delle divine Scritture che le profezie annunciavano una Chiesa di Dio non formata in futuro dalla mescolanza con uomini malvagi.
Per questo, quando si imbatterono più in là nella parabola evangelica delle reti gettate in mare, che i Cattolici avevano citato nel loro mandato, nelle quali, secondo la parola del Signore, veniva raccolto ogni genere di pesci, e quelli buoni venivano separati dai cattivi sulla riva, ( Mt 13,47-50 ) cioè alla fine dei tempi, anch'essi ammisero che nella Chiesa i cattivi, almeno quelli occulti, sono mescolati ai buoni.
Quanto alla zizzania che cresce con il grano, affermarono che ciò non si applicava alla Chiesa, ma al mondo, perché il Signore dice: Il campo è questo mondo. ( Mt 13,38 )
Quanto alla parabola dell'aia, come dicevano i Cattolici, in cui la paglia è mescolata al grano fino al tempo della vagliatura, i Donatisti non avevano neppure tentato una qualsiasi interpretazione, come se di tutto ciò non fosse scritto assolutamente nulla nel Vangelo; al contrario, considerandola pura invenzione dei Cattolici, la rifiutarono appoggiandosi al seguente testo del profeta Geremia: Che cosa ha in comune la paglia con il grano? ( Ger 23,28 ) senza considerare il motivo per cui disse questo; infatti lui non parlava della Chiesa, ma delle visioni divine dei profeti e dei sogni umani, rifiutandosi decisamente di metterli a confronto.
Anche l'altra parabola delle pecore e dei capri, che pascolano insieme e alla fine dei tempi saranno separati, ( Mt 25,32-33 ) che i Cattolici avevano citato insieme ad altre parabole evangeliche, non fu tenuta in alcuna considerazione dai Donatisti.
Non potevano certo affermare che lì, nei pascoli comuni, i pastori ignoravano la presenza dei capri, come invece avevano detto a proposito dei pescatori, che non sono in grado di distinguere nel mare i pesci cattivi!
Così pure, volendo i Cattolici dimostrare nel loro mandato che i cattivi sono tollerati dai buoni nella Chiesa, senza che i buoni siano inquinati dal contatto con i cattivi, si erano rifatti agli esempi dei Profeti, dello stesso Cristo Signore, degli Apostoli e, dopo questi, anche dei buoni vescovi, concordando in ciò con il giudizio degli stessi Donatisti, che si erano rifiutati di considerare alcuni dei loro inquinati dal contatto con Massimiano, pur essendo implicati nello scisma di Massimiano.
Essi tentarono nella loro lettera di abbozzare una risposta a tutto ciò che riguardava i Profeti, Cristo Signore e gli Apostoli, ma tacquero sui vescovi e sui Massimianisti.
Per quanto riguarda i vescovi, si sentivano condizionati dall'autorità morale di Cipriano, di cui i Cattolici avevano proposto il passo di una lettera nel loro mandato, che metteva in assoluta evidenza come lui avesse ordinato di tollerare anche i malvagi nella Chiesa per salvaguardare la sua unità e di non abbandonare la Chiesa per causa loro,1 aggiungendo che lui stesso aveva tollerato nella Chiesa alcuni suoi colleghi, di cui aborriva la loro condotta immorale e di cui sconfessava apertamente i gravi misfatti.2
Soggiogati dunque dall'autorità morale di Cipriano, i Donatisti, pur avendo fatto qualche accenno ai Profeti, a Cristo Signore e agli Apostoli, su questo punto, che cioè non si doveva tollerare la mescolanza dei peccatori nella Chiesa, non vollero dire neppure una parola sui vescovi.
Eppure, anche a proposito di Giuda il traditore e dei predicatori che annunciavano Cristo per invidia, che Paolo tollerò, lo stesso Cipriano pensò ed espresse lo stesso concetto che avevano esposto i Cattolici nel loro mandato, cioè che il Signore sopportò Giuda ( Gv 6,70 ) per mostrare che nella Chiesa si dovevano tollerare i peccatori, e nella Chiesa, non fuori di essa, Paolo sopportò coloro di cui disse tali cose. ( Fil 1,15-18 )
Quanto ai Massimianisti, che cosa potevano rispondere costoro, dal momento che erano ancora vivi alcuni personaggi, dal cui comportamento potevano essere smentiti clamorosamente e con estrema facilità?
Così, circa la denuncia segnalata dai Cattolici nel loro mandato, che cioè i Donatisti avevano espulso dalle basiliche i Massimianisti facendo intervenire i tribunali civili, essi tentarono una qualche risposta, sostenendo che non avevano accusato di alcun crimine né forzato alcuno ad entrare in comunione con loro, limitandosi a reclamare come cittadini i loro beni o quelli dei loro.
Essi dimenticavano però l'affermazione di Primiano, consegnata agli atti, il quale un giorno aveva raccomandato di dire: " Essi portano via le cose altrui, noi abbandoniamo ciò che ci viene preso ".3
Per quanto riguarda invece gli altri dati sui Massimianisti, segnalati nel mandato dei Cattolici: che avevano riammesso con tutti gli onori coloro che avevano condannato, che avevano dichiarato esenti da colpa i complici di Massimiano, che avevano preferito approvare, anziché annullare o far reiterare il battesimo, amministrato a loro durante lo scisma; su tutto ciò, non dissero neppure una parola di replica, sorvolandovi con sorprendente silenzio, come se non se ne fosse detto nulla.
I Cattolici nel loro mandato sostenevano anche che l'Apostolo, riferendosi specificatamente al battesimo, aveva scritto di alcuni: Soffocano la verità nell'ingiustizia, ( Rm 1,18 ) per dimostrare che poteva verificarsi il caso di una verità, in sé indistruttibile, posseduta in un contesto di iniquità, che si deve distruggere.
Ma questa affermazione o non la compresero o, se la capirono, la vollero oscurare con le loro chiacchiere per impedire che altri la capissero, sostenendo che l'Apostolo intendeva alludere all'errore dei pagani, come se fosse attinente alla questione spiegare di quale errore parlava, avendo già chiarito bene che una verità poteva essere soffocata nell'ingiustizia, per cui, se l'una e l'altra si trovano nello stesso individuo, la verità sia approvata e l'iniquità sia corretta. Proprio come fa la Chiesa cattolica, quando riconosce e abbraccia nei Donatisti la verità del sacramento, ma rigetta e corregge in essi l'iniquità dell'eresia.
Anche l'altra questione, proposta dai Cattolici nel mandato, e cioè che non si deve distruggere il battesimo di Cristo per il solo fatto che lo conferiscono anche gli eretici, come pure non si deve negare Cristo perché lo confessano persino i demoni, o non la capirono bene o la vollero oscurare, insinuando che i Cattolici avevano insultato i martiri, senza specificare tuttavia a quali martiri si riferissero.
Inoltre affermavano che i Cattolici volevano essere in comunione con i demoni, come se lanciare l'anatema sulla loro iniquità senza rigettare il battesimo, che si riconosce valido nel loro rito battesimale, equivalesse ad instaurare una forma di comunione con gli eretici; la stessa cosa infatti si verifica quando si lancia l'anatema sull'iniquità dei demoni senza negare il nome del Signore che si ascolta nella loro confessione!
Nella loro lettera si occuparono diffusamente anche delle persecuzioni, di cui vogliono farsi passare per vittime, ma si guardarono bene dal rispondere al quesito, posto dai Cattolici nel loro mandato, e cioè che proprio loro erano stati i primi ad accusare Ceciliano presso l'imperatore Costantino, mentre adesso si lagnano delle leggi imperiali, e per istigare all'odio contro i Cattolici gonfiano le notizie sia dei suicidi dei loro circoncellioni, sia di tutte le pene che devono scontare da parte delle leggi e degli ordinamenti statali, non certo a causa della loro comunione con Donato, bensì per i loro crimini che seminano violenza e terrore, e rendono la loro condotta abominevole.
Per questo hanno avuto la sfrontatezza di nominare la città di Bagai, ove sono ben noti i delitti enormi da loro commessi e la lieve entità delle pene loro comminate.
C'è un altro punto, cui accenna il mandato dei Cattolici, a proposito della giustificazione e assoluzione di Ceciliano e di Felice di Aphthungi, dei cui pretesi delitti erano soliti incolpare i Cattolici per attirare su di loro l'odio di chi non era al corrente dei fatti.
Benché fosse proprio qui l'essenza stessa della causa per cui erano convenuti, non vollero dedicarvi una sola parola nella loro lettera così prolissa.
Infatti, appoggiandosi sia sulle loro tesi sia sulle testimonianze scritturistiche, affermavano che i cattivi non devono essere tollerati nella Chiesa, al contrario devono essere isolati per evitare il contagio dei loro peccati; nello stesso tempo però rivelavano un'altra loro convinzione: i peccati altrui, finché sono ignoti, non possono inquinare alcuno.
Del resto lo avevano già dichiarato a proposito dei pesci cattivi: come i pescatori non li possono vedere perché, pur essendo nelle reti, sono nascosti tra i flutti, così anche i sacerdoti ignorano nella Chiesa la presenza di peccatori occulti, quindi non sono minimamente inquinati da loro.
Per questo motivo non tentarono neppure di addurre una sola prova, sia pur fragile e superficiale, nella loro lettera così prolissa e redatta con tanto tempo a disposizione, per rispondere al quesito principale del documento dei Cattolici: dimostrare che, non solo erano veri i crimini di Ceciliano, il che sarebbe stato poco, ma anche che questi fatti, debitamente provati, avevano potuto essere dimostrati e portati a conoscenza della Chiesa, che si estende in tutte le nazioni fino agli estremi confini della terra, perché così, almeno dal loro punto di vista, essa potesse essere inquinata dal contagio dei peccati manifesti.
Quando dunque fu terminata la lettura del documento dei Donatisti, il giudice volle far leggere anche gli scritti che i Cattolici avevano consegnato per essere letti.
I Donatisti a questo punto cominciarono a reclamare una risposta alla loro lettera, cosa che volevano ancor più i Cattolici, desiderosi di una puntualizzazione perché non sembrasse irrefutabile.
I Cattolici dunque iniziarono a rispondere, ma i Donatisti li interruppero con strepiti per impedire al relatore di fare una esposizione serena e ininterrotta, così come era stato possibile fare per la loro lettera, senza che nessuno interloquisse.
I Cattolici volevano dunque dimostrare come si dovessero interpretare i testi della Scrittura, sia quelli citati da loro sia quelli citati dagli altri, per non dar l'impressione che fossero tra loro contraddittori: essendo tutti di origine divina, dovevano essere pienamente consonanti fra loro, non in contraddizione.
E cominciarono subito a spiegare la parabola dell'aia, ( Mt 3,12; Lc 3,17 ) ma i Donatisti li interruppero, dicendo che nel Vangelo non c'era nulla di scritto a riguardo dell'aia.
Allora i Cattolici citarono per esteso il passo del Vangelo; nuova interruzione: sono i peccatori occulti, ribattevano, che il Vangelo chiama paglia, perché sono destinati ad essere spazzati via dalla vagliatura.
E così, fra i loro strepiti e interruzioni, nacque una vivace discussione sul tema della zizzania e del grano buono a causa del termine mondo, nel quale i Donatisti non volevano intendere la Chiesa, poiché è scritto: Il campo è il mondo. ( Mt 13,38 )
Fornirono al riguardo numerosi testi della santa Scrittura, da cui risultava che essa chiamava mondo unicamente i cattivi, come questo: Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui, ( 1 Gv 2,15 ) ed altri simili.
Essi in tal modo pretendevano di dimostrare che il termine mondo non significava affatto la Chiesa.
Al contrario, i Cattolici presentavano altri testi, in cui il termine mondo assumeva un significato positivo, come ad esempio: È stato Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo, ( 2 Cor 5,19 ) ed altri simili, per dimostrare che proprio la Chiesa è stata riconciliata con Dio per mezzo di Cristo.
Tale era la situazione: i Cattolici, da una parte, tentavano di portare avanti il loro discorso senza lasciarsi interrompere; i Donatisti, dall'altra, rumoreggiavano per impedirlo; e anziché attendere il loro turno per intervenire, come avevano fatto i Cattolici quando avevano ascoltato la lettura della loro lettera, interloquivano continuamente per contraddire, con lo scopo di impedire che i Cattolici sviluppassero la loro esposizione in modo tranquillo.
E così i Cattolici, facendo appello continuo al loro senso di moderazione, faticosamente richiesta e ottenuta attraverso le sentenze interlocutorie del giudice, risposero alla loro lettera dimostrando, sulla scorta di numerosi testi ed esempi delle sante Scritture, che nella Chiesa attuale i cattivi sono talmente frammisti ai buoni che, per quanto debba vigilare su di loro la disciplina ecclesiastica per correggerli, non solo con richiami verbali ma anche con la scomunica e la degradazione, tuttavia in essa non solo si trovano peccatori occulti, di cui si ignora la presenza, ma il più delle volte si devono tollerare peccatori notorî per tutelare la pace dell'unità.
A tal riguardo mostravano la concordanza dei sacri testi, in modo che quelli che presentano la Chiesa come mescolanza con i cattivi si debbano riferire allo stato attuale, quale è di fatto al presente, mentre i testi che la configurano senza mescolanza di cattivi si riferiscano a quello stato, in cui sarà per sempre nel futuro dell'eternità.
Come al presente essa è mortale, essendo costituita da uomini mortali, così un giorno sarà immortale, quando in essa nessuno morirà più; proprio come lo stesso Cristo, che per lei fu mortale in questo tempo, ma dopo la risurrezione non muore più e la morte non avrà più potere su di lui: ( Rm 6,9 ) condizione che accorderà anche alla sua Chiesa alla fine dei tempi.
Queste due epoche della Chiesa: ciò che è ora e ciò che sarà allora, sono state prefigurate anche dalle due pesche: una, prima della risurrezione di Cristo, quando comandò di gettare le reti senza specificare né la parte sinistra né la parte destra, ( Lc 5,4-10 ) al fine di insegnare che nelle reti dei suoi sacramenti sarebbero finiti né solo i cattivi né solo i buoni, ma i cattivi mescolati ai buoni; l'altra invece dopo la risurrezione, quando comandò di gettare le reti dalla parte destra, ( Gv 21,6-11 ) per farci capire che, dopo la nostra risurrezione, soltanto i buoni sarebbero stati nella Chiesa, in cui non ci saranno più eresie né scismi, che ora lacerano le reti.
In effetti, anche il Vangelo rammenta che nella prima pesca le reti si ruppero, mentre della pesca che sarà alla fine dei tempi è detto: E benché fossero tanto grandi i pesci, la rete non si spezzò. ( Gv 21,11 )
Di questa Chiesa - continuavano spiegando i Cattolici - fu detto anche che non sarebbero passati per essa né l'incirconciso né l'immondo; ( Is 52,1 ) agli immondi infatti appartengono le sètte scismatiche, che alla fine non ci saranno più, perché la rete non si spezzò.
Questo fatto fu simboleggiato anche dal corvo, uccello immondo, uscito dall'arca senza farvi ritorno. ( Gen 8,6 )
La quale arca tuttavia, dopo la partenza del corvo, aveva certamente altri animali immondi, eppure sia gli animali mondi sia quelli immondi vivevano insieme in essa finché durò il diluvio, ( Gen 7,2 ) proprio come, nella Chiesa, buoni e cattivi sono mescolati finché durerà questo mondo.
E come Noè offrì un sacrificio, non con animali immondi ma con quelli mondi, così raggiungono Dio non coloro che sono cattivi nella Chiesa, ma coloro che sono buoni.
I Donatisti avevano sostenuto nella loro lettera che anche i Profeti non avevano voluto avere rapporti di comunione con coloro che avevano accusato di crimini così enormi.
A ciò i Cattolici risposero che c'era un unico tempio, di cui tutti si servivano, e che di tutti i Profeti che parlarono così duramente contro i malvagi, non ce ne fu uno che volle farsi per sé un altro tempio, altri sacrifici, altri sacerdoti.
E poiché i Donatisti avevano sostenuto nella loro lettera, basandosi su testi scritturistici, che i peccati dei genitori sono imputabili anche ai figli, benché ciò sia da intendersi rettamente solo se riferito a quei figli che imitano le iniquità dei loro genitori, i Cattolici risposero in questi termini: malgrado la virulenza e l'asprezza dei rimproveri lanciati contro quel popolo nei testi divini, che gli stessi Donatisti menzionano nella loro lettera, tanto da far pensare che in esso non fosse rimasto più neppure un solo giusto, tuttavia in quel popolo vi furono, non solo quei santi Profeti, ma da esso nacquero anche coloro che lo stesso Signore trovò degni di lode venendo nella sua carne mortale: Zaccaria, Elisabetta e il loro figlio Giovanni, il vecchio Simeone e la vedova Anna. ( Lc 1-2 )
Da tutto ciò appare chiaramente con quale empietà e quanto calunniosamente essi attribuissero ai Cattolici del mondo intero i crimini di Ceciliano, così come non si potevano addossare a Simeone, ad Anna e ai loro eguali le malvagità di quel popolo, in cui erano nati e i cui sacramenti li avevano santificati: misfatti, rimproverati a quel popolo non da opinione umana, ma dalla parola di Dio.
Fu menzionato anche un testo profetico, in cui si diceva che erano stati segnati con il sigillo coloro che deploravano i delitti commessi in mezzo a loro, ( Ez 9,4 ) senza però essere stati separati fisicamente da loro.
Si parlò poi anche del tipo di separazione che i buoni devono praticare in questa vita con gli empi e i peccatori per non essere coinvolti nei peccati altrui; ( 1 Tm 5,22 ) in altre parole: con il cuore e con la difformità della vita e della condotta.
Così, né più né meno, si doveva intendere il testo della Scrittura: Uscite dalla loro società, allontanatevi di là, e non toccate nulla di immondo; ( Is 52,11 ) in altri termini: separatevi con la diversità della vita e non darete il vostro consenso all'impurità.
E qui si presentò un'ottima occasione per rispondere ai Donatisti, i quali avevano replicato al giudice, quando li aveva invitati a sedersi, che per loro valevano queste parole della Scrittura: non si deve sedere con gente di tal fatta.4
I Cattolici dunque, rispondendo alla loro lettera, chiarirono che non si doveva intendere la separazione dai cattivi durante questa vita come la intendevano loro, i quali non avevano voluto sedersi insieme a loro perché li consideravano empi, in base alla Scrittura: Non siedo nell'assemblea degli empi.
Ora, se li consideravano realmente empi, non avrebbero dovuto sottacere neppure la proibizione, che segue nello stesso Salmo: Non mi associerò con gli operatori di ingiustizia. ( Sal 26,4 )
Pertanto, se costoro erano entrati insieme a quelli che consideravano empi, perché non si erano anche seduti, per far vedere chiaramente che, nell'uno e nell'altro caso, essi avevano voluto evitare di entrare e stare insieme, non tanto con il corpo ma con lo spirito?
E qui si parlò anche della questione dei Massimianisti, che più volte era stata sottoposta alla loro attenzione; essi avevano affermato che in questa faccenda, né loro né gli altri, coinvolti nello scisma di Massimiano e suoi complici nella condanna di Primiano, ai quali era stata accordata una dilazione, erano stati assolutamente contagiati dallo scisma: ed erano proprio loro a pretendere che l'intera cristianità, fino agli estremi confini della terra, fosse stata distrutta a causa dei crimini di Ceciliano!
I Donatisti, nell'impossibilità di replicare a questi testi inconfutabili della Scrittura, suffragati anche dal loro comportamento nei confronti dei Massimianisti, ritornarono su una questione già liquidata, dicendo che il termine mondo non spiegava bene la realtà della Chiesa, nella quale devono crescere insieme il grano buono e la zizzania; e ciò malgrado le innumerevoli citazioni, prodotte dai Cattolici, da cui traspariva chiaramente che il termine mondo aveva anche un significato positivo e, nella fattispecie, non poteva essere riferito se non alla Chiesa.
D'altronde, comunque si voglia intendere il termine mondo, mentre i due tipi di semente crescono nel mondo, non si deve certo abbandonare il grano buono del mondo intero a causa della zizzania.
Ebbene, pur essendo tutte cose già dette e la questione sembrasse ormai chiusa, essi vi ritornarono sopra replicando una per una le identiche argomentazioni con assoluta povertà di contenuti.
Cercavano insomma di sapere come avesse potuto il diavolo seminare la zizzania nella Chiesa; inoltre accusavano i Cattolici di aver affermato l'esistenza di due Chiese: una che attualmente ha nel proprio seno una mescolanza di cattivi, l'altra che non li avrà più dopo la resurrezione: come se i santi, che dovranno regnare un giorno con Cristo, non fossero gli stessi che ora tollerano i cattivi per amor suo vivendo santamente!
I Cattolici ribatterono queste affermazioni, sostenendo che anch'essi avevano già ammesso l'esistenza nella Chiesa anche dei cattivi, almeno occulti, e a loro volta chiesero come avesse fatto il diavolo a seminarli nella Chiesa, dal momento che chiedevano spiegazioni sulla zizzania, come se la cosa fosse impossibile.
I Cattolici si rifecero anche alla testimonianza di Cipriano, il quale aveva interpretato la stessa parabola evangelica solo nel senso che la zizzania non è nascosta, ma è ben visibile.5
Essi si guardarono bene dal contraddire questa testimonianza, perché tengono in tale considerazione l'autorità di Cipriano, che ad essa si appellano per tentare di giustificare la loro teoria e prassi sulla reiterazione del battesimo.
Quanto alla loro calunnia sulle due Chiese, i Cattolici la confutarono mettendo in maggior rilievo ciò che avevano più volte affermato, e cioè che questa Chiesa, la quale attualmente annovera anche i cattivi, per loro non è estranea al regno di Dio, in cui non vi sarà più mescolanza di cattivi, ma è l'identica Chiesa, una e santa, di cui è diversa la condizione in questo tempo e in quello futuro: ora ha in sé una mescolanza di cattivi, allora non l'avrà più; adesso è mortale, in quanto è formata da uomini mortali, allora invece sarà immortale in quanto nessuno morirà più, neppure nel corpo; come non vi sono due Cristi, perché prima egli è morto e dopo non morirà più.
Si parlò anche dell'uomo esteriore e dell'uomo interiore, che, benché siano espressione di due realtà diverse, tuttavia non si può dire che si tratti di due uomini: tanto meno si può parlare di due Chiese, poiché si tratta degli stessi individui, che ora, essendo buoni, tollerano la mescolanza con i cattivi e muoiono per risuscitare, ma un giorno non conosceranno più né mescolanza con i cattivi né alcuna forma di morte!
Si parlò pure del numero delle Chiese.
I Donatisti infatti, basandosi sulla testimonianza delle Scritture, difendevano l'opinione dell'unicità della Chiesa, anziché di due, di cui non finivano di accusare i Cattolici.
Risposero i Cattolici che nella Scrittura sono menzionate addirittura molte Chiese, e lo stesso apostolo Giovanni scrive a sette: ( Ap 1,4 ) naturalmente si dovevano considerare come membra dell'unica Chiesa.
Conseguenza logica: [ i Donatisti ] non avevano alcuna ragione di attribuire ad essi l'idea delle due Chiese, in quanto avevano semplicemente affermato che esiste un'identica e unica Chiesa, e attualmente non è come sarà nella risurrezione, così come non si eccepisce nulla contro le lettere degli Apostoli, che ne menzionano molte, ma sono un tutt'uno con quest'unica e identica Chiesa.
A tutto questo i Donatisti non mancarono di replicare con le solite obiezioni, soprattutto insistendo con particolare accanimento sul fatto che i Cattolici avevano affermato che la Chiesa è mortale.
Essi infatti negano che sia mortale, poiché la Trinità è immortale e la sua grazia consacra la Chiesa, e Cristo è morto per lei allo scopo di renderla immortale.
Come se i Cattolici avessero sostenuto che essa non diventava immortale per opera della grazia di Dio e per il sangue del Salvatore, effuso per lei! Quello che essi avevano detto, in realtà, era che si dovevano distinguere due tempi: quello presente, in cui tutti i santi muoiono come morì Cristo; quello futuro, in cui risorgeranno e vivranno, nessuno escluso, con Colui che è già risorto.
Indice |
1 | Cypr., Ep. 54, 3: Csel 3-2, pp. 622-623 |
2 | Cypr., Serm. de lapsis, 6 |
3 | Aug., Contra Cresc., 4, 47, 57 |
4 | Sopra, Collationis die 2, cap. 1 |
5 | Cypr., Ep. 54, 3 |