Gli stati di vita del cristiano

Indice

L'uomo dell'Eden

La linea di separazione che scorrerà attraverso la Chiesa e separerà lo stato di vita nel mondo dallo stato conforme ai consigli, ponendo perciò il cristiano - fondamentalmente ogni cristiano - di fronte alla scelta e alla decisione dello stato al quale Dio lo abbia destinato, questa linea di separazione non era prevista nella creazione originaria.

Così come non lo era l'intero ordine visibile della Chiesa come un corpo speciale all'interno della restante umanità, delimitato nei confronti del « mondo » e ponente gli uomini sempre di continuo di fronte alla decisione prò o contro il cristianesimo; e così come nemmeno lo era perciò l'esistenza di uno speciale ordine di sacerdoti, incaricati del ministero della Parola e dei Sacramenti ( giacché anche una precisa parola di Rivelazione e Sacramenti nel nostro senso non erano previsti per l'umanità originaria ).

Le linee di demarcazione che oggi delineano gli stati di vita cristiani sono collegati con lo stato della redenzione, che presuppone lo stato della caduta, del peccato.

Esse non sarebbero state necessarie prima del peccato.

Poiché ora però l'oggetto della nostra ricerca è la distinzione degli stati di vita cristiani, sarà importante disegnare il più chiaramente possibile l'origine di questa distinzione, per rendere comprensibile a partire da ciò la sua necessità e la sua odierna importanza.

Partendo dallo stato originario come stato dell'uomo pensato, voluto e creato originariamente da Dio, deve poter venir dedotto e rischiarato alla fine quello stato posteriore che proviene esso pure da Dio.

Gli stati posteriori, ognuno alla sua maniera, devono rispecchiare qualcosa di quell'idea che Dio volle sin dall'inizio realizzare con la creazione dell'uomo.

Così deve anche in qualche modo esser possibile dagli stati odierni guardare indietro allo stato di Adamo, e determinare la vera posizione in cui Dio lo aveva posto, almeno a mo' di accenno, facendovi convergere come angoli visuali diversi gli odierni stati di vita.

Chi si accinge a dire qualcosa sull'uomo dell'Eden deve però prima render conto di quanto, non solo temporalmente ma secondo la costituzione, quest'uomo originario sia lontano dall'uomo odierno.

Egli è la sua origine e incorpora come tale l'idea dell'uomo, ma sarebbe sbagliato credere che noi possiamo giungere a scoprire quest'idea anche solo con un processo di avvicinamento ad essa.

Alcune qualità particolari dell'uomo originario, che la Rivelazione ci indica quasi dappresso, aprono, se si cerca di riflettere sino in fondo sul loro senso, prospettive che ci rivelano che non siamo affatto in grado di immaginarci e di ricostruire l'interna forma della sua vita, del suo destino, della sua autocoscienza.

Prescindiamo dal fatto espresso nel racconto delle origini che Adamo non ha genitori, non ha tradizione nella quale crescere destandosi ad essa, dal fatto che egli da solo chiama per nome gli enti che Dio gli conduce innanzi e così trova il linguaggio, finché diventa chiaro che questo chiamare per nome e parlare esige una vera corrispondenza, e Dio forma dal suo fianco la compagna, il Tu, e la conduce a lui.

Guardiamo piuttosto al fatto che entrambi « sono nudi ma non si vergognano l'uno davanti all'altro » ( Gen 2,25 ), che entrambi non soggiacciono alla morte, la quale è posta per la prima volta solo come punizione per aver colto il frutto dall'albero della conoscenza, che entrambi non distinguono il bene e il male, addirittura espressamente non devono distinguerli.

Queste tre qualità sono così opposte a quelle dell'uomo odierno, che noi solo con fatica siamo in grado di vedere in esse dei pregi dello stato originario.

Il sentimento del pudore, la consapevolezza della morte e la necessità della distinzione del bene dal male ci appaiono come tre colonne fondanti del nostro essere spirituale, del comportamento etico e religioso.

1. Il pudore è un fenomeno sottile, ramificato lungo tutto il nostro essere, attraverso il quale ci distinguiamo dalla bestia, e che appare fondato nella nostra doppia natura spirituale-corporale.

Ciò che v'è di più delicato nel rapporto dell'uomo col suo corpo, nella relazione dei sessi l'uno all'altro, anzi nello stesso esser-uomo in generale, sembra collegato alla desta coscienza del pudore.

Noi vediamo in questo fenomeno qualcosa di semplicemente positivo, e possiamo perciò pensare alla mancanza di esso solo come a qualcosa di negativo, che ci avvicina alla bestia.

Da dove ha origine questo sopravvenire successivo della vergogna?

Non certamente dal fatto che l'uomo fosse stato prima privo del corpo, giacché Dio lo fece a dire il vero dalla polvere della terra, o privo di sesso, giacché Egli lo creò nel paradiso terrestre come uomo e donna; certamente nemmeno dal fatto che egli fosse stato allora più vicino alla bestia di oggi, giacché solo successivamente Dio rivestì i primi uomini di pelli di animali ( Gen 3,21 ), mentre prima li aveva installati come padroni sovrani su tutta la creazione, dotati del sigillo di immagine di Dio ( Gen 1,27-30 ).

Entrambe queste vie di spiegazione sono state percorse.

Poiché il fenomeno del pudore è indubitabilmente collegato con la struttura spirituale-corporale dell'uomo, l'origenismo ha creduto che l'uomo originario fosse stato puro spirito e solo più tardi incarcerato per punizione nei corpi simbolizzati dalle pelli di animale.

Questa soluzione spiritualistica contraddice la Rivelazione troppo apertamente perché potesse venir mantenuta.

Non meno la contraddice l'opposta soluzione razionalistica, che vuole vedere nella mancanza di vergogna dell'uomo dell'Eden una sorta di promiscuità animalesca, un grado di coscienza ampiamente al di sotto di quello oggi raggiunto.

Così la mancanza di pudore nella contemporanea esistenza della sessualità e coscienza soprannaturale di sé ci pone di fronte ad un enigma apparentemente insolubile.

Noi siamo costretti a vedere come conseguenza del peccato qualcosa in cui pensiamo di poter scorgere solamente un valore positivo, presupposta la costituzione spirituale-corporale dell'uomo.

2. Non meno incomprensibile rimane per noi una esistenza senza morte e senza tutto ciò che è collegato con essa, soprattutto l'invecchiare, che dà alla curva dell'esistenza umana, a quanto sembra, tutta la sua inimitabile importanza e il suo vigore.

A prescindere dal fatto che biologicamente e fisiologicamente un organismo è inimmaginabile per la scienza naturale e la medicina senza il processo dell'invecchiamento, dalla mancanza della morte risultano infiniti problemi sociologici ed etici.

Non hanno ragione quei filosofi che hanno ipotizzato un inestricabile legame tra procreazione e morte?

Avrebbe un senso la riproduzione sessuale se gli individui non cercassero, in una cattiva coscienza del loro dover morire, di conservare la loro specie?

Non contiene forse in sé lo stesso atto della generazione un presentimento della morte?

Non sono forse entrambi così complementari che un rimanervi delle prime generazioni avrebbe presto fatto del mondo, col continuare delle procreazioni, uno spazio troppo gremito?

E non hanno forse ragione anche quei pensatori, per interrogarci ancora più a fondo, che sottolineano l'intimo nesso tra morte e decisione morale?

Potrebbe l'uomo agire moralmente se vedesse davanti a sé un indefinito continuare a vivere in cui egli avrebbe sempre tempo per recuperare ciò che ora ha tralasciato?

Non è forse proprio la pressante finitezza del suo spazio ed orizzonte terreno, la salutare immanenza della morte nascosta in ogni attimo della sua vita, a costringerlo all'altezza di una vera decisione e così di una vera moralità?

La morte appare da questo punto di vista una delle forze configuranti positive dell'esistenza terrena, una potenza che conferisce finalmente all'agire terreno il suo peso di eternità.

Poter non morire sembra il privilegio delle bestie più infime, mentre quanto più un ente sta in alto tanto più è minacciato, fragile e quindi mortale.

Morte e invecchiamento sono così inestricabilmente intrecciati con lo stato dell'umanità come noi lo conosciamo, che quanto più esattamente si osserva il loro intimo legame tanto meno si arriva a vedere come essi potrebbero venir separati l'uno dall'altro.

Un uomo immortale su questa terra non riusciremmo a immaginarcelo.1

3. E infine addirittura la terza cosa: l'uomo senza conoscenza del bene e del male!

Cioè l'uomo senza « etica ».

L'uomo senza la situazione della decisione, nella quale noi ce lo immaginiamo nel punto più alto della sua dignità spirituale.

Senza la conoscenza di bene e male non c'è libertà, senza libertà non c'è essere spirituale.

Anche l'uomo che vuole il bene e si decide per esso deve possedere almeno una conoscenza teoretica del male per poter allontanarsi da questo e volgersi a quello.

Altrimenti egli non avrebbe alcun merito, non avrebbe superato alcuna prova, il suo bene sarebbe altrettanto naturale e sub-spirituale come il « bene » delle bestie, che compiono istintivamente ciò che corrisponde alla loro natura, o al massimo come il bene dei bambini, che non hanno ancora raggiunto l'età della ragione e ai quali non si può perciò attribuire alcuna responsabilità morale.

Così non è strano che lo stato di Adamo ed Eva prima del peccato sia stato sempre paragonato, anche dai Padri della Chiesa, con lo stato dei minorenni.

Ma questo paragone è pericoloso.

Poiché i bambini ci sono per divenire adulti; le loro capacità sono in essi ancora assopite solo perché un giorno devono risvegliarsi.

E così avrebbe ragione il Serpente, che consiglia di mangiare la mela perché gli si aprano gli occhi e imparino a distinguere il bene dal male ( Gen 3,5 ), mentre Dio apparirebbe come un padre che non permette ai suoi bambini di diventare adulti.

Davvero Egli li trattiene ad arte in un non sapere tipico dei minorenni per impedir loro di giungere a quella conoscenza del bene e del male che conferisce loro la « uguaglianza con Dio »?

Il Serpente lo dice, e Dio lo conferma: « Adesso l'uomo è divenuto come uno di noi! ».

Nella prospettiva del Serpente, che preme diritto verso la « situazione etica » in cui prende corpo la « dignità umana », anche il divieto di Dio di mangiare dell'albero diventa ultimamente un provvedimento apparentemente senza senso e gretto.

Non solo viene con esso sottratto all'uomo qualcosa a cui egli avrebbe diritto in base alla sua posizione sovrana sopra tutta la creazione, ma viene privato proprio di ciò che sembra essenziale per renderlo sovrano sopra la creazione che non possiede l'uso di ragione: esattamente la capacità di distinguere il bene dal male.

Nel divieto sembra perciò esserci una contraddizione interna: Dio richiede all'uomo l'obbedienza, ma questi può prestare obbedienza come atto spirituale solo se la presta liberamente, cioè nella conoscenza della possibile disobbedienza.

Eticamente rilevante diviene la sua obbedienza solo allorché egli possiede ciò di cui ora lo si priva.

E tuttavia Dio ha fatto l'uomo secondo la sua immagine e somiglianza, lo ha fatto così come Egli lo voleva avere; e non si può supporre che lo abbia fatto in uno stadio non sviluppato per lasciargli tempo di crescere verso qualche altra condizione.

Il comandamento di non mangiare dell'albero della conoscenza non viene impartito per un tempo determinato, ma assoluto, e dall'infrangere questo comandamento dipende tanto la conoscenza del bene e del male quanto la punizione della morte.

Si vede da ciò che per la soluzione della questione si deve risalire molto più a monte, per trovare il punto dove i fili si intrecciano a formare un armonico tappeto.

Dio ha posto l'uomo in quella distanza da sé nella quale egli come immagine riflessa della sovranità divina deve dominare tutto ciò che è sulla terra, sottomettere «ogni essere vivente che si muove sulla terra » e prendersi come nutrimento « tutte le piante della terra e tutti gli alberi con frutti che portano semi » ( Gen 1,28ss ), « tutti gli alberi del giardino » ( Gen 2,16 ), contemporaneamente però deve rimanere di fronte a Dio nell'atteggiamento del completo servizio.

Non deve prendere, non deve afferrare da se stesso dall'albero della conoscenza del bene e del male, che come l'albero della vita sta in mezzo al giardino.

Egli ha libertà piena su tutta la terra, presupposto che questa libertà perseveri nella piena obbedienza a Dio, riferendosi a Lui come al centro di tutte le cose.

Il centro: conoscenza e vita egli non deve prendersele da sé, ma riceverle da Dio.

Gregorio di Nissa e altri osservano che non possono esserci stati due alberi nel centro del giardino, e dunque deve esserci un'identità piena di mistero tra i due alberi.

Vietato viene l'albero nella misura in cui comunica conoscenza del bene e del male, poiché soltanto questi frutti l'uomo poteva cogliere da sé.

La vita, in quanto era vita originaria, opposta alla morte, egli la doveva comunque, se non doveva morire, ottenere da Dio.

Egli la doveva ricevere, senza pretendere di afferrarla, senza cercarla nella conoscenza del bene e del male.

Nell'obbedienza che non vuol sapere egli doveva affidare la sua vita a Dio e accettare i frutti della vita dalla mano di Dio quando a Lui fosse piaciuto.

È come la dissigillazione di questo mistero delle prime pagine della Scrittura quando nel suo ultimo libro il Signore proferisce la promessa: « Al vincitore darò da mangiare dell'albero della vita, che sta nel paradiso di Dio » ( Ap 2,7 ), e quando nella Gerusalemme celeste su ambo i lati del torrente della grazia vivente sta l'albero della vita, che porta dodici frutti e le cui foglie servono a sanare i popoli ( Ap 22,2 ).

Questo frutto, la vita eterna, l'uomo non poteva affatto coglierlo da sé, poiché esso era l'eternamente libero dono di grazia di Dio. E così è divina ironia ( in cui si cela segretamente misericordia ) se Dio dopo la caduta del peccato e la cacciata dal paradiso terrestre dice: « Adesso l'uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male.

Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell'albero della vita, ne mangi e viva sempre! » ( Gen 3,22 ).

Poiché in effetti questo avrebbe solo aumentato la sua maledizione, l'avrebbe addirittura resa eterna, cosicché è una grazia che Dio cacci l'uomo dal paradiso terrestre nella mortalità terrena.

Egli lo ricondurrà all'albero della vita per tutt'altre strade.

1. Nell'Eden l'uomo stava dunque nella obbedienza a Dio, e da questa obbedienza dipendeva il fatto che egli regnava libero e sovrano sulla terra intera.

Le cose non stavano affatto come il Serpente cerca di presentarle: che l'uomo, chiamato di per sé alla libertà, fosse oppresso in maniera insopportabile dal divieto di Dio.

« Il serpente disse alla donna: veramente Dio ha detto che voi non potete mangiare di nessun albero del giardino? »

Astutamente il serpente fa sì che il divieto getti la sua ombra su tutti gli alberi.

Egli fa sì che la libertà dell'obbedienza appaia come sottrazione del potere sovrano su ogni creatura.

Finora Eva non aveva affatto sentito l'obbedienza a Dio come qualcosa che sta in opposizione alla propria libertà.

L'obbedienza era per lei l'ordine stesso: lei obbediente a Dio e così ogni ente obbediente all'uomo.

Questo ordine era così chiaro, così evidente, che non esigeva alcuna riflessione.

Niente era più semplice di questo ordine, poiché in esso gli uomini servivano Dio, e tutto il resto serviva gli uomini.

Era un'obbedienza che non costava sforzo, poiché ad essi non veniva in mente di contrapporre la propria volontà alla volontà di Dio.

Perciò essi non dovevano affatto rinunciare alla propria volontà per fare la volontà di Dio.

La loro volontà era semplicemente e ovviamente identica con questa obbedienza, era solo lo strumento che essi usavano per obbedire, e in forza di questa concordia con Dio essi si sapevano e si sentivano sovranamente liberi nella creazione.

La loro libertà era protetta all'interno di questa obbedienza, e questa era a sua volta servizio a Dio nella fiducia, gratitudine e amore.

Era sostanzialmente fede.

Era fede il moto dell'animo con cui ricevevano da Dio il loro essere e lo restituivano sempre a Lui nell'amore.

In questa fede era inaccessibile per essi la distinzione di bene e male, poiché conoscevano solo il bene, mentre il male restava ad essi nascosto.

Essi vivevano nel fuoco dell'amore.

Non vivevano ancora nella tiepidezza dell'indifferenza di bene e male, punto in cui diventa possibile la decisione tra questi due.

Essi non vivevano al di sotto, ma al di sopra di questa situazione « etica », in una condizione che conteneva in sé l'esser decisi al bene.

Essi erano in questa situazione di fede assoluta non senza conoscenza; le loro nozioni erano però solamente nozioni positive, al punto che Adamo era in grado di dare il nome a tutti gli esseri viventi, di dominare e coltivare il giardino e la terra intera, nozioni dunque che non escludevano la gioia del progresso, della scoperta, della cultura.

Ma tutto ciò era come ricoperto dalla significazione che abbracciava tutto, era come appeso all'obbedienza della fede che tutto portava su di sé e rendeva possibile.

All'interno di questa buccia poteva crescere la conoscenza e giungere a maturazione, e l'uomo poteva con lo strumento della ragione adempiere i suoi compiti terreni.2

Se si fosse però spaccata questa buccia, se l'uomo avesse mandato in frantumi la fede mutandola in curiosità di sapere, per portare in luce la nuda ragione nascosta in essa, una ragione senza la fede, allora gli si sarebbero davvero aperti gli occhi, e avrebbe saputo allora quello che Dio saggiamente gli teneva nascosto: la distinzione di bene e male, che adesso improvvisamente non ha per contenuto nient'altro che il riconoscimento della propria nudità.

2. In questo imprevisto evidenziarsi della loro nudità nell'attimo in cui essi acquisiscono la conoscenza del bene e del male sta la chiave per il secondo problema: l'insorgere del pudore.

Già prima di cadere nel peccato essi erano uomo e donna; Adamo osservò con gioia la compagna che Dio gli aveva condotto, esclamando: « Questa è finalmente ossa delle mie ossa e carne della mia carne! ».

« Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne.

Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna » ( Gen 2,24-25 ).

Già prima di cadere nel peccato essi avevano ricevuto da Dio l'incarico: « Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra » ( Gen 1,28 ).

E quest'opera e questo incarico erano fra quelli che Dio vide come molto buoni.

Malgrado ciò Adamo ha riconosciuto la sua donna solo allorché entrambi erano stati cacciati dal paradiso terrestre con la maledizione della fatica di lavorare e dei dolori del parto.

È addirittura la prima cosa che viene raccontata di essi dopo la cacciata.

La soluzione di questo enigma deve venir cercata nell'esatta continuazione della prima soluzione.

Là le forze spirituali naturali dell'uomo erano come velate e polarizzate dall'atto, che tutto portava su di sé, dell'obbedienza di fede a Dio, e solo allorché questo si infranse essi risultarono nudi, in quanto « intelletto critico » e « libertà del volere ».

Questi erano originariamente destinati a funzionare all'interno della fede quale forma dell'amore obbediente, così come funzionano gli organi interni dell'uomo.

Nello stesso rapporto in cui stanno le forze naturali dell'uomo a quelle soprannaturali della fede che ama stavano anche il suo corpo e le sue forze rispetto a quelle della sua anima.

Era l'anima che racchiudeva in sé e ricopriva il corpo, allo stesso modo in cui ciò che è inferiore e che serve viene ricoperto e portato da ciò che è dominante.

Dev'essere qui ricordato il detto di Nietzsche: « La frase più assennata che io abbia udito: "Dans le véritable amour, c'est l'àme qui enveloppe le corps". ( "Nell'amore vero è l'anima a ricoprire il corpo ") ».

L'irraggiamento del corpo ad opera della purezza dell'anima è effettivamente la castità assoluta.

Essa è così pura che porta « all'esterno » tutto ciò che appartiene « all'interno », e per questo non ha bisogno di nessuno sforzo o provvedimento, poiché essa non cade nella tentazione di gettare uno sguardo bramoso sull'altro né di aspettarsi un tale sguardo dall'altro, di cui conosce l'amore.

Essa sa piuttosto che il vero amore ha il suo centro nello spirito, e il corpo è solo il suo campo di espressione.

Così l'uomo dell'Eden possiede gli istinti, ma come ciò che naturalmente serve e collabora rimanendo subordinato.

Come l'intelletto e la volontà esercitano in lui le loro sovrane funzioni solo all'interno dell'obbedienza di fede che abbraccia tutto, così anche gli istinti e le funzioni corporali esercitano il loro ruolo solo all'interno dell'onnicomprensivo amore spirituale dell'anima.

I primi uomini avevano certo ricevuto il comando di essere fecondi e moltiplicarsi.

Ma la fecondità dell'amore umano sarebbe stata nell'Eden - se l'uomo fosse rimasto in esso - un'altra rispetto a quella che diventò dopo la caduta del peccato.

Come le forze dell'anima a causa del peccato si emanciparono infelicemente dall'obbedienza di fede amante, così le possibilità del corpo si svincolarono dalla fecondità dell'amore, che a sua volta era stato stravolto a causa della disobbedienza, e si impossessarono con violenza dell'amore sessuale.

Solo a causa di ciò sorge una differenza tra verginità e fecondità.

La verginità di Eva non sarebbe stata minacciata, all'interno dell'Eden, dalla sua maternità.

Poiché l'amore di uomo e donna sarebbe stato il più casto, un amore che avrebbe preso le mosse dallo spirito per essere fecondo e avrebbe incluso il corpo solo a servizio di questa castità dell'amore.

Di ciò che sarebbe stata questa fecondità nell'Eden possiamo farci un'immagine tanto poco quanto per la maggior parte delle altre condizioni di vita dell'uomo originario.

Solo una immagine può ricondurci dal nostro mondo decaduto verso la forma perduta della fecondità paradisiaca: quell'Una che dopo la caduta del peccato ma ancora prima della cacciata dall'Eden viene presentata ad entrambi come immagine di speranza; quell'unica che sarà idonea, poiché rimane libera dalla colpa ereditaria, ad essere contemporaneamente vergine e madre.

Adamo ed Eva vivono nella completa verginità al punto che non conoscono nemmeno la concupiscenza.

Ma verginità non significa nell'Eden rinuncia, bensì pienezza dell'amore, forma di perfetta fecondità, che nel suo adempimento richiede tanto poco abnegazione dolorosa quanto poco nell'adempimento dell'obbedienza di fede giaceva un atto doloroso di abnegazione nei confronti della libertà di scelta tra bene e male.

Così era costituito l'ordine originario.

Se però adesso che il peccato lo manda in frantumi gli istinti del corpo fuoriescono nudi e crudi dai velami dell'anima, questo porta alla nascita del pudore.

Né l'istinto stesso né il pudore sono cattivi.

Ma è cattivo il disordine che lascia uscir fuori gli istinti e rende necessario il pudore corporale come risposta a ciò.

Pudore c'era sinora soltanto nella forma del tutto incosciente dell'innocenza; poiché il peccato ha distrutto l'innocenza dell'anima, esso trapassa nella forma del vergognarsi.

Così il rapporto immanente tra corpo e anima resta nell'uomo lo specchio esatto del rapporto trascendente dell'anima con Dio.

I teologi della grande epoca prendono tutti le mosse per il loro pensiero dal presupposto che nell'Eden non ci poteva essere alcuna corruptio dell'uomo nella sua verginità.

D'altra parte essi sono convinti che nello stato edenico gli uomini si sarebbero moltiplicati, giacché il comandamento divino: « Crescete e moltipllcatevi » sta prima di ogni ordinamento del peccato.

Così essi sono alla ricerca di una sintesi - intellettualmente necessaria, anche se inimmaginabile - di stato matrimoniale e stato verginale, così come Suarez ( De op sex dier v, 2,3; Opp in, 385 ) pone il problema: « An in statu innocentiae in eisdem personis simul esse possit virginitas vera cum matrimonio consummato », e come già Guglielmo di Auxerre nella sua Summa ( tr 10, c2, q 4 ) lo esprime nel migliore dei modi, quando dice: in quello stato il matrimonio sarebbe stato in praecepto, e così non ci sarebbe stata alcuna distinzione statuum matrimonii et coelibatus.

Ciò deriva per i teologi dal fatto che « altrimenti lo stato della natura caduta supererebbe lo stato dell'innocenza per quanto riguarda la perfezione della verginità, cosa che sembra essere tanto contro la superiore eccellenza di questo stato quanto contro il fatto su cui i santi pongono tanta importanza: che cioè Adamo non senza un profondo mistero conobbe la sua donna solo allorché fu stato cacciato dal paradiso » ( Suarez, 385 ).

A ciò si aggiunge la considerazione che anche se Cristo fosse divenuto uomo in una natura non decaduta, egli e sua madre sarebbero rimasti vergini ( ibid., 389 ), pensiero che rinvia al valore assoluto, non semplicemente relativo, della verginità.

Certo, quando i teologi non si accontentarono del fatto della sintesi, ma vollero fissare anche il come matrimonio e verginità fossero unificabili l'un con l'altro, dovettero smarrirsi su strade senza uscita.

Le loro opinioni, che qui vengono accennate solo in uno sguardo sommario, non devono conservar valore più della loro chiara convinzione della necessità di una unità delle forme di stato di vita oggi separatesi l'una dall'altra.

a) I primi tentativi di soluzione hanno questo di comune, che essi presuppongono l'atto sessuale nella forma odierna e cercano di far concordare la verginità con esso.

Così Tommaso ha distinto in una prima ipotesi, che egli ha più tardi modificato ( 2 d 20 q 1 a 2 ad I ), tra la verginità corporale e quella spirituale, e sacrificato la prima per lasciare andare avanti solo la seconda.

Nella Summa Theol. ( II II q 151 a 1 ) distinse poi nella verginità tre elementi: l'integrità corporale, la mancanza di esperienza nella voluttà e l'integrità spirituale costituita dalla decisione di trattenersi dal piacere dell'unione sessuale.

Poiché grazie a questa precisione l'opinione prima espressa nel Commento alle Sentenze non era più sostenibile ( giacché il terzo elemento formale della verginità non sarebbe stato presente in Eva ), egli più tardi formulò la questione diversamente. ( Similmente Bonaventura, 2 d 20 4 ).

Si potrebbe poi supporre che le vie corporali nello stato dell'innocenza fossero state aperte solo per l'attimo dell'atto sessuale e della nascita, per rimanere per il resto chiuse.

E si potrebbe presupporre che questo non fosse accaduto necessariamente per un particolare miracolo di Dio, ma per una costituzione della natura originaria, in cui le vie anziché venir recise si sarebbero dilatate.

In questa direzione pensano Riccardo di Mediaville ( 2 dist 20 a 1 q 4 ) ed Egidio di Roma ( 2 dist 20 q 1 ad fin, in dub litt ).

Durando ( 2 dist 20 q 2 ad 1 ) è così convinto di questa soluzione che cerca di estenderla anche al parto verginale di Maria ( 4 dist 44 q 6 ad 1 ).

Alessandro di Hales ( 2 q 85 a 4 ) aveva preso la controparte nei confronti della prima opinione di Tommaso, sacrificando la verginità spirituale di Eva - poiché ella si era decisa volontariamente per il matrimonio -, ma, per salvare nonostante ciò la sua verginità, sosteneva il mantenimento della piena integrità corporale grazie all'onnipotenza di Dio o grazie ad una grazia speciale conferita allo stato originario.

b) Con ciò è però già implicito un nuovo presupposto: che l'atto sessuale e corrispondentemente anche il parto non sarebbero avvenuti nella stessa maniera di oggi.

Già la teoria di Durando accenna in questa direzione, e ancor più quella di Alessandro.

Completamente in questa direzione pensa Agostino dopo la revoca di una soluzione più estrema ( di cui dobbiamo ancora parlare ), e la sua soluzione viene citata da Tommaso nella Summa ( I q 98 a 2 ad 4 ).

Tommaso pone il problema nei seguenti termini: « In statu innocentiae nulla fuisset corruptio. Sed per coitum corrumpitur integritas virginalis. Ergo coitus in statu innocentiae non fuisset ».

Egli risponde citando Agostino ( De Civ Dei 14,26 ); « In quello stato il marito avrebbe inseminato la moglie senza violazione alcuna dell'integrità verginale.

Poiché il seme maschile avrebbe potuto altrettanto bene venir versato rimanendo la vulva pienamente intatta, come adesso il flusso mensile può riversarsi dal grembo della vergine senza detrimento della medesima integrità.

Poiché come nel parto non il dolore delle doglie avrebbe aperto il grembo materno, ma l'impulso della maturazione, così anche nel concepimento non la brama del piacere, ma l'uso intenzionale avrebbe unito i due.»

Agostino insiste però, in una frase tralasciata da Tommaso, sul fatto che noi non possiamo più immaginarci una forma simile di rapporto, poiché ci manca qualsiasi esperienza di ciò.

Egli sottolineava già prima ( De Civ Dei, 14,21 ): « Gli uomini odierni, che naturalmente non hanno alcuna idea della felicità paradisiaca di allora, possono immaginarsi la generazione di figli solo nei modi noti ad essi per esperienza. »

Certo Agostino rimane convinto che la sessualità corporale era propria essenzialmente nella forma odierna anche alla creazione originaria ( « non avrebbe alcun senso trincerarsi contro questa interpretazione testuale », ibid., 14,22 ), egli vede la differenza soprattutto nella piena volontarietà e dipendenza dalla ragione del movimento e adeguamento degli organi sessuali ( 14,23-24 ).

Così egli è costretto ad ammettere che il modo di un incontro sessuale che lasci intatti gli organi femminili eccede le capacità di immaginazione dell'uomo odierno.

Egli perviene a questa concezione però solo perché egli non vede come la sua primitiva opinione ( De Genesi e Manich 1,19 ) sia conciliabile con una sessualità autentica nell'Eden.

c) Forse sarebbe stato meglio perseverare nell'opinione che pone solo il fatto trascurando ogni appariscente colorazione, secondo cui nello stato originario verginità e fecondità corporale ( non diciamo « sessuale » ) sarebbero state conciliabili.

L'essenziale di questa concezione sostenuta dai Padri si può riassumere in due affermazioni.

La prima è negativa: l'Eden è il regno della verginità, e il matrimonio così come noi lo conosciamo non vi ha alcun posto.

Esso è piuttosto sopravvenuto dopo la caduta del peccato.

La seconda è positiva: gli uomini si sarebbero riprodotti anche nell'Eden in una maniera che i Padri chiamano « spirituale » e che è paragonata alla maniera di riprodursi degli angeli, maniera che però non esclude a priori la cooperazione del corpo.

Questa maniera di riprodursi non è afferrabile per l'uomo decaduto, perciò sembra essere la cosa migliore confessare qui la nostra ignoranza di essa.

Gregorio di Nissa ( De hom opif e 17 ) introduce audacemente questa opinione:3 « Noi non avremmo avuto bisogno del matrimonio per riprodurci, se non avesse avuto luogo per noi alcun rovesciamento e alcuna deposizione dalla dignità angelica, ma quale che possa essere la maniera di riprodursi nella natura degli angeli - indicibile e inspiegabile per le supposizioni umane essa ha in ogni caso luogo -, essa sarebbe stata operante anche in coloro che sono « di poco inferiori agli angeli », per moltiplicare il genere umano fino alla misura stabilita dalla decisìone del Creatore. »

Che l'uomo però già nell'Eden sia stato fornito degli organi sessuali, questo è stato messo in atto dalla sapienza di Dio in previsione della futura caduta del peccato.

Gregorio paragona così la natura originaria dell'uomo a quelle opere d'arte « nelle quali con sorpresa dell'osservatore sono posti due volti su un capo » ( ibid., e 18 ), dove viene lasciato decidere all'uomo di subordinare la possibilità inferiore della sua natura a quella superiore, ma anche di perdere la superiore a causa dell'inferiore.

Crisostomo è della medesima opinione: « Adamo conobbe la sua donna. Considera quando ciò accadde. Dopo la caduta, dopo la perdita del paradiso, solo allora iniziò l'uso della sessualità.

Prima del peccato essi imitavano la vita degli angeli, e non si parlava affatto di vita sessuale » ( Hom in Gen 18,4 ).

« All'inizio e prima del matrimonio c'era la verginità, poi venne il matrimonio e diventò necessario, sebbene esso non sarebbe stato usato se Adamo fosse rimasto obbediente.

Come sarebbero però allora sorte così tante migliaia di uomini?

Se ti affligge questa questione, allora io ti pongo la questione contraria: da dove ha origine Adamo, da dove Eva senza il sopravvenire del matrimonio?

E con ciò, incalzi tu, dovrebbero tutti gli uomini nascere in questa maniera?

In questa o in un'altra maniera, non sono in grado di dirtelo.

Solo questo sta certo: che Dio non aveva bisogno del matrimonio per moltiplicare gli uomini sulla terra » ( De Virg e 17 ).

Massimo si riferisce espressamente al Nisseno ( Qu ad Thai 59; PG 90,613 c ).

Egli stesso espone: solo quando a causa della caduta penetrò nella natura la legge della passione, entrò nell'esistenza quella maniera di procreare che è collegata da una parte col piacere carnale, dall'altra con la morte ( ibid. 61; PG 90,632 B ).

« Poiché la volontà originaria di Dio era che noi non venissimo generati attraverso l'unione carnale a causa della caducità; solo l'infrazione della legge introdusse il matrimonio » ( Qu et Dub 3; PG 90,788 AB ).

Giovanni Damasceno ritiene che Dio abbia « creato l'uomo come maschio », « poiché però nella sua preveggenza Dio sapeva che egli si sarebbe macchiato della disobbedienza e sarebbe soggiaciuto alla rovina, creò da lui una donna, ( … ) per ottenere dopo la disobbedienza una posterità che si consegue per mezzo della generazione ( … )

Creazione è il modo originario di Dio di formare l'uomo, procreazione è invece il modo di aver origine l'uno dall'altro sopravvenuto a causa della condanna dopo la disobbedienza » ( Sorgente di conoscenza, il 30 ).

« Ma essi forse obietteranno: cosa significa allora l'espressione "uomo e donna" e "crescete e moltipllcatevi"?

Noi replicheremo: il "crescete e moltiplicatevi" non significa certo moltiplicazione attraverso il commercio sessuale.

Dio poteva certo moltiplicare la stirpe umana anche in altra maniera, se essi osservavano il comando sino alla fine senza infrangerlo.

Solo Dio, che tutto sa prima ancora che accada, sapeva che essi avrebbero disobbedito e sarebbero stati condannati.

Per questo egli creò sin dall'inizio maschio e femmina e comandò loro di crescere e di moltiplicarsi » ( ibid. iv 24 ).

Cfr. Eutimie Zigabeno ( in PS 50, PG 129 ) e Procopio di Gaza ( in Gen 4, PG 87 ).

Ugualmente Gerolamo: « Di Adamo ed Eva bisogna dire che essi prima del peccato erano vergini nell'Eden, ma dopo la colpa e fuori dall'Eden si unirono in matrimonio ben presto » ( C Jov I, 16 ).

« Se tu replichi che già prima del peccato il genere umano era stato diviso in maschile e femminile, e che anche senza il peccato essi potevano unirsi nell'atto sessuale, io rispondo: cosa sarebbe accaduto non si sa, poiché non possiamo misurare i piani di Dio e afferrare in anticipo il suo giudizio secondo quanto a noi sembra.

Cosa è accaduto, questo lo sappiamo: quelli che nell'Eden erano rimasti vergini, cacciati dall'Eden si sono uniti in matrimonio » ( ibid. i, 29 ).

Gerolamo rinvia poi decisamente al fatto che nel nuovo uomo cristiano « non c'è né maschio né femmina » ( Gal 3,28 ), e che dunque « la somiglianza col Creatore non include la unione matrimoniale ».

« Quando però si dice: "Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra", era allora prima di tutto necessario piantare il bosco e lasciarlo crescere, per aver più tardi da disboscare.

Allo stesso tempo si deve considerare il significato della frase "riempite la terra": il matrimonio riempie la terra, la verginità il paradiso » ( ibid. I, 16 ).

Alla domanda perché allora siano stati creati gli organi sessuali, Gerolamo rinvia all'umanità di Cristo, che era ciò che di più perfetto c'è nella creazione e che tuttavia non volle servirsi della sua sessualità che pure possedeva, come dimostra la circoncisione, ma piuttosto disse beati coloro che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli ( ibid., I, 36 ).

Agostino ha pensato la stessa cosa nell'anno 388-90: « "Crescite et multiplicamini ": licet a nobis ea ita spiritualiter accipere, ut in carnalem foecunditatem post peccatum conversa esse credatur" ( De Gen I,19 ).

Attorno al 400 egli distingue nelle « Confessioni » ( 13,24 ), similmente a Gregorio di Nissa, due direzioni fondamentali dell'atto della procreazione: una generazione dal basso, come le bestie, e una generazione dall'alto, come era previsto per l'uomo, cosicché anche qui stanno l'uno di fronte all'altro un modo primariamente corporale e secondariamente spirituale e un modo primariamente spirituale e secondariamente corporale.

Quando egli nell'anno 401 giunge nella sua opera « De bono coniugali » a delimitare il valore di matrimonio e verginità l'uno nei confronti dell'altro, comincia con la constatazione: « Il primo legame annodato dalla natura nella società umana è quello tra uomo e donna.

Dio non li ha creati come singoli e collegati l'un con l'altro come stranieri, ma li ha fatti l'una dall'altro, contrassegnando le forze del loro legame col fianco dal quale ella venne tratta e formata.

Poiché fianco a fianco essi sono uniti, insieme camminano e insieme guardano dove la strada conduce.

A ciò corrisponde il legame sociale fra i bambini, che è uno dei frutti più onorabili non tanto del rapporto sessuale fra uomo e donna, quanto dell'essere insieme.

Poiché sarebbe anche stato possibile che anche senza tale rapporto sessuale tra i due sessi regnasse un legame di tenera amicizia, in cui una parte avrebbe fatto da guida e l'altra parte si sarebbe lasciata guidare.

Tuttavia ora non è necessario indagare e pervenire ad una precisa opinione sulla maniera in cui i primi uomini, se non avessero peccato, avrebbero ottenuto una discendenza allorché Dio li benedisse e disse loro: « Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra », giacché in questo caso è da ritenere che i loro corpi solo col peccato erano divenuti mortali e che non c'è alcun rapporto sessuale al di fuori dei nostri corpi mortali. »

Agostino enumera ora tre teorie, la prima delle quali ( « un'altra sorta di incontro carnale » ) egli la lascia senza critica, mentre la seconda, puramente allegorica, e la terza, che si basa sulla pura e semplice determinatezza dell'immortalità, sembra piuttosto rifiutarle.

Egli chiude con la constatazione: « Limitiamoci a dire che nello stato presente del nascere e morire come noi li conosciamo e nei quali siamo stati fatti il matrimonio tra uomo e donna è qualcosa di buono ( aliquid boni ess ). » ( Cfr. M. Muller, Die Lehre des hi. Augustinus von der Paradiesesehe, 1954, pp. 29ss. )

Riassumendo si può dire circa la dottrina dei Padri e degli Scolastici: essi sono protesi in una maniera o nell'altra a spiegare la compatibilità di verginità e riproduzione nello stato originario, dove la verginità sembra stare loro più a cuore che la procreazione.

Alle diverse interpretazioni noi diamo valore nella misura in cui esse esprimono il loro tenace impegno per una chiarificazione del fatto che per loro è incontestabile.

Si sottolineerà però espressamente, se si vuole mantener fermo il nucleo che rimane nelle loro argomentazioni, che la distinzione dei sessi fa parte in modo assoluto della originaria creazione di Dio, e dunque non può venir considerata semplicemente come determinata dalla ( successiva ) caduta del peccato.

La distinzione partecipa piuttosto della stessa « imago Dei »: « Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza ( … ) Così Dio creò l'uomo a sua immagine.

A immagine di Dio egli lo creò. Maschio e femmina li creò » ( Gen 1,26-27 ).

Se le cose non stessero così, Cristo non potrebbe né rifarsi al rapporto tra i due sessi per presentare il mistero di Sé nei confronti della Chiesa, né corrispondentemente dare al sacramento del matrimonio il potere e la possibilità reale di simboleggiare questo rapporto nella relazione corporale.

Su questo parleremo ancora in occasione dello stato di vita matrimoniale.

3. L'uomo come creatura è finito. Ma poiché Dio gli donò la possibilità di rimettere il suo spirito alla grazia della missione e di lasciar rifugiare il suo corpo nel suo spirito, la sua finitezza diventò aperta a Dio.

Adesso che essa si stacca da Dio e rende un fine ciò che doveva essere un mezzo, anche la finitezza si volge nuda verso l'esterno: la vita terrena, che non giace più protetta all'interno della vita eterna, viene murata senza speranza nella sua finitezza, e questo muro si chiama morte.

« Attraverso il peccato venne nel mondo la morte » ( Rm 5,12 ), attraverso la morte però anche la preoccupazione per la fiammella della vita temporale minacciata sia internamente che esternamente, poiché morte non è soltanto l'improvvisa conclusione della vita, ma piuttosto la malattia che la corrode, l'invecchiamento, l'intorpidimento e l'affaticamento, la sazietà della noia e l'improduttività, l'inutilità e la mancanza di prospettive della vita terrena.

Questa caducità afferra a causa dell'uomo la natura intera ( Rm 8,20 ).

La pienezza dell'Eden viene meno, a causa di Adamo il suolo della terra viene maledetto, produrrà spine e cardi.

Così l'uomo coltiverà i campi col sudore della sua fronte, mangerà il suo pane nella fatica, finché tornerà alla terra da cui è stato tolto ( Gen 3,17-19 ).

Con questa maledizione, che punisce la cupidigia degli uomini, essi vengono condannati a ciò che si erano presi da sé: alla proprietà personale.

La vita nell'Eden era una vita nell'abbondanza della grazia di Dio che scendeva dal cielo, alla quale l'abbondanza del giardino era come una risposta proveniente dalla terra.

Essi avevano in sovrabbondanza ciò di cui abbisognavano, e quanto poco essi si vergognavano della loro nudità altrettanto poco si preoccupavano di arraffare qualcosa per sé; essi vivevano in uno stato che era contemporaneamente perfetta ricchezza e perfetta povertà.

Povertà perché essi non possedevano per se stessi niente di ciò che non ricevevano immediatamente da Dio o mediatamente dalla natura e che non rendevano di nuovo a Lui con altrettanta ovvietà e gratitudine.

Poiché essi non conoscevano alcuna indigenza e necessità, non avevano bisogno per sé di niente che avessero dovuto nascondersi o rifiutarsi l'un l'altro.

Solo allorché dopo il peccato gli si aprirono gli occhi e videro che erano nudi, cominciarono a intrecciare cinture, ognuno la sua, e a porre così un inizio di proprietà.

Dopo preparerà loro Dio stesso vestiti di pelli di animali e confermerà così la convinzione della proprietà personale.

La proprietà privata, al pari di ragione critica, libertà di scelta e sentimento del pudore, non è qualcosa di cattivo.

Ciononostante essa appartiene, come tutte queste realtà, all'esistenza tipica del dopo la caduta del peccato.

Esse erano tutte come sospese in virtù della grazia dello stato originario.

Esse sarebbero state destinate ad adempiere la loro funzione come interne parti costitutive inosservate di un tutto più grande, ad operare invisibili nella grazia.

Solo adesso che tutto diviene scarso, e che inizia la battaglia per l'esistenza, diventa inevitabile la dura necessità della proprietà privata.

Al posto della volontarietà dell'amore che non abbisogna di ciò che gli è posto a disposizione altrimenti che per donarlo ulteriormente, entra in campo ovunque la costrizione della « giusta » ripartizione dello scarso bottino; costrizione nella famiglia, poiché la moglie, invece del rapporto libero da costrizioni tra Adamo e la sua compagna conforme a lui ( Gen 2,18 ), con la quale egli formava una sola carne ( Gen 2,24 ), viene posta sotto la signoria dell'uomo ( Gen 3,16 ); costrizione nell'acquisizione del necessario per vivere, poiché in base alla maledizione Adamo deve arraffare, risparmiare, preoccuparsi e far calcoli in anticipo; costrizione infine nella comunità statale, poiché il vivere assieme di così tanti uomini preoccupati della vita propria conduce a conflitti circa il mio e il tuo, e questi non possono esser risolti altrimenti che attraverso l'ulteriore costrizione di autorità e potere.

C'è da stupirsi di quanto i più recenti studiosi cattolici di diritto naturale abbiano misconosciuto le formulazioni della teologia classica a questo riguardo.

Questo misconoscimento, che per lo più porta ( cfr. O. Schilling ) a distorcere e capovolgere l'intera letteratura patristica e scolastica almeno fino a Tommaso d'Aquino per motivi ritenuti apologetici, mentre ricercatori non prevenuti come Cariyle ( A History of Medieval Politicai Theory in thè West, 5 voll. 3° ed. 1930 ) e fondamentalmente anche Troeltsch ( Die Soziallehren der christlichen Kirchen una Gruppen, 1919 ) colgono semplicemente nel segno, ha la sua causa in un concetto di natura che divenne possibile solo grazie all'ipotesi, posteriore alla Riforma, di uno status naturae purae che sarebbe da metter fuori parentesi, come una grandezza identica ad essi, rispetto a tutti gli stati concreti ( stato originario, stato della caduta e stato della Redenzione ).

L'impiego di questo concetto di natura conduce sin dagli inizi, come presto mostreremo, a profondi fraintendimenti.

Volendo condurre la dottrina della teologia cristiana circa la proprietà privata che arriva sino a Tommaso e addirittura quella che arriva fino al tempo posteriore a lui verso una linea unitaria - e questo è possibile senza sforzo, poiché le singole concezioni a questo riguardo oscillano solo di poco e nelle loro divergenze per lo più si completano -, possiamo dire col linguaggio di Giustiniano e di Isidoro di Siviglia: secondo lo ius naturale, cioè secondo il diritto originario in vigore nell'Eden, non c'è alcuna proprietà privata; questa è piuttosto una istituzione dello ius gentium, che entrò in vigore nella situazione dell'umanità venutasi a creare a causa del peccato.

Essendo queste denominazioni di ius naturale e ius gentium anche espressioni più tardive, assunte dal linguaggio dei giuristi, va però detto che la cosa stessa era già solidamente acquisita sin dall'inizio della letteratura cristiana.

( Noi trattiamo qui solo la questione della proprietà, mentre per la questione della libertà e uguaglianza degli uomini risulterebbe uno stato di cose analogo, e per la questione dell'ordinamento statale in generale risulterebbe uno stato di cose solo leggermente diverso. )

La vistosa indifferenza, anzi talvolta ostilità del Nuovo Testamento contro Mammona, l'invito di Gesù alla povertà, la comunanza dei beni presso i primi cristiani a Gerusalemme insieme con gli elogi dell'elemosina spinsero sin dall'inizio i primi pensatori cristiani a distinguere tra una valutazione assoluta e una relativa della ricchezza e della proprietà privata: nella valutazione assoluta questa apparve come ciò che propriamente non deve esserci, che originariamente non era stato da Dio voluto; in quella relativa come ciò che da Dio è in parte « sopportato » e in parte « voluto » come il male minore di fronte all'avidità del peccato.

Cariyle e dopo di lui Troeltsch hanno mostrato che per questa valutazione del cristianesimo delle origini esisteva un vistoso parallelo nella contemporanea filosofia del diritto e dello stato degli stoici, la quale pure distingueva uno stato originario ideale basato su umanitarietà e altruismo cosmopoliti, libertà, uguaglianza e comunanza di beni come diritto originario rispetto allo stato attuale originato invece da ricerca di dominio, avidità e amor proprio, che hanno reso necessaria l'organizzazione statale e il diritto basati sulla coercizione, la proprietà privata e il rapporto di servitù come reazione di difesa ( Troeltsch, in RGG (1) 1913. Art. "Naturrecht", Sp 699 ).

I cristiani poterono perciò, come gli stoici nella loro maniera, se non ricostruire completamente almeno tentare di rappresentare avvicinandovisi l'ordinamento giuridico originario, al di là di quello attualmente esistente, in diverse gradazioni a seconda che avessero davanti agli occhi più la « via dei comandamenti » o la « via dei consigli ».

Si possono trovare nei Padri espressioni antignostiche e antimanichee asserenti che né lo stato, né la proprietà privata e neppure la schiavitù sono espressione del peccato o del principio del male, poiché altrimenti Cristo e gli apostoli non avrebbero impartito il comando di stare sottomessi allo Stato, di rimanere ognuno nel proprio stato di vita, mentre avrebbero invece impartito non il consiglio, ma l'ordine di vendere tutto ( Agostino, De mor eccl 1,35; Contro Adimantum 20,2; Ilario, in Mt 19,9; Ambrogio, EP 63,92, ecc. ).

« Ma se abbiamo riconosciuto questo fatto, dobbiamo allora osservare anche che questa maggioranza ritiene che la Chiesa accettò le istituzioni riguardanti la proprietà come conformi alle attuali condizioni di vita, così come accettò le istituzioni della schiavitù o del governo coercitivo; essa non ritiene che la Chiesa abbia considerato la proprietà privata conforme alla condizione naturale o alla condizione originaria della vita umana » ( Cariyle, op. cit., i, 136 ).

Ambrogio è a questo punto categorico: « Formam iustitiae putaverunt, ut quis communia, id est publica, prò publicis habeat, privata prò suis. Ne hoc quidem secundum naturam, natura enim omnia omnibus in commune profundit ( … ) Natura igitur ius commune generavit, usur-patio ius fecit privatum » ( De off 1,28 ).

Cicerone aveva detto: « Sunt autem privata nulla natura » ( De off 1,7 ).

Ancora Ambrogio: « Osserva gli uccelli del cielo! Solo per questo infatti essi si rallegrano nel godere del cibo offerto loro in abbondanza senza fatica: perché essi non sanno niente dell'ammassare, del pretendere per sé in una sorta di diritto alla proprietà privata i frutti offerti al comune pasto di tutti.

Noi invece perdiamo i doni ricevuti in comune perché ce ne vogliamo appropriare singolarmente in modo speciale » ( In Luc VIII 124 ).

« Dio nostro signore volle che questa terra fosse possesso comune di tutti gli uomini e i suoi frutti fossero sufficienti per tutti; ma l'avidità ha diffuso i diritti di proprietà ? ( In PS 118,8.22 ).

La motivazione continua: « Tutto sulla terra appartiene a Dio, ciò che sembra essere nostro; in verità esso non appartiene a noi, ma è proprietà di Dio ».

Così Tertulliano, De patientia, e 7; Commodiano, ìnstr 1, 29.

E Agostino: « Unde quisque possidet quod possidet? Nonne iure humano? Nam iure divino Domini est terra et plenitudo eius. ( … )

Iure tamen humano dicit: haec villa mea est, haec domus mea, hic servus meus est » ( In Job tr 25 ).

E Zeno da Verona: « Sed inquies, iustum est, ut mea servem ( … ) Primo omnium, optime Christiane, scire cupio quae sunt tua, cum sint ti-mentibus Deum omnia communia? » ( Tract I, 3,6 ).

Gregorio Magno: « Incassum ergo se innocentes putant, qui commune Dei munus sibi pri-vatum vindicant » ( Reg Postar 3,21 ).

Nello stato originario non c'era questo « ammassare », questo prendersi per sé qualcosa separandolo da ciò che è comune; non c'era, come ripete il più grande rappresentante del « comunismo patristico », Crisostomo, « questa fredda espressione "mio e tuo". Da allora inizia la battaglia, da allora la viltà ».

Ma con uguale ragione possono al contrario Clemente ( "Quis dives salvetur" ) e Lattanzio ( "Div. Instit." ) sostenere la tesi che nello stato originario c'era già proprietà privata, nella misura in cui cioè gli uomini potevano prendere per sé ciò di cui abbisognavano, senza invidia e senza vicendevole delimitazione dei beni.

Poiché essi non lo prendevano per sottrarlo agli altri, ma erano di una tale generosità che tutto ciò che possedevano Io tenevano nuovamente a disposizione di tutti.

Questa « vita comune », in cui Lattanzio non vede alcuna contrapposizione alla proprietà privata ( Div Insf 5,5 ), è anche l'atteggiamento tipico dello stato paradisiaco che Clemente raccomanda, e che per lui significa il superamento della contrapposizione non solo tra povertà e ricchezza, ma più profondamente tra privato e comune.

Si è perciò nel torto quando si pongono questi due Padri in contrapposizione con gli altri per ricavare almeno da essi le basi per una validità « giusnaturalistica » della proprietà privata, giacché con le loro tesi sarebbero stati d'accordo persino Crisostomo e Ambrogio.

Lo ius naturale dello stato originario non è la mancanza di possesso come qualità negativa, bensì « ius naturale est ( … ) communis omnium possessio » ( Isidoro )

Per comprendere quest'affermazione nella sua « ambivalenza » ( cfr. Cariyle, op. cit., i, 143 ) in maniera giusta, bisogna lasciare dietro di sé quella dialettica tra proprietà privata e comunismo, come necessariamente sorge all'interno dello ius gentium, e realizzare la sintesi di possesso e non possesso, di « ricchezza » e « povertà », sintesi impossibile in questo regno, ma non più problematica nel regno dello ius naturale originario.

Questa sintesi è il presupposto evidente di tutta la concezione patristica.

Ciò risulta chiaro dal fatto che continuamente il peccato di avidità viene presentato come origine della ( delimitante ) proprietà privata nel senso dello ius gentium.

In generale i digest ( I 1,5 ) delimitano il regno dello ius gentium come segue: « ex hoc iure gentium introducta bella, discretae gentes, regna condita, dominia distincta, agris termini positi… », e Isidoro parimenti ( Etym 5,6 ): « Ius gentium est sedium occupatio, aedificatio, munitio, bella, captivitates, servitutes, postliminia ecc. »

I teologi vedono come atto di passaggio dallo ius naturale allo ius gentium la usurpatio ( Ambrogio, De off 1,28 ), la confisca ( prolépsis: Basilio, PG 31, 275s. ), attraverso la quale, come descrive quasi miticamente Gregorio di Nazianzo, ebbe luogo la frantumazione dell'eguaglianza originaria in libertà e servitù, ricchezza e povertà ( PG 35,889-92 ).

L'origine della proprietà privata coincide a tal punto col momento della caduta del peccato, che sempre nuovamente ci si torna a chiedere in maniera rischiosa come avvenne il passaggio dal nostro odierno possesso apparentemente inattaccabile all'acquisizione operata dai nostri padri e antenati su su fino a quel primo che contro il diritto si arrogò una proprietà.

Già Ireneo vede così le cose: « Noi tutti conseguiamo un piccolo o grande possesso, che abbiamo acquisito dal Mammona dell'ingiustizia.

Da dove proviene la casa in cui abitiamo, i vestiti che indossiamo, i vasi che adoperiamo e tutto il resto che serve al nostro mantenimento, se non da ciò che noi acquisimmo con avidità quando eravamo ancora pagani oppure che abbiamo acquisito da genitori pagani, da parenti o amici pagani, i quali lo acquisirono praticando dei torti? » ( Adv Haer 4, 30,1 ).

Così pure domanda Crisostomo: « Dimmi, da dove ha origine la tua ricchezza? Tu sei debitore di essa ad un altro.

E questo altro, a chi ne è debitore? A suo nonno, si dice, o a suo padre.

Potrai tu ora, seguendo ulteriormente all'indietro l'albero genealogico, fornire la prova che questa proprietà è stata acquisita per vie conformi alla giustizia?

Questo non lo puoi. Al contrario: l'inizio, la radice di questa proprietà, sta necessariamente in un qualche torto praticato.

Perché? Perché Dio da principio non ha creato l'uno povero, l'altro ricco ( … ), ma ha affidato invece a tutti la stessa terra in possesso » ( In 1 Tim hom 12 ).

Questa opinione penetra così a fondo che ancora nel XIII sec. Guglielmo di Auxerre nella sua « Summa Aurea » lancia la domanda « se colui che per la prima volta si è appropriato di qualcosa ha peccato gravemente ».

Guglielmo risponde saggiamente soppesando: se egli lo ha fatto per avidità, sì; no invece, se egli lo fece per la ragionevole considerazione che nell'attuale stato della natura decaduta la comunione dei beni sarebbe dannosa ( Grabmann, Mittelalt, Geistesleben 1926, da Graziano a Tommaso, p. 73 ).

A causa della distanza temporale Guglielmo non comprende più che per i Padri la caduta del peccato coincideva con la perdita della comunione dei beni, ma anche con la avidità stessa.

Le conseguenze sono molteplici.

Poiché la spartizione dei beni, che oramai divenne necessaria, secondo Agostino avvenne iure imperatorum, la proprietà privata è anche in questo diritto qualcosa di relativo.

Ciò che è stato dato può, in determinate circostanze, anche venir di nuovo tolto, tanto più se l'uomo non ne fa un retto uso: « Hoc enim certe allenum non est, quod iure possidetur, hoc autem iure quod iuste, et hoc iuste quod bene. Omne igitur quod male possidetur, alienum est" ( Ep 154,6. Cfr. ep 44,11; tr in Job 25-26; Sermo 50,2 ).

Inoltre la miglior possibile parificazione dei beni attraverso donazioni ed elemosine non è una pura e semplice opera d'amore dato gratuitamente, ma è un'opera animata dall'obbligo: « lustum est igitur, ut si aliquid tibi privatum vindicas, quod generi humano (…) in commune collatum est, saltem aliquid inde pauperibus aspergas » ( Ambrogio, in PS 118,8,22 ).

« Misericordia ergo haec iustitia appellata est ( … ) lustus ergo est, qui sibi solo non detinet quod scit omnibus datum » ( Ambrosiaster, in 2 Cor 9,9 ).

« Nam cum quaelibet necessaria indigentibus ministramus, sua il-lis reddimus, non nostra largimur, iustitiae debitum potius solvimus quam misericordiae opera implemus » ( Gregorio, Lib Past 3,21 ).

Ultimamente l'impegno dei cristiani si indirizzerà a riprodurre secondo le possibilità lo ius naturale dello stato originario.

Il grande esempio rimane la comunità di Gerusalemme, dove « nessuno di essi diceva suo ciò che possedeva » ( At 4,32 ).

Già nella Didaché ( 4,8 ), nella lettera di Barnaba ( 19,8 ), in Giustino ( Apol 14, cfr. 67 ) e Tertulliano ( Apol 39 ) echeggia questa frase e conduce se non alla richiesta di un comunismo obbligatorio, certo però alla più profonda conseguenza etica, come negli Atti degli Apostoli stessi, che si debba essere un cuor solo e una anima sola, per « poter avere tutto in comune ».

Non diversamente procedono anche i più estremi tentativi dei Padri di produrre nuovamente lo ius naturale sulla base della grazia dello stato originario ridonataci da Cristo: quando Crisostomo in prediche entusiasmanti incita tutta la sua comunità a mettere insieme i suoi beni e a rinunciare ad ogni proprio possesso ( PG 60,96-98 ), egli non parla come economista dello ius gentium, ma come amante e credente, che si appella alla generosità del puro amore altruista dei cuori dei suoi ascoltatori, e che fondamentalmente sente così pressante ciò che il Vangelo ha enunciato come consiglio, da credere di poter presupporre in tutti lo stesso sentimento: « Io non so come sono arrivato a esigere una così alta perfezione da uomini che credono di fare già molto quando danno del loro denaro appena un po' di elemosina.

Perciò le mie parole devono valere solo per i perfetti, ma ai meno perfetti io dico tuttavia: fate parte dei vostri beni! ( In I Cor hom 15,6 ).

Infine egli comprende: « Nei monasteri si vive adesso come una volta i credenti » ( PG 60, 96-98 ).

Se in ciò non manca del tutto il punto di vista del successo, addirittura della rendita, questo non è però contrario allo spirito del Vangelo, che promette il centuple già su questa terra a coloro che hanno lasciato tutto, se questo accade per il regno dei cieli.

E Ambrogio conserva ragione quando dice che « solo l'avidità è il motivo della nostra indigenza » ( In Lue 7,124 ).

Riassumendo si può dire circa i Padri che non solo la loro teoria, ma il loro più intimo sentimento della vita viene determinato dalla distinzione nel « diritto naturale » di uno strato primario e uno strato secondario.

« All'inizio non era così! » ( Mt 19,8 ).

Se di fatto non si giunse a nessun tentativo di puro comunismo nella Chiesa, questo mostra solo quanto la Chiesa sia cosciente che non è suo compito quello di condurre l' « eone presente » in quello « venturo » attraverso azioni estrinseche, e che tutte le facili unificazioni del comunismo delle sette e dell'economia moderna con la Chiesa delle origini sono fallite ( cfr. E. Salin, Ge-schichte der Volkswirtschaftsiehre, 1° ed., p. 37 ).

Questo mostra però d'altra parte anche quanto questa Chiesa sia penetrata dalla parola dell'Apostolo secondo cui si deve possedere come se non si possedesse ( 1 Cor 7,31 ), poiché questo mondo non è né quello inteso originariamente da Dio né quello definitivo.

In base al sentimento della vita la tendenza alla povertà corrisponde esattamente a quella alla verginità; solo l'appoggio dato ai giuristi romani e alla filosofia stoica impedisce il parallelismo pieno, poiché qui la coniunctio maris et feminae e la liberorum procreatio erano indicate come appartenenti allo stato dell'ingiustizia.4

Nel Medioevo e molto ancor più nell'era moderna la posizione fondamentale si sposterà verso il diritto naturale secondario; la distanza e la accentuata indifferenza dei primi secoli si cambierà sempre più in un sentimento di responsabilità e di missione verso la positiva configurazione cristiana del mondo così com'è.

Ma « missione nel mondo » non elimina per il cristiano il fondamentale « non esser di questo mondo », e il più gioioso assenso al mondo non può anche per i cristiani moderni - proprio per quanto riguarda la questione della proprietà - offuscare o addirittura eliminare la valutazione fondamentale del Nuovo Testamento

Un mutamento nella teoria dell'antico ius naturale avviene grazie alla ricezione di Aristotele al tempo di S. Tommaso.

Adesso inizia, anche se lentamente e certo non subito in maniera conseguente, la sostituzione del concreto e analogo concetto di natura ( che si realizza solo nello stato originario, nello stato del peccato e in quello della redenzione ) col concetto astratto, staccabile dagli stati suddetti, di una « natura in sé ».

Aristotele non conosce ancora, a dire il vero, la considerazione e graduazione storica della fusis, come la introdusse la Stoa.

Così i concetti giustiniano-isidorici di ius naturale, ius gentium, ius civile, sperimentano un profondo cambiamento di valore.

Se prima ius naturale era correlato al concreto stato originario, ius gentium allo stato dopo la caduta in generale, e ius civile alla determinazione concreta dello ius gentium presso le nazioni singole, adesso ius naturale contiene il diritto della natura umana considerata a prescindere dalla storia e da tutti gli stati storici; ius gentium e ius civile sono compresi in esso come due possibili derivazioni del diritto naturale: lo ius gentium sorge attraverso universalmente valide conclusiones ex principiis, lo ius civile attraverso determinationes quaedam aliquorum communium ( S Th I II q 95 a 2 ).

Il cambiamento nel concetto di diritto naturale ha per conseguenza una nuova posizione a proposito della proprietà privata.

La spaccatura diventa chiara con Alessandro di Hales, il quale cerca di far entrare il vecchio contenuto immutato dentro la nuova forma di concetto.

Il diritto naturale, così egli obietta, è mutabile, poiché secondo Isidoro e Graziano il possesso comune è di diritto naturale, mentre ora però si può avere senza colpa un possesso privato.

Risposta: « Dicendum, quod iure naturali essent omnia communia ( … ) hoc fuit ante peccatum, et post peccatum quaedam sunt quibusdam propria, et haec duo sunt per legem naturalem » ( Summa 3 q 27 m 3, a 2 ).

« Secundum diversos status dictat ( lex naturalis ) bonum esse quod omnia sint communia, et quod quaedam sint propria » ( ibid., a 3 ).

Stesso modo di vedere è sostenuto da Innocenze IV nel suo « Apparatus ad 5 partes Decret ». ( Cfr. Cariyle V, p. 16, dove ci sono anche altri esempi. Per il primo Medioevo: id. il 41 s., p. 137s. )

In ogni caso è da dire che se in Alessandro è ancora presente il primitivo contenuto dentro la nuova forma concettuale, in lui però la « radicale corrente sotterranea come ricordo della legge naturale assoluta e dell'autentico ideale cristiano » ( Troeltsch ) si è già essenzialmente indebolita.

In Tommaso sarà quasi scomparsa del tutto.

Quando egli nella sua teoria circa la proprietà privata incontra le teorie patristiche, nella forma in cui Basilio, Ambrogio, Isidoro e Graziano presentano la proprietà privata, allora egli ha a portata di mano una distinzione che è di grande portata: l'uomo ha per natura ( e questo concetto è adesso univoco, e non più analogo in base agli stati della natura ) il diritto di acquisire dei beni per sé e di cederli da sé.

Diversamente invece è stabilito per quanto riguarda l'uso di essi: « Aliud vero quod competit homini circa res exteriores, est usus ipsarum, et quantum ad hoc non debet homo habere res exteriores ut proprias, sed ut communes, ut scilicet de facili aliquis eas communicet in necessitate aliorum » ( S Th II II q 66 a 2 ).

Per quanto concerne l'affermazione di Isidoro, la comunanza dei beni della terra non significa per Tommaso nient'altro che essi di per sé potenzialmente non appartengono più all'uno o all'altro ( II II q 57 a 3: « si enim consideratur ager absolute non habet unde magis sit huius quam illius »; cfr. I II q 94 a 5 ad 3 ), e in questo senso ( che tacitamente presuppone il concetto di natura di Isidoro ) può Tommaso aggiungere: « unde proprietas possessionum non est centra ius naturale, sed iuri naturali superadditur per adinventionem rationis humanae » ( II II q 66 a 2 ad 1 ).

Questo « Non est centra » è come un'ultima concessione dell'aristotelismo alla concezione primitiva per quanto riguarda la terminologia; ma per quanto riguarda il contenuto c'è tuttavia ancora nella richiesta di S. Tommaso, di possedere il privato in modo tale da tenerlo sempre a disposizione per esser usato dalla comunità per i suoi bisogni, una grande vicinanza alla concezione radicale del Vangelo.

Ciò si rafforza nell'applicazione pratica del suo principio, la quale sottrae l'elemosina alla valutazione libera per avvicinarla fortemente alle esigenze della giustizia: « per rerum divisionem et appropriationem ex iure humano ( ! ) procedentem non impeditur quin hominis necessitati sit subveniendum ( … ), et ideo res quas aliqui superabundanter habent, ex naturali iure debentur pauperum susten-tationi ».

La libertà rimane solo per quanto riguarda la scelta della persona a cui dare l'elemosina: « Quia multi sunt necessitatem patientes, et non potest ex eadem rè omnibus subveniri, committitur arbitrio unius-cuiusque dispensatio propriarum rerum ».

A meno che in casu necessi-tatù il povero o un terzo che ha il dovere di aiutarlo non sottragga al proprietario il necessario per vivere, a cui il povero ha diritto ( II II q 66 a 7 ).

Il possesso è peccato nella misurai in cui il ricco « alios ab usu rei indiscrete prohibeat » ( II II q 66 a 2 ad 2 ).

Con ciò è salvaguardata l'etica evangelica, ma col rifiuto dell'analogia patristica nel concetto di natura stesso era però fondamentalmente aperta la strada alla moderna « canonizzazione della proprietà privata » ( Salin, loc. cit., p. 46 ).

Già Alberto aveva introdotto nel concetto di natura una nuova forma di analogia, che più tardi avrebbe permesso di interpretare giusnaturalisticamente, più o meno, anche ciò che faceva parte del diritto positivo: la natura può venir presa prevalentemente come fùsis o come ratto ( lògos, ragione ) o nell'equilibrio di entrambi questi due momenti ( Grabmann, loc. cit., pp. 92-93 ).

Se prendiamo in esame lo stato della questione in Suarez vediamo che essa è già quasi decisa in anticipo dal fatto che ora lo ius gentium viene risolutamente separato dal diritto naturale come tale: « Ius gentium simpliciter ( est ) humanum ac positivum » ( De legibus lib 2 e 19,3; opp v 167 ), esso si distingue dallo ius civile solo per il tatto che è non scritto e come tale nella maggioranza dei popoli fa parte del costume ( ibid., 19,6 ).

Ignaro dei reali contesti egli soggiunge: « Idem videtur sensisse Isidorus ».

Significativamente emerge ancora una volta in quest'epoca tarda presso certi giuristi una reminiscenza del reale stato delle cose, e la loro opinione la fa propria Vasquez: « Ius gentium prout a naturali dinstinguitur, non continere sub se praecepta aut promissiones, sed solum concessiones quasdam, seu facultates aut permissiones aliquid agendi vel non agendi, non tantum impune, sed etiam iuste et honeste » ( ibid., c 18,1 ).

Questo non è nient'altro che l'antica syngnome evangelica e paolina, la concessione di qualcosa di meno buono, che però come tale non è male, la base di tutto il « diritto naturale secondario » dei Padri.

Ma questa idea è talmente seppellita dall'aristotelismo che Suarez è costretto a riconoscere onestamente la sua incapacità di comprendere: « hanc vero sententiam, ut verum fatear, non satis intelligo ».

Anche Suarez ha pur sempre salvato l'essenziale dell'idea patristica nella misura in cui egli parla solo di una legittimità, non di una necessità della proprietà privata.

Egli si contrappone all'opinione di Scoto ( in 4 dist 14 q 1 a 1 ), secondo cui nello stato originario il comunismo era stretto comandamento, abolito però a causa del peccato.

Suarez ritiene che un simile « comandamento » nell'Eden non sia dimostrabile, « sicut e converso congruentiae quae ostendut divisionem rerum esse commodiorem in natura lapsa, non probant hanc divisionem esse sub praecepto naturali, sed solum esse buie statui et conditioni hominum accom-modatam » ( De leg 1 2 e 14 n 13 ).

Anche Lessio ( De iustitia et iure e 5 dub 3 ) e Laymann ( Theoi mar lib 3 tr L c 5 n 5 ) sono della stessa opinione: la proprietà privata è anche nell'attuale stato dell'umanità non necessaria ma solo legittima, adeguata.

Tuttavia bisogna dar ragione a Cathrein quando dice che i motivi addotti in favore della legittimità dimostrano ultimamente anche la necessità per lo stato attuale dell'umanità ( Moralphilosophie n (3), p. 318 ).

Essenziale resta quello che anch'egli ammette: « In paradiso non sarebbe certo sopravvenuta proprietà privata alcuna ( … )

Riguardo al presente stato decaduto dell'umanità si può perciò dire che la proprietà privata è conseguenza del peccato, o meglio: che il peccato ha portato l'uomo nella situazione in cui la proprietà si rivela come un necessario ordinamento razionale » ( ibid., p.314 ).

Che emerga il concetto di « mio e tuo » e divenga indispensabile, questo l'umanità lo deve al suo allontanamento dalla « ricchezza » dell'Eden, in cui si poteva essere completamente « poveri » senza per questo languire.

Questa povertà corrispondeva alla pienezza della grazia e della destinazione dell'uomo all'amore.

Poiché l'amore dona solamente e non trattiene nulla per sé.

Il possesso in proprio, a cui la necessità spinge l'uomo, rimane qui sulla terra un freno alla dedizione completa.

Nell'atteggiamento di fondo uno può esser pienamente generoso e povero, e tuttavia egli non può far a meno di esigere per sé certi beni del mondo che gli sono necessari e che di donarli non ha neppure il diritto.

Così pure egli non può rinunciare in questo mondo all'uso autonomo della sua ragione e della sua libera volontà; egli ha per così dire distillato questi poteri dalla loro unità con la grazia dello stato originario, e adesso essi restano a lui in mano come doni, come natura sua, sovraccaricata però della maledizione, non più organo interno invisibile della fede e dell'amore, ma parte estratta artificiosamente dal tutto, con la quale soltanto egli non sarà più in grado di adempiere alla sua destinazione originaria.

Al posto della fede e dell'amore egli ha ricevuto in cambio il bene dell'autodeterminazione, ma questo bene in sé positivo resta però, visto a partire dall'origine, risultato di un depotenziamento e non è più sufficiente, senza la fede e l'amore, a raggiungere la destinazione originaria.

La stessa cosa vale per la sessualità quale si è venuta a creare: essa non è assolutamente cattiva, ma la forma del suo manifestarsi è parimenti conseguenza di un depotenziamento, ed anche la più grande premura nell'evitare ogni colpa nell'utilizzo di queste energie non basta a riprodurre la purezza e la verginità originarie.

Tutti e tre i risultati della caduta sono inseparabilmente collegati: la sessualità da una parte con la morte e i suoi segni precursori - poiché « molto gravame imporrò sulla tua maternità: nel dolore tu avrai figli » -, dall'altra con la volontà di proprietà e di possesso, al punto che proprio essi si svilupperanno fino a divenire il campo delle più mortifere battaglie per il potere: « E tuttavia il tuo istinto ti porterà verso il tuo uomo, che dominerà su di te » ( Gen 3,16 ).

L'autonomia morale come riconoscimento del bene e del male non si lascia separare dall'autodisposizione sulla speciale determinazione degli istinti del corpo e dal possesso di sé quale garanzia e manifestazione esterna di questa autonomia.

E la volontà di possesso è al fondo già identica alla volontà di padronanza del bene e del male e di comando della propria fecondità corporale.

Solo in questo si differenziano qui i due sessi, che l'uomo ha più da soffrire per il possesso esteriore ( in quanto il terreno è stato a causa sua maledetto ), mentre nell'ambito sessuale è piuttosto colui che domina e possiede, la donna invece soffre piuttosto del venir posseduta nell'ambito sessuale, ma come madre di tutti i viventi ( Gen 3,20 ) ottiene una posizione che la eleva nei confronti dell'uomo.

Così il nuovo stato dell'umanità creato dal depotenziamento è ben concatenato e altrettanto coerente e unitario come lo era lo stato originario.

Una parziale riacquisizione della destinazione originaria è a partire da esso impossibile.

Infatti « Dio scacciò l'uomo dal giardino dell'Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto.

Scacciò l'uomo e pose ad oriente del giardino dell'Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all'albero della vita » ( Gen 3,24 ).

Riguardando indietro allo stato dell'uomo nell'Eden la sua essenza diventa ora meglio comprensibile.

Essa è la totalità di quello che dopo si è disgregato in parti contrapposte: la perfetta, salda e inattaccabile unità di fede obbediente che comprende e che è libera, di purezza verginale che è feconda, e di povertà che non distingue mio e tuo, ma è pienezza e ricchezza.

Perché Adamo è obbediente, per questo egli è sovrano padrone della creazione.

Perché egli ed Eva sono vergini, per questo essi sono destinati alla massima fecondità, che è quella della purezza.

Ed è perché essi sono perfettamente poveri che vivono nella sovrabbondanza dei doni di Dio e non conoscono né necessità né bisogno.

Lo stato originario è dunque la perfetta sintesi dello stato di vita cristiano nel mondo e di quello che segue i consigli, dove lo stato dei consigli esprime l'atteggiamento e la disposizione interiori mentre lo stato mondano esprime l'adempimento e la corrispondenza esteriori.

Che la disposizione interiore era quella della perfetta obbedienza, della perfetta verginità e della perfetta povertà lo si può arguire dal fatto che i tre consigli come atteggiamento interiore esprimono l'amore più perfetto che nella grazia è raggiungibile per l'uomo.

Poiché però nello stato originario non c'è ancora alcuna scelta fra stati di vita diversi, l'atteggiamento interiore dei consigli è una cosa sola con la loro pratica esteriore.

L'uomo originario è non solo interiormente pronto a scegliere povertà, verginità e obbedienza se Dio lo vuole scegliere per questo stato; egli è piuttosto sin da principio realmente insediato in questo stato come « stato della perfezione » che Dio ha scelto per lui come il migliore che egli potesse ideare.

Nello stato originario i tre atteggiamenti d'amore non significano in alcun modo rinuncia; essi sono piuttosto l'espressione di un amore che possiede in sé ogni ricchezza, ogni benedizione, ogni pienezza.

Nessuno è più libero di colui che obbedisce a Dio; nessuno è più fecondo di colui che è casto, nessuno più ricco di colui che non vuol possedere niente di proprio.

Chi invece vuole accaparrarsi la benedizione senza l'atteggiamento d'obbedienza, castità e povertà, riceverà in cambio la maledizione.

Così la presunta libertà che non vuole obbedire a Dio si volge nella maledizione dell'obbedienza alle leggi del mondo, nell'amara servitù del duro dovere, dentro la cui costrizione l'uomo si trova ad essere preso.

E la fecondità che l'uomo decaduto si prende per sé sarà una fecondità sotto la maledizione, legata alla perdita della verginità e alla mortificazione dell'amore spirituale ad opera dei più bassi istinti della natura.

Il possesso, che l'uomo prendendo la mela afferra per sé, si muterà infine nella più evidente delle maledizioni, giacché la creazione sottoposta controvoglia alla caducità ( Rm 8,20 ) costringe l'uomo a preoccuparsi della sua proprietà, che egli con fatica si guadagna, con fatica difende e da ultimo tuttavia o consuma o perde o deve nella morte lasciarsi strappar di mano.

Indice

1 Cathrein sottolinea nella sua Moralphilosophie (5* ed. 1911) la sorprendente adeguatezza della morte tanto nella natura priva di ragione, quanto nella vita umana. Nel caso dell'uomo, in modo speciale, la morte c'è in primo luogo anche per il bene della collettività. "Soprattutto però la vita della famiglia umana riposa sulla legge della morte (…) La famiglia ha per presupposto la morte. Se la morte non brillasse continuamente sulle schiere degli uomini, la procreazione per mezzo della famiglia presto non sarebbe più necessaria, anzi sarebbe addirittura dannosa". Poi però la morte ha "soprattutto importanza teologica per l'uomo stesso come individuo". Essa rende inesorabilmente chiaro al singolo uomo che la vita terrena è un tempo di esame e di preparazione, e gli pone quindi davanti agli occhi (proprio nel senso di Simmel e di Scheler) l'assoluta serietà della morale. "In effetti, come è tutto opportunamente disposto a questo proposito! Questo eterno nascere e morire, sorgere e tramontare, questo scambio che non ha fine, come sono appropriati a porre in luce il cuore di ciò che è terreno!" (pp. 150-152). Ecco dunque la teologia dell'esistenza che riposa sulla morte, che nella creazione originaria non c'era! Sulla correlazione filosofica di morte e generazione cfr. gli esempi portati in Theodramatik n/1 (1976), p. 342ss. (tr. it. Teodrammatica, voi. n: L'uomo in Dio, Jaca Book, Milano 1981, p. 352ss.)
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La teologia dello stato originario deve soprattutto non lasciarsi sviare dalle constatazioni filosofiche circa l'essere attuale del mondo e la situazione attuale della natura dell'uomo, lasciandosi portare ad ascrivere a queste affermazioni una necessità tale che esse dovrebbero finire col servire da base e punto di partenza per una dottrina dell'Adamo originario. "Il credente non cerca in sé o nelle cose il criterio per la sua conoscenza, ma lo cerca al di sopra di sé. Egli non è condannato come il filosofo alla constatazione che il mondo è tale qual è; egli può piuttosto chiedersi in base alla Rivelazione se il mondo, per essere degno di Dio, è di fatto ciò che esso dovrebbe essere" (Da E. Gilson, Der hi. Bonaventura, Hellerau 1929, p. 596). Secondo Bonaventura-che qui non fa altro che sistematizzare l'opinione generale dei Padri (cfr. anche il nostro studio: Massimo Confessore, [2] 1961, p. 175s.)-Adamo, creato nella grazia, ha avuto la possibilità di conoscere ciò che è materiale a partire dallo spirito, e la natura a partire dal soprannaturale. Il modo di conoscere oggi normale, secondo cui lo spirituale può venir intuito ed attinto solo attraverso un impegnativo processo di astrazione che parte dal sensibile, modo di conoscere che per Aristotele viene considerato come appartenente alla "essenza" dell'uomo, è per Bonaventura una conseguenza della caduta del peccato. Adamo aveva contemporaneamente - in una maniera da dettagliare più da vicino, e certo senza diretta intuizione dell'essenza di Dio - la cognitio matutina e vespertina, cioè una forma di conoscenza che va dallo spirituale al sensibile e così pure dal sensibile allo spirituale. Ma giacché egli possedeva la prima, che è un sapere immediato nella fede, nella seconda tutto il sensibile era per lui immediatamente trasparente allo spirituale. La stessa teoria la troviamo in Raimondo Luilo. Entrambi sanno che una filosofia che prenda come punto di partenza per una valida antropologia solo lo status naturae lapsae finisce necessariamente in errore. In Tommaso l'aristotelismo è penetrato così a fondo che egli nella Summa Theologica prima di descrivere lo stato originario dell'uomo inserisce un trattato filosofia) sulla natura umana in generale. Questo trattato sta fra la teologia dell'opera dei sei giorni e la teologia dell'uomo paradisiaco, e contiene le famose questioni sul rapporto di anima e corpo, sulla libertà del volere e sulla conoscenza (per astrazione). Solo dopo che questa antropologia filosofica è costruita in tutte le sue parti viene descritto lo stato originario, e qui veniamo a sapere con nostro stupore che Adamo, immagine originaria (Urbild) dell'uomo, aveva scientìam ammuffì per species a Deo infusas. Egli non corrispondeva affatto perciò a quella natura prima descritta, ma rientra nel genere di quegli esseri che, come gli angeli, conoscono intuitivamente, non per astrazione. Era consapevole Tommaso di quali conseguenze nel suo sistema la costruzione di un simile uomo originario avrebbe avuto e tuttora ha? Egli si appoggia, nella sua teoria su Adamo, alla teologia primitiva, attribuendo ad Adamo la doppia possibilità di conoscenza ( I q 95 a 3), e ciò espressamente come cognitio naturalis ( De Ver q 18 a 4 ). Ma mentre i teologi considerano questa costituzione originaria della natura come quella intesa effettivamente da Dio e perciò prevista per tutti i discendenti, Tommaso opera il taglio già nel bel mezzo dello stato originario stesso, attribuendo questa natura solo ad Adamo personalmente in quanto origine e sorgente di tutta la stirpe umana, ma non ai suoi figli nati nello stato originario ( ibid. q 18 a 7 ). Circa Eva i teologi tacciono

3 Circa il fatto che egli non l'ha inventata, ma che era piuttosto già a portata di mano al tempo di Clemente di Alessandria, cfr. di quest'ultimo: Stremata m, 17. Naturalmente anche Origene le sta vicino
4 Così come la Chiesa in quanto tale non avrebbe mai potuto pronunciarsi a favore dell'eliminazione del matrimonio, altrettanto essa non potrebbe mai essere a favore dell'eliminazione della proprietà privata (cfr. anche E. Bickel, Das aszef. Ideai bei Ambrosius, Hieronymus una Augustin, Neue Jhb.f.d.kIass.Alt. 1916, p. 465). Lo ius gentium è adesso in tanto un membro intermedio tra ius naturale e ius civile, in quantum derivatur a lege naturali per modum con-clusionis, quae non est multum a principiis ( I II q 95 a 4 ad 1 ), di una conclusio che viene compiuta con la stessa recta ratto ( II II q 75 a 3 ad 3 )