Summa Teologica - II-II

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Articolo 2 - Se sia lecito ricusare in modo assoluto l'imposizione dell'episcopato

In 3 Sent., d. 39, a. 3, sol. 1, ad 3; In 4 Sent., d. 29, a. 4, ad 4; Quodl., 5, q. 11, a. 2

Pare che sia lecito ricusare in modo assoluto l'imposizione dell'episcopato.

Infatti:

1. S. Gregorio [ Past. 1,7 ] scrive che « Isaia, desiderando di giovare al prossimo con la vita attiva, chiese l'ufficio della predicazione, mentre Geremia, desiderando di unirsi maggiormente al Creatore, si oppose a tale incarico ».

Ora, nessuno pecca col non voler abbandonare un bene maggiore per un bene minore.

Poiché dunque l'amore di Dio è superiore all'amore del prossimo, e la vita contemplativa alla vita attiva, come risulta evidente da quanto abbiamo detto [ q. 26, a. 2; q. 182, a. 1 ], è chiaro che non pecca chi ricusa l'episcopato in modo assoluto.

2. Come dice S. Gregorio [ l. cit. ], « è molto difficile avere la certezza di essere purificati; e nessuno deve accettare dei ministeri sacri senza essere purificato ».

Se quindi uno sente di non essere purificato è tenuto a non accettare l'episcopato, per quanto esso gli venga imposto.

3. S. Girolamo [ Glossa ord. su Mc, prol. ] narra che S. Marco, « dopo aver abbracciato la fede, si sarebbe amputato il dito pollice per essere escluso dal sacerdozio ».

Parimenti alcuni fanno il voto di non accettare l'episcopato.

Ora, mettere un impedimento a una determinata cosa è come ricusarla in modo assoluto.

Quindi uno può, senza colpa, ricusare in modo assoluto l'episcopato.

In contrario:

Scrive S. Agostino [ Epist. 48 ]: « Se la santa madre Chiesa esige una vostra cooperazione, non dovete né accogliere la richiesta con avidità orgogliosa, né respingerla per pigrizia ».

E aggiunge poco dopo: « Non anteponete la vostra tranquillità alle necessità della Chiesa: poiché senza l'aiuto dei buoni disposti ad assisterla nel parto, voi stessi non sareste potuti nascere ».

Dimostrazione:

Nel considerare l'accettazione dell'episcopato si devono tener presenti due punti: primo, che cosa l'uomo debba desiderare di volontà propria; secondo, in che cosa uno debba sottomettersi alla volontà altrui.

Rispetto dunque alla propria volontà è giusto che uno attenda soprattutto alla propria salvezza, mentre l'attendere alla salvezza degli altri conviene all'uomo per le disposizioni di altri che hanno in mano il potere, come risulta evidente da quanto abbiamo detto sopra [ a. 1, ad 3 ].

Come quindi è un disordine della volontà aspirare al governo altrui di proprio arbitrio, così è un disordine che uno rifiuti decisamente l'ufficio di governare, contro l'imposizione del superiore.

E ciò per due motivi.

Primo, perché ciò è incompatibile con la carità verso il prossimo, per il cui bene uno deve esporre se stesso secondo le opportunità di tempo e di luogo.

Per cui S. Agostino [ De civ. Dei 19,19 ] afferma che « la necessità della carità accetta un incarico giusto ».

Secondo, perché ciò è incompatibile con l'umiltà, la quale fa sì che uno si sottometta al comando dei superiori.

Cosicché S. Gregorio [ Past. 1,6 ] scrive che « l'umiltà vera dinanzi a Dio si ha quando non si è pertinaci nel rifiutare ciò che viene imposto per il bene altrui ».

Analisi delle obiezioni:

1. Sebbene assolutamente parlando la vita contemplativa sia superiore all'attiva, e l'amore di Dio sia superiore all'amore del prossimo, tuttavia il bene del popolo va preferito al bene personale.

Da cui le parole di S. Agostino [ cf. s. c. ]: « Non anteponete la vostra tranquillità alle necessità della Chiesa ».

Soprattutto perché la stessa cura pastorale dell'ovile di Cristo rientra nell'amore di Dio.

Infatti S. Agostino [ In Ioh. ev. tract. 123 ], a proposito di quel passo evangelico [ Gv 21,17 ]: « Pasci le mie pecorelle », scrive: « Sia un ministero d'amore pascere il gregge del Signore; come era stato un segno di timore rinnegare il Pastore ».

- Inoltre i prelati non vengono immessi nella vita attiva così da abbandonare quella contemplativa.

S. Agostino [ De civ. Dei 19,19 ] infatti afferma che « se viene imposto il peso dell'ufficio pastorale, non si deve tuttavia tralasciare il godimento della verità », quale si ha appunto nella contemplazione.

2. Nessuno è tenuto a ubbidire al superiore in cose illecite: come appare evidente da quanto abbiamo detto a proposito dell'obbedienza [ q. 104, a. 5 ].

Tuttavia può capitare che colui al quale viene imposta una prelatura riscontri in se stesso qualcosa che gliene rende illecita l'accettazione.

Ora, tale impedimento può essere talvolta rimosso da colui stesso a cui è imposto l'ufficio: se p. es. uno avesse il proposito di peccare, può egli stesso abbandonarlo.

E in questo caso egli non viene scusato dall'obbligo di ubbidire in definitiva al superiore che gli impone di accettare l'incarico.

Talora invece egli non può da se stesso eliminare l'impedimento che rende illecita l'accettazione, ma può farlo il prelato che gliela impone: p. es. nel caso che uno fosse colpito da irregolarità o da scomunica.

Per cui egli è tenuto a manifestare la cosa al prelato che gli impone l'ufficio; e se questi preferisce togliere l'impedimento, egli è tenuto a ubbidire umilmente.

Si legge infatti nella Scrittura [ Es 4 ] che avendo detto Mosè [ Es 4,10 ]: « Mio Signore, io non sono un buon parlatore », il Signore gli rispose [ Es 4,12 ]: « Io sarò con la tua bocca, e ti insegnerò quello che dovrai dire ».

Talora infine l'impedimento non può essere rimosso né da chi impone l'ufficio, né da chi dovrebbe riceverlo: come nel caso in cui un arcivescovo non potesse dispensare l'irregolarità incorsa.

E allora il suddito colpito da irregolarità non è tenuto a ubbidirgli accettando l'episcopato, e neppure gli ordini sacri.

3. Ricevere l'episcopato non è di per sé necessario alla salvezza, ma diventa tale per il comando del superiore.

Ora, alle cose che sono necessarie alla salvezza in questo modo uno può mettere lecitamente un ostacolo prima che intervenga il precetto: altrimenti uno non potrebbe passare a seconde nozze, per non essere così impedito di ricevere l'episcopato o gli ordini sacri.

Ciò invece non sarebbe lecito per quelle cose che sono di necessità per la salvezza.

Per cui S. Marco non agì contro nessun precetto amputandosi il dito; sebbene si debba credere che egli abbia agito così per un'ispirazione dello Spirito Santo, in mancanza della quale non è lecito ad alcuno infliggersi una menomazione.

Chi dunque fa il voto di non accettare l'episcopato, se intende con ciò obbligarsi a non sottostare all'obbedienza di un prelato più alto, fa un voto illecito.

Se invece intende obbligarsi a non accettare l'episcopato nel senso di non desiderarlo per quanto sta in lui, e di non accettarlo se non costretto dalla necessità, allora il voto è lecito, poiché egli promette di fare ciò che conviene che l'uomo faccia.

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