Come portare la croce

Gesù insegna a piangere

Lc 23,26-28

Massacrato di botte, tumefatto in tutte le parti del suo corpo, piagato per la feroce flagellazione, dopo un processo vile come possono essere tutti quelli prefabbricati da un'opinione pubblica astutamente manipolata, Gesù percorre il suo ultimo tratto di strada.

A furore di popolo e con sollievo del magistrato di turno, era stato preferito ad un assassino, il noto Barabba.

Del resto, anche oggi, quando si elimina un giusto o perfino Gesù, è sempre un barabba che viene messo in libertà.

E penso a quanti profeti, seppure piccoli, possano stare sulla coscienza di molti, lo sappiano o no coloro che detengono il potere della cosiddetta giustizia.

Ma quanti sono anche coloro che, pur non sedendo in un tribunale umano, tradiscono nella loro vita il Cristo e vorrebbero far credere di essere diventati liberi, finalmente affrancati da assurdi vincoli religiosi!

La strada verso il Calvario conduceva, molto probabilmente, ad una cava di pietre, abbandonata in quanto materiale di poco valore.

E Cristo la percorre lentamente, tra una folla schiamazzante e urlante, prolungando in tal modo l'eco dei "crucifige" e dell'iniquo baratto.

Si verifica la profezia del Salmista: "La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d'angolo" ( Sal 118,22 ).

Il condannato apparentemente sconfitto, ma non vinto, cammina barcollando sotto l'enorme patibolo, tra la pietà degli umili, le lacrime scomposte delle donne che si battono il petto e fanno su di lui i lamenti. Il peso è insopportabile.

Il Vangelo racconta che "mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù" ( Lc 23,26 ).

Possiamo domandarci se di pura costrizione si tratti, oppure se non di sincera compassione, per quanto favorita dal secco comando del centurione.

Gesù premia quel gesto d'amore.

Di Simone non sappiamo più nulla, ma è certo che i suoi due figli, Alessandro e Rufo, diventarono cristiani.

Dio ha bisogno degli uomini e li chiama a sé nella sua missione di salvezza.

Per confermare come l'infinita misericordia di Dio non possa in alcun modo venir meno anche sotto la violenza delle torture, la pietà popolare introduce nel racconto evangelico l'atto coraggioso di una donna del popolo che, vedendo Gesù tutto insanguinato, gli si avvicina e delicatamente asciuga il suo volto: ardeva dal desiderio di vederlo bello e luminoso, come nei giorni in cui incantava le folle. Gesù la ricompensa e le regala, impressi nel lino, i suoi tratti delicati, penetrati nel cuore della Veronica più che nel frammento di tessuto.

Il dolore della passione non altera la grandezza del condannato che conserva integra la sua umana dignità e sovrumana bellezza, tutta grazia e luce divina.

Come dinanzi ai giudici, egli tace anche di fronte ai carnefici e senza un lamento si lascia crocifiggere.

Un brivido di orrore scuote il mondo alle tre del pomeriggio di quel Venerdì Santo.

Un misterioso grido squarcia il cielo ed il Figlio dell'uomo si consegna al Padre, lasciando, nei pochi rimasti ai piedi della croce, la memoria struggente delle sue ultime "sette parole": Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno …

Oggi sarai con me in paradiso ….

Donna, ecco il tuo figlio! … Ecco tua madre! … Ho sete ….

Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? … Tutto è compiuto.

Tanto era necessario perché gli uomini potessero ritrovare la strada del Paradiso e riconoscere in lui il figlio di Dio, il Salvatore del mondo.

Mi domando come e in quale misura questo deicidio, che sa di menzogna, di odio, di sangue, possa ancora interessare l'uomo moderno e una gioventù disorientata, superficiale e godereccia, in parte simile a quella gente che, durante la consumazione dell'atto finale, se ne sta "da lontano a guardare tutto questo".

Sarebbe un prolungare la tragedia del Golgota se dicessimo che le tenebre sono più intense della luce.

Si può essere eternamente nemici o indifferenti di fronte a Cristo?

Il rischio potrebbe esserci qualora di questo "uomo dei dolori che ben conosce il patire" ( Is 53,2 ) se ne facesse un'immagine svenevole ed edulcorata, da oleografia d'altri tempi.

Altrettanto sarebbe di fronte ad una predicazione fatta di luoghi comuni, forse neppure efficace per chi già crede in Gesù.

Come ricordava Paolo VI, "l'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, e se ascolta i maestri, lo fa perché sono testimoni" ( EN, 41 ).

All'amore vero non si può fare l'abitudine: affascina e rapisce sempre, sia nei momenti più tranquilli della vita, sia quando la sofferenza può sfigurare il corpo, ma non intaccare lo spirito, se cristianamente affrontata.

Cristo, definito dal Salmista "il più bello dei figli dell'uomo" ( Sal 45 ), sulla croce non ha perso nulla del suo regale splendore, nonostante che il profeta Isaia, contemplandolo nella sua passione e morte, lasci questa testimonianza: "Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto" ( Is 53,2 ).

Pilato mostrandolo alla folla dirà: "Ecco l'Uomo!".

Pur nelle sembianze alterate del crocefisso, coperto di sputi e di sangue, Cristo rimane la forza della verità che sfida ogni menzogna, la forza dell'amore che assorbe l'offesa, la sublimazione del dolore che include il mistero della morte.

La grandezza di Dio è nel portare su di sé il mistero del male universale.

Per questo Gesù, già durante la sua vita terrena, fu il consolatore degli afflitti, tenero con i malati nel corpo e nello spirito, misericordioso con i peccatori, compartecipe del dolore altrui tanto da commuoversi nell'assistere al funerale del figlio unico di una madre vedova e da piangere davanti alla tomba dell'amico Lazzaro.

Versa poi lacrime sulla sua città, Gerusalemme, che uccide i profeti e rifiuta la salvezza.

Il conoscere Cristo, uomo perfetto, povero, libero e liberante, non prigioniero di convenzioni politiche, aperto all'amicizia, alla vita, amante della giustizia, ci affascina.

Diventa pertanto impossibile resistere ai suoi inviti a seguirlo, anche sulla croce: "Chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita" ( Gv 8,12 ).

Per questo non basta parlare di Lui; occorre sperimentare la sua presenza in noi, in qualche modo penetrare l'eternità del suo essere Figlio di Dio e lasciarsi trasformare da Lui che, attraverso la croce, ci rende partecipi della sua risurrezione.

Il beato Giovanni Paolo II non ebbe paura di presentare ai giovani la grandezza della Croce di Cristo, noncurante dello scandalo che una simile proposta avrebbe potuto suscitare.

Da vero testimone e profeta ne parlò con tale convinzione e passione da essere ascoltato ed amato da sterminate folle di giovani di tutto il mondo.

In preparazione alla XIII Giornata Mondiale della Gioventù, dopo aver affermato che "la Croce è la prima lettera dell'alfabeto di Dio", disse: "Una diffusa cultura dell'effimero, che assegna valore solo a ciò che appare bello ed a ciò che piace, vorrebbe farvi credere che la Croce va rimossa.

… Questa moda culturale promette successo, carriera rapida ed affermazione di sé ad ogni costo; invita ad una sessualità vissuta senza responsabilità e ad un'esistenza priva di progetti e di rispetto per gli altri.

Aprite bene gli occhi, cari giovani; questa non è la strada che conduce alla gioia ed alla vita, ma il sentiero che sprofonda nel peccato e nella morte.

Dice Gesù: Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.

Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà ( Mt 16,24-25 ).

Gesù non ci illude.

Con la verità delle sue parole, che suonano dure, ma riempiono il cuore di pace, ci svela il segreto della vita autentica" ( GP II, 2 aprile 1988 ).

Quello della testimonianza è e rimarrà sempre il linguaggio più intelligibile, il più incisivo e, di conseguenza, il più efficace.

La vita di Gesù non è una leggenda; per questo affascina e conquista.

È un libro vivo che rende intramontabile il Protagonista, il Dio con noi, l'Emmanuele, venuto a condividere in tutto e per tutto la nostra esistenza.

Accettando la condizione umana, egli ha vinto il peccato e la morte; risorgendo ha trasformato la croce da albero di morte in albero di vita.

Giovanni Paolo II, nel discorso ai giovani sopra citato, affermava: "Senza Dio, la croce ci schiaccia; con Dio, essa ci redime e ci salva".

É quanto basta sapere affinché il cuore dell'uomo scopra l'unico amore vero che lo cambia e far sì che le notti del dolore si trasformino in luminose albe di speranza.

Alberto Maria Careggio