Sermoni sul Cantico dei Cantici

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Sermone LXXI

I. In che cosa consista il candore o l’odore del giglio, cioè della virtù

1. Questo sermone comincia dove il precedente è terminato.

È, dunque, lo Sposo un giglio, ma non un giglio tra le spine ( Ct 2,2 ), perché non ha spine colui che non ha fatto peccato.

Ha detto che la sposa è come un giglio tra le spine, perché se essa almeno dicesse che non ha spine ingannerebbe se stessa e non vi sarebbe verità in lei.

Se stesso, invece, ha chiamato fiore e giglio, non tuttavia tra le spine, ma piuttosto fiore del campo e giglio delle valli ( Ct 2,1 ).

E non c’è menzione di spine perché egli è il solo degli uomini che non abbia necessità di dire: Mi rivolto solo nel mio dolore mentre mi trafigge la spina ( Sal 32,4 ).

Dunque, non è mai senza gigli colui che è sempre senza vizi, perché tutto e sempre è candido e bello tra i figli degli uomini.

Tu, dunque, che senti o leggi queste cose, abbi cura di avere dei gigli presso di te, se vuoi che questo abitatore tra i gigli abiti in te.

Il tuo lavoro, la tua applicazione, il tuo desiderio siano gigli, e lo dimostrino il morale candore e il profumo di queste cose.

Hanno i costumi i loro colori e i loro odori.

Non è, infatti, nelle cose spirituali la stessa cosa il colore e l’odore, non più che in quelle corporali.

Dunque, al colore provvede la coscienza, all’odore la fama: Hai fatto puzzare l’odore di noi davanti al faraone e ai suoi servi ( Es 5,21 ), dicevano gli Israeliti a Mosè, alludendo all’opinione.

Il colore, poi, lo dà alla tua azione l’intenzione del cuore e il giudizio della coscienza.

Sono neri i vizi, candida la virtù.

Tra questa e quelli la coscienza consultata sceglie.

Resta la sentenza del Signore circa l’occhio cattivo e l’occhio limpido, perché tra il candido e il nero fissò certi limiti, dividendo la luce dalle tenebre.

Quello, dunque, che procede da un cuore puro e da una buona coscienza è candido, ed è virtù.

Se poi è seguita una buona fama è anche giglio, in quanto non gli manca né il candore, né l’odore.

2. La virtù diventa se non più grande più bella tuttavia e più appariscente.

Se nella coscienza c’è un neo anche ciò che procede da essa avrà un neo.

Poiché, se la radice è viziata, lo sarà anche il ramo, e per questo qualunque cosa la radice viziata produce tramite un vizio, come ad esempio un discorso, un’azione, una preghiera, anche se ottenga il plauso della fama non può essere detto giglio, perché anche se sembra esserci l’odore, manca però il colore.

Come, infatti, vi può essere un giglio con una macchia di impurità?

Né potrà la fama rendere virtuoso quello che la coscienza riconosce come vizio.

Si contenterà, infatti, la virtù del candore della coscienza dove non potrà seguirne l’odore della fama; ma l’odore della fama non potrà scusare il vizio della coscienza senza colore.

L’uomo cercherà, tuttavia, di compiere le buone opere della virtù non solo davanti a Dio, ma anche davanti agli uomini, perché tale virtù sia veramente un giglio.

II. In che cosa è il candore dell’anima e come lo Sposo si pasce e insieme pasce tra i gigli

3. Ma è anche candore dell’anima l’indulgenza di Dio, come egli stesso dice: Se i vostri peccati fossero come scarlatto diventeranno bianchi come neve; se fossero rossi come porpora diverranno bianchi come lana ( Is 1,18 ).

Ed è il candore di cui si riveste colui che ha compassione di buon cuore.

Se guardi, infatti, colui che il Profeta dipinge come un uomo allegro che ha compassione e dà in prestito, non ti sembra che costui dalla giocondità dell’animo abbia diffuso un certo candore di pietà, ugualmente sul suo volto e sulla sua opera?

Come all’opposto, se uno dà con tristezza e come per necessità, non mostra un colore candido certamente, ma tetro, e sulla mano e sulla fronte.

E perciò Dio ama chi dona con gioia ( 2 Cor 9,7 ).

Ama anche il donatore triste?

Ora, colui che ha guardato ad Abele per il candore della sua devozione, ha distolto lo sguardo da Caino perché la sua faccia era rabbuiata per la tristezza e il livore.

Considera quale sia il colore della tristezza e il livore.

Considera quale sia il colore della tristezza e dell’invidia che distoglie lo sguardo di Dio.

Bene ed elegantemente nel dar colore al beneficio è stato lodato il candore della giocondità in quel verso del Poeta: « Soprattutto si presentarono volti sereni » ( Ovidio, Metamorfosi, 8, 677-678 ).

Né solamente chi dà con gioia è amato da Dio, ma anche chi lo fa con semplicità.

Anche la semplicità è candore.

Lo proviamo dal contrario: il neo significa doppiezza, ho detto poco il neo è una macchia.

Che cosa è la doppiezza, se non inganno?

Ma chi agisce con inganno al cospetto di Dio , la sua iniquità diventa odiosa.

E perciò beato l’uomo a cui Dio non imputa alcun male, e nel cui spirito non è inganno ( Sal 32,2 ).

Bene il Signore ha notato entrambe le macchie in poche parole, l’inganno e la tristezza: Non siate, dice, tristi come gli ipocriti ( Mt 6,16 ).

Lo Sposo, pertanto, essendo virtù, si compiace nelle virtù, ed essendo giglio, dimora volentieri tra i gigli, ed essendo candore, si diletta tra i candidi.

4. E forse pascersi tra i gigli vuol proprio dire compiacersi del candore e del profumo delle virtù.

Un tempo si pasceva corporalmente presso Maria e Marta, e si metteva a tavola tra gigli anche col corpo esse, dico, poiché erano gigli ma rifocillava tuttavia lo spirito con la devozione e le virtù delle due donne.

Che se in quel momento fosse entrato un Profeta o un Angelo, o qualsiasi altra persona spirituale, non ignorando quale fosse la maestà che era là seduta, non avrebbe dichiarato con stupore, per tanta degnazione e familiarità che vedeva dimostrare con anime pure e corpi illibati, ma tuttavia terreni e di sesso più debole, di averlo veduto non solo stare, ma pascersi tra i gigli?

Così, dunque, secondo l’uno e l’altra, lo spirito cioè e la carne, lo Sposo fu trovato a pascersi tra i gigli.

Penso che egli pascesse anche da parte sua, ma in spirito.

Per ciò stesso che si pasceva, come pasceva!

Come, dico, confortava la timidezza di quelle donne, ne rallegrava l’umiltà, ne accresceva la devozione!

Ma se hai visto come il pascersi per lui sia anche pascere, vedi anche ora come viceversa per lui pascere equivalga a pascersi.

Signore che mi pasci dalla mia gioventù ( Gen 48,15 ), dice il santo Patriarca Giacobbe.

Buon padre di famiglia quello che prende cura dei suoi domestici, specialmente nei tempi difficili, per nutrirli in tempo di fame, cibandoli col pane di vita e di intelligenza, e nutrendoli per la vita eterna.

Ma pascendoli, così io penso, si pasce egli stesso, e con i cibi che gli sono graditi, i nostri profitti.

Poiché gaudio del Signore è la nostra fortezza ( Ne 8,10 ).

III. Come Dio dall’uomo e l’uomo da Dio è mangiato, e la differenza di unità con cui Padre e Figlio sono uno e Dio e l’uomo sono un medesimo spirito.

5. Così dunque, quando si pasce pasce, e si pasce quando pasce, nutrendoci del suo gaudio spirituale, e godendo egli stesso ugualmente del nostro spirituale profitto.

È suo cibo la mia penitenza, suo cibo la mia salvezza, suo cibo io stesso.

Non mangia forse la cenere come pane?

E io perché sono peccatore, sono cenere da essere mangiata da lui.

Sono masticato quando sono rimproverato, sono deglutito quando vengo formato, sono cotto quando sono mutato, sono digerito quando sono trasformato, udito quando sono conformato.

Non meravigliatevi di questo: egli ci mangia ed è mangiato da noi affinché ci uniamo più strettamente a lui.

Diversamente non saremmo perfettamente uniti con lui.

Poiché se io mangio e non sono mangiato egli sembrerà essere in me, ma non ancora io in lui.

Che se sono mangiato e non mangio, sembrerà che egli mi abbia in sé, ma non sia in me; né vi sarà perfetta unione in una sola di queste cose.

Ma egli mangi me, perché abbia me in sé, e da me a sua volta sia mangiato perché sia in me, e vi sarà così stretta connessione e integra complessione quando io sarò in lui e lui in me.

6. Vuoi che ti mostri con qualche cosa di simile quanto ho detto?

Alza ora i tuoi occhi in una cosa molto più sublime, ma simile a questa.

Se lo stesso Sposo fosse nel Padre senza che il Padre fosse in lui, o se il Padre fosse bensì in lui, ma non lui nel Padre, oserei dire che anche la loro unità non sarebbe perfetta, se pure fosse ancora unità.

Ma egli é nel Padre, e il Padre è in lui, e quindi la loro unità non zoppica, ma veramente e perfettamente formano una cosa sola lui e il Padre.

Così, dunque, l’anima che considera suo bene l’aderire a Dio non pensi di essere perfettamente unita a lui prima di sentire che egli abita in sé e lei in lui.

Non che neppure allora formi con Dio una cosa sola, come sono una cosa sola il Padre e il Figlio, quantunque chi aderisce a Dio forma con lui un solo spirito ( 1 Cor 6,17 ).

Ho letto questo, ma non ho letto che formi una cosa sola con Dio.

Non dico di me, che sono nulla, ma assolutamente nessuno, sia della terra, sia del cielo, potrà usurpare per sé quella parola dell’Unigenito: Io e il Padre siamo una cosa sola ( Gv 10,30 ).

Io tuttavia, benché polvere e cenere, sull’autorità della Scrittura non temo affatto di dire che sono un solo spirito con Dio, se mi permetteranno di affermarlo certe esperienze, che io aderisco a Dio come uno di coloro che rimangono nella carità, e per questo dimorano in Dio e Dio in loro, mangiando in qualche maniera Dio, e mangiati da Dio.

Poiché penso che di tale adesione sia stato detto: Chi aderisce a Dio forma un solo spirito con lui.

Che dunque? Dice il Figlio: Io nel Padre e il Padre è in me, e siamo una cosa sola ( Gv 10,38 ); dice l’uomo: io in Dio, e Dio è in me, e siamo un solo spirito.

7. Ma forse il Padre e il Figlio per esser l’uno nell’altro, e perciò formare una cosa sola, si mangiano a vicenda come Dio e l’uomo quasi per una vicendevole manducazione passano l’uno nell’altro, anche se con questo non diventano una cosa sola, ma un solo spirito?

Per nulla affatto.

Poiché è diverso il modo di essere l’uno nell’altro nei due casi, e non è la medesima unità che ne risulta.

Il Padre e il Figlio sono l’uno nell’altro in modo non solo ineffabile, ma incomprensibile, così ampi e capaci di contenersi a vicenda, ma ampi senza possibilità di dividersi in parti, e capaci senza possibilità di parteciparsi.

Così infatti canta la Chiesa nell’inno: Nel Padre tutto il Figlio e tutto nel Verbo il Padre.

Il Padre è nel Figlio, nel quale sempre si è compiaciuto; il Figlio è nel Padre dal quale da sempre è nato e mai separato.

Ora l’uomo è in Dio per la carità e Dio nell’uomo, al dire di San Giovanni, che chi rimane nella carità rimane in Dio e Dio in lui ( 1 Gv 4,16 ).

Questo è un certo accordo delle volontà, per cui due sono in un solo spirito, anzi, formano un solo spirito.

Vedi la diversità? Non è lo stesso avere la medesima sostanza e avere il medesimo sentire.

Del resto se hai fatto attenzione ti è abbastanza indicata la differenza delle unità nelle parole: « una cosa sola » e « un solo spirito », poiché non si potrà dire che il Padre e il Figlio siano « uno », né che l’uomo e Dio siano « una cosa sola ».

Non si possono dire « uno » il Padre e il Figlio, perché il primo è Padre e l’altro è Figlio; si dicono però e sono una cosa sola, perché unica è la loro sostanza, né ognuno di essi ha la sua.

Invece, l’uomo e Dio, non essendo di un’unica sostanza o natura, non possono dirsi una cosa sola; si dicono tuttavia formare un solo spirito con certa e assoluta verità se aderiscono all’altro con il vincolo dell’amore.

Questa unità, infatti, non è costituita dall’unità dell’essenza, ma dalla connivenza delle volontà.

9. Mi sembra che sia chiara non solo la diversità, ma anche la disparità delle unità costituite una da una sola essenza, l’altra da diverse sostanze.

Che c’è di più distante che l’unità di parecchi, e l’unità di una cosa sola?

Così tra le unità, come ho detto, si distinguono « uno » e « una cosa sola » perché per « una cosa sola » viene designata l’unità di essenza nel Padre e nel Figlio, e invece per « uno » non è indicata questa, ma una certa pietà comune di affetti tra Dio e l’uomo.

Con un’aggiunta tuttavia anche il Padre e il Figlio si dicono rettamente « uno », per esempio: un solo Dio, un solo Signore, e tutto ciò che si dice di uno di essi e non di entrambi.

Non vi è, infatti, in essi diversa divinità o maestà, non più che sostanza o essenza o natura: ma tutte queste cose, se bene consideri, non sono diverse in essi, o divise, ma sono una cosa sola.

IV. L’unità sostanziale del Padre e del Figlio e di quella per consenso della volontà fra l’uomo e Dio, e come l’uomo ab aeterno sia in Dio ma non è vero il contrario

Ho detto troppo poco: sono una cosa sola con essi.

Che cosa dire di quella unità per cui molti cuori e molte anime si legge che formassero una cosa sola?

Non è da considerare neppure unità rispetto a questa, dove non vengano unite molte cose, ma designa singolarmente una cosa sola.

Dunque è singolare e somma quella unità che non risulta dal riunire insieme cose prima separate, ma esiste dall’eternità.

Né questa unità è prodotta da quella manducazione spirituale di cui si è parlato.

Non viene prodotta, ma è.

Molto meno si deve pensare che la produca una qualsiasi congiunzione di essenze o consenso di volontà, perché non sono.

Una sola, infatti, come si è detto, è in essi l’essenza e la volontà; ma dove c’è uno solo non vi è consenso, non composizione, non unione o qualcosa di simile.

Vi devono essere per lo meno due volontà perché ci sia il consenso, due essenze perché vi sia congiunzione o unione per consenso.

Nulla di questo nel Padre e nel Figlio, perché né ci sono in essi due essenze, né due volontà.

In essi unica è l’essenza e unica la volontà, anzi in essi queste due sono una cosa sola, come mi ricordo di aver detto, e formano con essi una cosa sola, per questo essi, rimanendo vicendevolmente l’uno nell’altro in modo incomprensibile e incomparabile, veramente e singolarmente sono una cosa sola.

Se tuttavia qualcuno dice che tra il Padre e il Figlio c’è un consenso, non dico di no, purché non si intenda l’unione di due volontà, ma l’unità di una sola volontà.

10. Dio, invece, e l’uomo, che possiedono e si differenziano per volontà e per l’essenza che è propria a ciascuno dei due, rimangono l’uno nell’altro in un modo molto diverso, cioè non per la confusione delle due sostanze, ma per l’uniformità delle due volontà.

E questa unione è per essi comunione di volontà e consenso nella carità.

Felice unione, se ne fai l’esperienza.

Nulla se la metti a confronto con l’altra.

Voce di un esperto: Buona cosa per me aderire a Dio ( Sal 73,28 ).

Buona cosa veramente se aderirai da ogni parte.

Chi è che aderisce perfettamente a Dio se non colui che, rimanendo in Dio in quanto amato da Dio, amandolo a sua volta ha attirato Dio in sé?

Dunque, quando da ogni parte aderiscono a vicenda l’uomo e Dio, aderiscono da ogni parte per la mutua intima dilezione che li rende come inviscerati l’uno nell’altro per questo direi che non vi è dubbio essere Dio nell’uomo e l’uomo in Dio.

Ma l’uomo è in Dio dall’eternità, in quanto dall’eternità amato, se tuttavia è di quelli che dicono che Dio ci ha amati e gratificati nel suo diletto Figlio prima della creazione del mondo; Dio, invece, é nell’uomo da quando è amato dall’uomo.

E se è così l’uomo è si in Dio, anche quando Dio non è nell’uomo; Dio, invece, non è nell’uomo se questi non è in Dio.

Rimanere infatti nell’amore non può, anche se ama per un certo tempo, chi non è amato.

Può, però, non ancora amare ed essere già amato; diversamente come potrebbe stare: perché egli per primo ci ha amati ( 1 Gv 4,10 ).

Ora, quando ama anche colui che già prima era amato allora l’uomo è in Dio e Dio è nell’uomo.

Chi poi mai ha amato, consta che mai è stato amato, e perciò né egli è in Dio, né Dio in lui.

Abbiamo detto queste cose per far rilevare la differenza tra quella connessione per cui il Padre e il Figlio sono una cosa sola, e quella per cui un’anima aderendo a Dio, forma con lui un solo spirito, perché non capiti che essendo scritto che l’uomo che rimane nella carità rimane in Dio e Dio in lui, e che il Figlio è nel Padre e il Padre è in lui, si attribuisse anche all’uomo adottato quello che è prerogativa del Figlio unico.

V. Il terzo senso del pascolo dello Sposo, che è Verbo di Dio; ciò che non è opera buona e non è fra le virtù, cioè fra i gigli, non è oggetto del suo pascolo

11. Terminata questa questione dobbiamo ritornare a colui che si pasce tra i gigli, perché di là abbiamo fatto questa digressione fino qui; se non sia stata cosa inutile giudicatelo voi.

E già di quel passo avevo proposto due sensi: sia che si pasce delle virtù di coloro che si sono resi candidi colui che è virtù e candore, sia che riceve i peccatori a penitenza nel suo corpo, che è la Chiesa, per incorporarsi i quali fece se stesso peccato, lui che non commise peccato, perché fosse distrutto il corpo del peccato al quale si erano conformati quelli che peccarono, e divenissero giustizia, gratuitamente giustificati in lui ( Rm 3,24; 2 Cor 5,21 ).

12. Ne aggiungo un terzo che mi viene in mente, e basterà sia per la spiegazione del passo, sia per chiudere il sermone.

La parola di Dio è verità, e lo stesso sposo.

Sapete questo. Ascoltate il resto.

Questa parola, quando viene ascoltata e non le si obbedisce, resta in qualche modo per il momento vuota e digiuna, del tutto triste, e si lamenta di essere stata pronunziata invano.

Se invece le si obbedisce non ti sembra che la parola cresca e in qualche modo metta corpo, perché alla parola si è aggiunta l’azione, nutrita da certi frutti di obbedienza, da messi di giustizia?

Per questo si dice nell’Apocalisse: Ecco, io sto alla porta e busso, se qualcuno ascolterà la mia voce e aprirà la porta, entrerò da lui, e cenerò con lui e lui con me ( Ap 3,20 ).

Questo senso sembra venire approvato, e anche la sentenza del Signore presso il Profeta, dove dice che la sua parola non tornerà a lui vuota, ma prospererà e farà quello per cui l’ha mandata.

Non tornerà, dice, a me vuota ( Is 55,11 ), ma quasi prosperando in tutto si saturerà degli atti buoni di coloro che, animati dall’amore gli obbediscono.

Infine, secondo il modo di parlare si dice che la parola si è adempiuta quando ha ottenuto l’effetto, come se fosse in qualche modo famelica e si sentisse vuota, fino a che sia riempita dall’esecuzione dell’opera.

13. Ma ascolta Cristo stesso che dice di quale cibo si nutra: Il mio cibo, dice, è di fare la volontà del Padre mio ( Gv 4,34 ).

È parola del Verbo che indica chiaramente essere suo cibo un’azione buona, se la troverà tra i gigli, cioè tra le virtù.

Diversamente, se la trova fuori, anche se il cibo in sé sembra buono, non lo toccherà colui che si pasce tra i gigli.

Per esempio, non accetta l’elemosina dalla mano di un ladro o di uno strozzino, e neppure da quella di un ipocrita che facendo l’elemosina suona la tromba davanti a sé per essere glorificato dagli uomini.

E neppure esaudirà in qualche modo l’orazione di colui che ama pregare negli angoli delle piazze per essere veduto dagli uomini.

L’orazione del peccatore, infatti, sarà esecrabile.

Invano pure offre la sua offerta all’altare colui che sa che il suo fratello ha qualche cosa contro di lui.

Infine, Dio non guardò all’offerta di Caino perché non si comportava rettamente nei riguardi di suo fratello.

Secondo la testimonianza del Profeta Dio aveva anche in abominio i sabati, le neomenie e i sacrifici dei Giudei, talmente da protestare che la sua anima odiava queste cose, e diceva: Quando venivate al mio cospetto, chi ha richiesto queste cose dalle vostre mani? ( Is 1,12 ).

Credo che quelle mani non odoravano di gigli, e perciò respingeva l’offerta presentata da esse colui che è solito pascersi tra i gigli, e non tra le spine; non avevano forse mani spinose quelli ai quali diceva: Le vostre mani sono piene di sangue? ( Gen 27,23 ).

Anche le mani di Esaù erano pelose, con peli simili a spine; perciò non furono ammesse per il servizio del Santo.

14. Temo che tra di noi vi siano alcuni dei quali lo Sposo non accetti le offerte, perché non sanno di gigli.

Infatti, se nel mio digiuno si trova la mia volontà, tale digiuno non è adatto allo Sposo, né egli gusta il mio digiuno che sa non di obbedienza, ma del vizio della volontà propria.

Io penso la stessa cosa non solo del digiuno, ma del silenzio, delle veglie, dell’orazione, della lettura, del lavoro manuale, insomma di ogni osservanza del monaco dove si trova la volontà propria e non l’obbedienza al maestro.

Non penso affatto che tali osservanze, pure buone in sé, siano da annoverarsi tra gigli, vale a dire tra le virtù.

Ma chi fa queste cose si sentirà dire dal Profeta: È forse questo l’ossequio che io cerco? dice il Signore.

E aggiungerà: Nel giorno dei tuoi beni si trova la tua volontà.

Grande male la volontà propria, la quale fa si che i tuoi beni non siano beni per te.

Bisogna, pertanto, che queste cose diventino gigli, perché colui che si pasce tra i gigli non gusterà nulla che sia inquinato dalla propria volontà.

La sapienza arriva dappertutto per la sua mondezza, e nulla di inquinato si trova in essa.

Così, dunque, lo Sposo ama pascersi tra i gigli, cioè presso i cuori mondi e nitidi.

Ma fino a quando? Fino a che aspiri il giorno e si inclinino le ombre ( Ct 2,17 ).

È un luogo ombroso e fitto.

Non entriamo in questa selva di profondo mistero se non alla chiara luce del giorno.

Ormai, infatti, il mio discorso si è prolungato più del solito e il giorno è avanzato, e così contro voglia siamo costretti ad allontanarci da questi gigli.

Non sono vinto dalla prolissità del discorso perché l’odore di questi fiori mi toglie ogni stanchezza.

Pare che resti poco di questo capitolo, ma questo poco è pieno di mistero, come del resto tutto in questo cantico.

Ma chi rivela i misteri sarà là, lo spero, quando cominceremo a bussare, perché non chiuda la bocca di quelli che parlano di lui, essendo a lui cosa familiare aprire le cose chiuse, lui che è Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli.

Amen.

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