Leggenda perugina

[1586] Il libro della Croce

38. Durante la sua malattia di occhi, era così tormentato dalle sofferenze, che un giorno un ministro gli suggerì: « Fratello, perché non ti fai leggere dal tuo compagno qualche brano dei Profeti o altri passi della Scrittura?

Il tuo spirito ne esulterebbe e ne ricaverebbe immensa consolazione ».

Sapeva che Francesco provava molta felicità nel Signore quando gli si leggevano le divine Scritture.

Ma il Santo rispose: « Fratello, io trovo ogni giorno una grande dolcezza e consolazione rimembrando e meditando gli esempi di umiltà del Figlio di Dio, se anche vivessi sino alla fine del mondo, non mi sarebbe necessario ascoltare o meditare altri brani delle Scritture ».

Richiamava alla memoria e ridiceva ai fratelli quel versetto di David: L'anima mia ricusa di essere consolata.

Dovendo essere, come affermava di frequente, modello ed esempio a tutti i fratelli, non voleva far uso di medicine nelle sue malattie, e anzi rifiutava perfino i cibi necessari.

Per restare fedele a questo programma, era duro con il proprio corpo, sia quando sembrava star bene, mentre era sempre debole e malaticcio, sia durante le sue infermità.

[1587] « Venite a vedere un ghiottone! »

39. Mentre stava riprendendosi da una gravissima malattia, pensandoci su, ebbe la sensazione di aver fruito di un trattamento ricercato durante la degenza.

In realtà aveva mangiato ben poco, poiché a causa delle numerose, varie e lunghe infermità, quasi non riusciva ad alimentarsi.

Un giorno dunque si levò non ancora libero dalla febbre quartana, e fece radunare il popolo d'Assisi nella piazza per tenere una predica.

Terminata che l'ebbe, ordinò ai presenti di non allontanarsi fintanto che lui non tornasse da loro.

Entrato nella chiesa di San Rufino, scese nella cripta insieme con Pietro di Cattanio, che fu il primo ministro generale eletto da lui, e con alcuni altri frati; e comandò a frate Pietro che obbedisse senza contraddire a quanto voleva fosse fatto, o detto di sé.

Gli rispose frate Pietro: « Fratello io non posso né debbo volere, in quanto concerne me e te, se non quello che ti piace ».

Allora Francesco si tolse la tonaca e ordinò a frate Pietro di trascinarlo così nudo davanti al popolo, con la corda che aveva al collo.

Ad un altro frate comandò di prendere una scodella piena di cenere, di salire sul podio dal quale aveva predicato, e di là gettarla e spargerla sulla sua testa.

Questo frate però, affranto dalla compassione e dalla pietà, non gli obbedì.

Pietro trascinava il Santo conforme al comando ricevuto, ma piangendo ad alta voce assieme agli altri frati.

Quando fu arrivato così nudo davanti al popolo nella piazza dove ebbe predicato, disse: « Voi credete che io sia un sant'uomo, così come credono altri i quali, dietro il mio esempio, lasciano il mondo ed entrano nell'Ordine.

Ebbene, confesso a Dio e a voi che durante questa mia infermità, mi sono cibato di carne e di brodo di carne ».

Quasi tutti scoppiarono a piangere per pietà e compassione verso di lui, soprattutto perché faceva gran freddo ed era d'inverno, e Francesco non era ancora guarito dalla quartana.

E battendosi il petto si accusavano, dicendo: « Questo santo, esponendo il suo corpo al vilipendio, si accusa di essersi curato in una necessità così giusta ed evidente: e noi sappiamo bene la vita ch'egli conduce, poiché, per le eccessive astinenze e austerità cui si abbandona dal giorno della conversione, lo vediamo vivere in un corpo quasi morto.

Che faremo noi infelici, che lungo tutta la nostra esistenza siamo vissuti e vogliamo vivere assecondando le voglie e i desideri della carne? ».

[1588] Contro l'ipocrisia

40. Qualcosa di simile avvenne in altro tempo, allorché fece la quaresima di san Martino in un romitaggio.

Siccome l'olio riusciva nocivo a Francesco nelle sue malattie, i fratelli condivano con lardo i cibi che gli preparavano.

Finita la quaresima, esordì con queste parole una predica alla folla riunita non lontana da quell'eremo: « Voi siete venuti da me con gran devozione e mi credete un santo uomo.

Ma io confesso a Dio e a voi che, durante questa quaresima, ho mangiato cibi conditi con lardo ».

Succedeva di frequente che, se i frati o amici dei frati, mentre Francesco mangiava con loro, gli offrissero qualche portata speciale per riguardo al suo stato di salute, egli si affrettava a dichiarare, in casa o nell'uscire, davanti ai frati e alla gente che non conosceva quel particolare: « Ho mangiato questi cibi ».

Non voleva restasse nascosto agli uomini, ciò che era noto agli occhi di Dio.

In qualunque luogo si trovasse, in compagnia di religiosi o secolari, se gli avveniva di avere lo spirito turbato da vanagloria, superbia o altro vizio, all'istante se ne confessava dinanzi a loro, crudamente, senza cercare attenuanti.

A questo proposito, un giorno confidò ai suoi compagni: « Io voglio vivere nell'intimità con Dio negli eremi e negli altri luoghi dove soggiorno, come se fossi sotto lo sguardo degli uomini.

Se la gente mi ritiene un santo e non conducessi la vita che a un santo si addice, sarei un ipocrita ».

Una volta, d'inverno, per la sua malattia di milza e per il freddo che pativa allo stomaco, uno dei compagni, che era il suo "guardiano", acquistò una pelle di volpe e gli chiese il permesso di cucirgliela all'interno della tonaca, sopra lo stomaco e la milza, per ripararli dal gran freddo.

Francesco in ogni tempo della vita da quando cominciò a servire Cristo fino al giorno della morte, non volle avere né indossare che soltanto una tonaca, rappezzata quando lo desiderava.

Egli dunque rispose:: « Se vuoi che io porti sotto la tonaca quella pelle, fai cucire di fuori un pezzo di quella stessa pelle, affinché la gente veda bene che dentro ho una pelliccia ».

Così fu fatto.

Ma non la portò a lungo, sebbene gli fosse necessaria per la salute.

[1589] Un guizzo di vanità

41. Camminava un'altra volta per Assisi accompagnato da molta gente.

Una vecchietta poverella gli chiese la elemosina per amore di Dio, e lui le donò all'istante il mantello che portava sulle spalle.

Subito confessò ai presenti di aver provato un sentimento di vanagloria.

Di numerosi altri esempi simili a questi, noi che siamo vissuti con lui e che li abbiamo visti e uditi, non possiamo far parola, perché sarebbe troppo lungo narrarli per scritto.

L'aspirazione più alta e dominante di Francesco fu quella di non essere mai ipocrita davanti a Dio.

Benché al suo fisico malato si rendesse necessario un cibo più ricercato, considerando ch'era tenuto a mostrare sempre il buon esempio ai fratelli e alla gente, per togliere ogni ragione di mormorare e ogni cattiva impressione, preferiva sopportare l'indigenza pazientemente e con buona voglia, anziché provvedere alla salute.

Fece così fino alla morte, anche se, trattandosi meglio avrebbe ugualmente lodato Dio e dato buon esempio.

[1590] Il cardinal Ugolino gli ordina di curarsi

42. Quando il vescovo di Ostia, che fu poi pontefice, si accorse che Francesco era stato e seguitava a essere esageratamente duro con il suo corpo, e soprattutto che cominciava a perdere la vista e non si arrendeva a farsi curare gli rivolse quest'ammonizione, ispirata da molta pietà e premura: « Fratello non fai bene a rifiutare che ti si curino gli occhi, perché la tua salute e la tua vita è assai utile per te e per gli altri.

Se hai tanta compassione per i tuoi frati infermi e sempre ti sei preoccupato di loro, non dovresti essere crudele verso te stesso, in questa tua grave ed evidente necessità.

Ti ordino pertanto di lasciarti aiutare e curare ».

Due anni prima di morire, quand'era ormai gravemente infermo e soprattutto sofferente d'occhi, ebbe dimora presso San Damiano in una celletta fatta di stuoie.

Il ministro generale, vedendolo così sofferente per il male d'occhi, gli comandò di lasciarsi aiutare e curare.

Aggiunse anzi che voleva essere presente di persona quando il medico avrebbe cominciato il trattamento, per essere più sicuro della cosa e anche per confortarlo, poiché era pieno di dolori.

Ma faceva allora gran freddo, e la stagione non era propizia per avviare la cura.

[1591] Nasce il cantico delle Creature

43. Francesco soggiornò a San Damiano per cinquanta giorni e più.

Non essendo in grado di sopportare di giorno la luce naturale, né durante la notte il chiarore del fuoco, stava sempre nell'oscurità in casa e nella cella.

Non solo, ma soffriva notte e giorno così atroce dolore agli occhi, che quasi non poteva riposare e dormire, e ciò accresceva e peggiorava queste e le altre sue infermità.

Come non bastasse, se talora voleva riposare e dormire, la casa e la celletta dove giaceva ( era fatta di stuoie, in un angolo della casa ) erano talmente infestate dai topi, che saltellavano e correvano intorno e sopra di lui, che gli riusciva impossibile prender sonno; le bestie lo disturbavano anche durante l'orazione.

E non solo di notte, ma lo tormentavano anche di giorno; perfino quando mangiava, gli salivano sulla tavola.

Sia lui che i compagni pensavano che questa fosse una tentazione del diavolo: e lo era di fatto.

Una notte, riflettendo Francesco alle tante tribolazioni cui era esposto, fu mosso a pietà verso se stesso e disse in cuor suo: « Signore, vieni in soccorso alle mie infermità, affinché io possa sopportarle con pazienza! ».

E subito gli fu detto in spirito: « Fratello, dimmi: se uno, in compenso delle tue malattie e sofferenze, ti donasse un grande prezioso tesoro, come se tutta la terra fosse oro puro e tutte le pietre fossero pietre preziose e l'acqua fosse tutta profumo: non considereresti tu come un niente, a paragone di tale tesoro, la terra e le pietre e le acque?

Non ne saresti molto felice? ».

Rispose Francesco: « Signore, questo sarebbe un tesoro veramente grande e incomparabile, prezioso e amabile e desiderabile ».

La voce concluse: « Allora, fratello, sii felice ed esultante nelle tue infermità e tribolazioni; d'ora in poi vivi nella serenità, come se tu fossi già nel mio Regno ».

Alzandosi al mattino, disse ai suoi compagni: « Se l'imperatore donasse un intero reame a un suo servitore costui non ne godrebbe vivamente?

Ma se gli regalasse addirittura tutto l'impero, non ne godrebbe più ancora? ».

E soggiunse: « Sì, io devo molto godere adesso in mezzo ai miei mali e dolori, e trovare conforto nel Signore, e render grazie sempre a Dio Padre, all'unico suo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo e allo Spirito Santo, per la grazia e benedizione così grande che mi è stata elargita: egli infatti si è degnato nella sua misericordia di donare a me, suo piccolo servo indegno ancora vivente quaggiù, la certezza di possedere il suo Regno.

[1592] Voglio quindi, a lode di Lui e a mia consolazione e per edificazione del prossimo, comporre una nuova Lauda del Signore per le sue creature.

Ogni giorno usiamo delle creature e senza di loro non possiamo vivere, e in esse il genere umano molto offende il Creatore.

E ogni giorno ci mostriamo ingrati per questo grande beneficio, e non ne diamo lode, come dovremmo, al nostro Creatore e datore di ogni bene ».

E postosi a sedere, si concentrò a riflettere, e poi disse: « Altissimo, onnipotente, bon Segnore ... ».

Francesco compose anche la melodia, che insegnò ai suoi compagni.

Il suo spirito era immerso in così gran dolcezza e consolazione, che voleva mandare a chiamare frate Pacifico - che nel secolo veniva detto "il re dei versi" ed era gentilissimo maestro di canto -, e assegnargli alcuni frati buoni e spirituali, affinché andassero per il mondo a predicare e lodare Dio.

Voleva che dapprima uno di essi, capace di predicare, rivolgesse al popolo un sermone, finito il quale, tutti insieme cantassero le Laudi del Signore, come giullari di Dio.

Quando fossero terminate le Laudi, il predicatore doveva dire al popolo: « Noi siamo i giullari del Signore, e la ricompensa che desideriamo da voi è questa: che viviate nella vera penitenza ».

E aggiunse: « Cosa sono i servi di Dio, se non i suoi giullari che devono commuovere il cuore degli uomini ed elevarlo alla gioia spirituale? ».

Diceva questo riferendosi specialmente ai frati minori, che sono stati inviati al popolo per salvarlo.

Le Laudi del Signore da lui composte e che cominciano: « Altissimo, onnipotente, bon Segnore », le intitolò: Cantico di fratello Sole, che è la più bella delle creature e più si può assomigliare a Dio.

Per cui diceva: « Al mattino, quando sorge il sole, ogni uomo dovrebbe lodare Dio, che ha creato quell'astro, per mezzo del quale i nostri occhi sono illuminati durante il giorno.

Ed a sera, quando scende la notte, ogni uomo dovrebbe lodare Dio per quell'altra creatura: fratello Fuoco, per mezzo del quale i nostri occhi sono illuminati durante la notte ».

Disse ancora: « Siamo tutti come dei ciechi, e il Signore c'illumina gli occhi per mezzo di queste due creature.

Per esse e per le altre creature, di cui ogni giorno ci serviamo, dobbiamo sempre lodare il Creatore glorioso ».

Egli fu sempre felice di comportarsi così, fosse sano o malato, e volentieri esortava gli altri a lodare insieme il Signore.

Nei momenti che più era torturato dal male, intonava le Laudi del Signore, e poi le faceva cantare dai suoi compagni, per dimenticare l'acerbità delle sue sofferenze pensando alle Laudi del Signore.

E fece così fino al giorno della sua morte.

[1593] La strofa del perdono

44. In quello stesso periodo, mentre giaceva malato, avendo già composte e fatte cantare le Laudi, accadde che il vescovo di Assisi allora in carica, scomunicò il podestà della città.

Costui, infuriato, a titolo di rappresaglia, fece annunziare duramente questo bando: che nessuno vendesse al vescovo o comprasse da lui alcunché o facesse dei contratti con lui.

A tal punto erano arrivati a odiarsi reciprocamente.

Francesco, malato com'era, fu preso da pietà per loro, soprattutto perché nessun ecclesiastico o secolare si interessava di ristabilire tra i due la pace e la concordia.

E disse ai suoi compagni: « Grande vergogna è per noi, servi di Dio, che il vescovo e il podestà si odino talmente l'un l'altro, e nessuno si prenda pena di rimetterli in pace e concordia ».

Compose allora questa strofa, da aggiungere alle Laudi: Laudato si, mi Segnore, per quilli ke perdonano per lo tuo amore e sustengu enfirmitate et tribulacione.

Beati quilgli kel sosteranno in pace ka da te, Altissimo, sirano coronati.

Poi chiamò uno dei compagni e gli disse: « Vai, e di' al podestà da parte mia, che venga al vescovado lui insieme con i magnati della città e ad altri che potrà condurre con sé ».

Quel frate si avviò, e il Santo disse agli altri due compagni: « Andate, e cantate il Cantico di frate Sole alla presenza del vescovo e del podestà e degli altri che sono là presenti.

Ho fiducia nel Signore che renderà umili i loro cuori, e faranno pace e torneranno all'amicizia e all'affetto di prima ».

Quando tutti furono riuniti nello spiazzo interno del chiostro dell'episcopio, quei due frati si alzarono e uno disse: « Francesco ha composto durante la sua infermità le Laudi del Signore per le sue creature, a lode di Dio e a edificazione del prossimo.

Vi prego che stiate a udirle con devozione ».

Così cominciarono a cantarle.

Il podestà si levò subito in piedi, e a mani giunte, come si fa durante la lettura del Vangelo, pieno di viva devozione, anzi tutto in lacrime, stette ad ascoltare attentamente.

Egli aveva infatti molta fede e venerazione per Francesco.

Finito il Cantico, il podestà disse davanti a tutti i convenuti: « Vi dico in verità, che non solo a messer vescovo, che devo considerare mio signore, ma sarei disposto a perdonare anche a chi mi avesse assassinato il fratello o il figlio ».

Indi si gettò ai piedi del vescovo, dicendogli: « Per amore del Signore nostro Gesù Cristo e del suo servo Francesco, eccomi pronto a soddisfarvi in tutto, come a voi piacerà ».

Il vescovo lo prese fra le braccia, si alzò e gli rispose: « Per la carica che ricopro dovrei essere umile.

Purtroppo ho un temperamento portato all'ira.

Ti prego di perdonarmi ».

E così i due si abbracciarono e baciarono con molta cordialità e affetto.

I frati ne restarono molto colpiti, constatando la santità di Francesco, poiché si era realizzato alla lettera quanto egli aveva predetto della pace e concordia di quelli.

Tutti coloro che erano stati presenti alla scena e avevano sentito quelle parole, ritennero la cosa un grande miracolo, attribuendo ai meriti di Francesco che il Signore avesse così subitamente toccato il cuore dei due avversari.

I quali, senza più ricordare gli insulti reciproci, tornarono a sincera concordia dopo uno scandalo così grave.

E noi, che siamo vissuti con Francesco, testimoniamo che ogni qual volta egli predicesse: « Questa cosa è così, sarà così », immancabilmente si realizzava alla lettera.

E ne abbiamo visto con i nostri occhi tanti esempi, che sarebbe lungo scrivere e narrare.

[1594] Un cantico per le Clarisse

45. Sempre in quei giorni e nello stesso luogo, dopo che Francesco ebbe composto le Laudi del Signore per le sue creature, dettò altresì alcune sante parole con melodia, a maggior consolazione delle povere signore del monastero di San Damiano, soprattutto perché le sapeva molto contristate per la sua infermità.

E poiché, a causa della malattia, non le poteva visitare e consolare personalmente, volle che i suoi compagni portassero e facessero sentire alle recluse quel canto.

In esso, Francesco si proponeva di manifestare alle sorelle, allora e per sempre, il suo ideale: che cioè fossero un solo cuore nella carità e convivenza fraterna, poiché quando i frati erano ancora pochi, esse si erano convertite a Cristo, dietro l'esempio e i consigli di lui, Francesco.

La loro conversione e santa vita è gloria ed edificazione non solo dell'Ordine dei frati, di cui sono pianticella, ma anche di tutta la Chiesa di Dio.

Perciò, sapendo Francesco che le sorelle, fino dai primordi, avevano condotto e conducevano una vita dura e povera, sia per volontà propria sia per necessità, il suo animo si volgeva con sentimenti di pietà e amore verso di loro.

Perciò in quel canto le pregava perché, dal momento che il Signore le aveva riunite da molte parti nella santa carità, nella santa povertà e nella santa obbedienza, continuassero a vivere e morire in queste virtù.

E raccomandava specialmente che, usando le elemosine che il Signore inviava loro, provvedessero con saggia discrezione, con gioia e gratitudine alle necessità dei loro corpi, e che le sorelle sane portassero pazienza nei travagli che duravano per curare le ammalate, e queste fossero pazienti nelle infermità e privazioni che pativano.

[1595] Sua ripugnanza a farsi curare

46. All'avvicinarsi della stagione favorevole per curare il male d'occhi, Francesco lasciò quel luogo, benché la sua infermità fosse peggiorata.

Teneva la testa avvolta in un grande cappuccio confezionato dai frati, e siccome non poteva sopportare la luce del giorno a causa degli acerbi dolori che gli provocava, portava sugli occhi una fascia di lana e di lino cucita col cappuccio.

I compagni, accomodatolo sopra una cavalcatura, lo condussero all'eremitaggio di Fonte Colombo presso Rieti, per consultare un medico di questa città, esperto nel curare le oftalmie.

Venne il medico all'eremitaggio e disse a Francesco che bisognava cauterizzarlo dalla mascella al sopracciglio dell'occhio più malato.

Ma il Santo non voleva s'incominciasse il trattamento prima che arrivasse frate Elia.

Lo stette ad aspettare, ma quello non poteva venire, per i molti impegni che lo trattenevano.

Così Francesco restava incerto se cominciare o no.

Finalmente, pressato dalla necessità, soprattutto per l'ingiunzione del vescovo di Ostia e del ministro generale, si indusse a obbedire.

Egli provava un forte disagio a preoccuparsi di se stesso, per questo desiderava che tale incombenza cadesse sul suo ministro.

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