Leggenda perugina

[1606] Dona il Nuovo Testamento

56. Un'altra volta, mentre dimorava presso la chiesa della Porziuncola, una donna anziana e poverella che aveva due figli nell'Ordine, venne a quel luogo a chiedere l'elemosina a Francesco: la poveretta in quell'anno non aveva di che vivere.

Il Santo si rivolse a Pietro di Cattanio, allora ministro generale: « Possiamo avere qualcosa da dare alla nostra madre? ».

Francesco affermava che la madre di un frate era madre sua e di tutti gli altri frati.

Gli rispose Pietro: « In casa non abbiamo niente da poterle dare, oltre tutto vorrebbe una elemosina considerevole da cui trarre il necessario per vivere.

In chiesa abbiamo soltanto un Nuovo Testamento, che ci serve per le letture a mattutino ».

Di fatto, a quel tempo i frati non avevano breviari, e neppure molti salteri.

Francesco riprese: « Da' a nostra madre il Nuovo Testamento, che lo venda per far fronte alle sue necessità.

Credo fermamente che piacerà più al Signore e alla beata Vergine Madre sua se doniamo questo libro, anziché farci delle letture ».

E così glielo regalò.

A proposito di Francesco può essere detto e scritto quel che viene detto e letto di Giobbe: La bontà è uscita dall'utero di mia madre, ed è cresciuta con me.

Per noi, che siamo vissuti con lui, sarebbe troppo lungo scrivere e narrare non solo quanto abbiamo appreso da altri sulla sua carità e comprensione verso i bisognosi, ma anche quello che abbiamo visto con i nostri occhi.

[1607] Guarigione dei Buoi di sant'Elia

57. Durante un suo soggiorno nell'eremitaggio di Fonte Colombo, scoppiò una epidemia dei bovini, detta dal popolo "basabove", e da cui le bestie solitamente non scampano.

Il contagio si abbatté sui bovini del paese di Sant'Elia, situato nei paraggi di quell'eremo, così che gli animali cominciarono ad ammalarsi e morire.

Una notte fu detto in visione a un uomo spirituale di quel villaggio: « Va' al romitorio dove dimora il beato Francesco, fatti dare l'acqua dove si è lavato mani e piedi, e aspergila sopra tutti i bovini, e saranno liberati all'istante ».

Allo spuntar del giorno quell'uomo si levò e venuto all'eremo disse la cosa ai compagni di Francesco.

Costoro, raccolsero in un recipiente l'acqua con cui si era lavato le mani all'ora del pranzo; e di nuovo, a sera, lo pregarono di lasciarsi lavare i piedi, senza nulla rivelargli della loro intenzione.

Il recipiente con l'acqua fu consegnato all'uomo, che lo portò con sé e ne asperse, come si fa con l'acqua benedetta, gli animali che giacevano moribondi e gli altri tutti.

Immediatamente, per grazia del Signore e per i meriti di Francesco, tutti furono liberati dalla malattia.

A quel tempo, Francesco aveva le cicatrici alle mani, ai piedi e al petto.

[1608] Il canonico Gedeone

58. Allorché Francesco, sofferente per il male d'occhi si trattenne per alcuni giorni nel palazzo del vescovo di Rieti, un ecclesiastico di quella diocesi, di nome Gedeone, uomo molto mondano, giaceva infermo per una grave e molto dolorosa affezione ai reni.

Non riusciva a muoversi e girarsi nel letto, se non aiutato, né poteva alzarsi e camminare, se non sorretto da più persone.

Quando lo portavano così, andava curvo, e quasi contratto per il dolore dei reni, e non era in grado di stare dritto.

Un giorno, fattosi portare da Francesco, si accasciò ai suoi piedi e lo pregava con molte lacrime che gli facesse il segno della croce.

Gli disse Francesco: « Come posso tracciare questo segno su te, che in passato sei vissuto sempre secondo le brame della carne, senza pensare ai giudizi di Dio né temerli? ».

Ma vedendolo così tormentato dalla grave malattia e da atroci dolori, il Santo fu preso da compassione e gli disse: « Io ti segno nel nome del Signore.

Però, se a Lui piacerà guarirti, bada di non tornare al vomito.

Ti dico in verità che, se tornerai al vomito, ti capiteranno mali peggiori dei primi.

Inoltre incorrerai in una durissima condanna a causa dei tuoi peccati, ingratitudini e disprezzi della bontà del Signore ».

Fatto che ebbe Francesco il segno della croce su colui, subito Gedeone si raddrizzò, libero dal suo male.

E nel drizzarsi, le sue ossa scricchiolarono come quando uno spacca della legna secca con le mani.

Ma dopo pochi anni, Gedeone ritornò alla sua mala vita, senza badare alle parole rivoltegli dal Signore per bocca del suo servo Francesco.

Così gli accadde che un giorno, mentre era a cena in casa di un altro canonico suo collega, e la notte dormiva colà, il tetto dell'abitazione crollò d'improvviso su tutti gli inquilini: gli altri scamparono da morte, solo quello sventurato fu colpito in pieno e morì.

[1609] I cavaglieri inviati a mendicare

59. Dopo un soggiorno a Siena e a Celle di Cortona, venne Francesco presso la chiesa della Porziuncola, e di qui si recò poi nel luogo di Bagnara, sopra la città di Nocera, per dimorarvi.

Colà era stata appena costruita una casa per i frati, e il Santo vi abitò molti giorni.

Il suo stato si aggravò sensibilmente, avendo cominciato ad enfiarsi per l'idropisia i suoi piedi e anche le gambe.

Quando gli assisani ne furono informati, mandarono in gran fretta a Bagnara dei cavalieri, con l'incarico di ricondurre il Santo ad Assisi, nel timore che venisse a morire lontano ed altri s'impossessassero del suo santo corpo.

Mentre dunque riconducevano il malato, la comitiva fece una sosta per il desinare in un borgo del contado di Assisi.

Francesco con i compagni si fermò nella casa d'un uomo del paese, che lo ricevette con molta gioia e affetto.

Intanto, i cavalieri giravano per il borgo, per comprarsi delle provviste, ma non trovarono nulla.

Tornati da Francesco, gli dissero in tono di scherzo: « Fratello, è necessario che ci diate delle vostre elemosine, poiché non ci riesce di trovare nulla da acquistare ».

Francesco replicò loro con grande slancio spirituale: « Non avete trovato niente proprio perché confidate nelle vostre mosche, cioè nel denaro, e non in Dio.

Ma tornate per le case dove siete passati per fare le compere, e senza vergognarvi domandate l'elemosina per amor di Dio.

Il Signore ispirerà quelle persone, e riceverete in abbondanza ».

Quelli andarono e chiesero l'elemosina, come aveva raccomandato il padre santo.

Uomini e donne diedero loro generosamente e con la gioia più viva ciò che avevano.

I cavalieri tornarono tutti contenti da Francesco, e gli raccontarono l'accaduto.

Essi lo tennero per gran miracolo, giacché si era realizzato alla lettera quanto aveva loro predetto il Santo.

[1610] Elogio della mendicità

60. Secondo Francesco, chiedere l'elemosina per amor del Signore Dio era il gesto più nobile, elevato e dignitoso, davanti a Dio e anche davanti al mondo.

E infatti, tutto ciò che il Padre celeste ha creato per l'utilità degli uomini, continua a donarcelo gratuitamente anche dopo il peccato, ai degni come agli indegni, per l'amore ch'Egli porta al suo Figlio diletto.

Perciò Francesco ripeteva che il servo di Dio deve chiedere l'elemosina per amor del Signore Dio più francamente e gioiosamente che non farebbe un uomo il quale, volendo comprare qualcosa, sospinto da cortesia e generosità, andasse dicendo: « Per una cosa che vale un denaro, io verserò cento marchi d'argento! ».

Anzi, mille volte di più.

Poiché il servo di Dio offre al benefattore, in cambio dell'elemosina, l'amore di Dio, a confronto del quale tutte le cose del mondo e anche quelle del cielo sono un nulla.

Prima che i frati fossero diventati numerosi, e anche dopo che furono moltiplicati, quando Francesco andava per il mondo a predicare, in molte città e paesi dove si recava non c'erano allora luoghi dei frati; succedeva quindi che qualche personaggio nobile e ricco lo pregava gentilmente di venire a mangiare e alloggiare in casa sua.

Il Santo sapeva bene che il suo ospite aveva approntato in quantità tutto ciò che era necessario al suo corpo, per amore del Signore Dio.

Tuttavia, sia per dare buon esempio ai fratelli, sia per riguardo alla nobiltà e dignità della signora Povertà, all'ora del pasto andava a mendicare.

E talvolta spiegava a colui che lo aveva invitato: « Io non voglio abdicare alla mia dignità regale, né alla eredità e vocazione e professione mia e dei frati minori: cioè di recarmi all'elemosina.

Non ne ricavassi che tre frustoli di pane, poco importa, poiché voglio esercitare la mia professione ».

E così, contro il volere dell'ospite, egli usciva alla cerca.

E l'invitante gli andava appresso e riceveva le elemosine che Francesco raccoglieva, conservandole poi come reliquie, per devozione verso il Santo.

Colui che sta scrivendo, ha visto molte volte fatti simili, e ne rende testimonianza.

[1611] Alla mensa del Cardinale Ugolino

61. In altra occasione, Francesco, andato a far visita al vescovo di Ostia, più tardi eletto papa, all'ora del desinare scivolò fuori casa a questuare, ma di nascosto per riguardo al vescovo.

Costui, quando Francesco rientrò, stava assiso a mensa e aveva incominciato a mangiare, poiché aveva invitato anche alcuni cavalieri, suoi consanguinei.

Il Santo depose le elemosine sulla tavola del vescovo, poi venne a sederglisi vicino.

Il prelato infatti, quando Francesco era suo ospite, voleva che all'ora dei pasti prendesse posto al suo fianco.

Quella volta rimase un po' male, per il fatto che il Santo era andato alla cerca; però, per riguardo ai commensali, non gli disse nulla.

Dopo che Francesco ebbe mangiato qualcosa, prese le elemosine e ne distribuì un poco a ciascuno dei cavalieri e dei cappellani del vescovo, come dono da parte del Signore Dio.

Tutti lo ricevettero con molta devozione.

Alcuni lo consumarono, altri lo riposero con un senso di venerazione.

Anzi, si levarono il cappello in segno di rispetto a Francesco, nel momento che lo ricevevano.

Ugolino fu ricolmo di gioia nel vedere tanta devozione, soprattutto perché quei frustoli non erano pane di frumento.

Dopo il pranzo, il prelato si alzò ed entrò nella sua camera conducendo con sé Francesco.

E levando le braccia, strinse a sé il Santo in uno slancio di gioia esultante, dicendogli però: « Ma perché, fratello mio semplicione, mi hai fatto l'affronto di uscire per la questua mentre stai in casa mia, che è casa dei tuoi frati? ».

Rispose Francesco: « Al contrario, signore: io vi ho reso un grande onore.

Invero, quando un suddito esercita la sua professione e compie l'obbedienza dovuta al suo signore, egli onora il signore e insieme il rappresentante di lui ».

E aggiunse: « Io devo essere modello ed esempio dei vostri poveri, perché so che nella vita e nell'Ordine dei frati, ci sono e saranno dei frati minori di nome e di fatto, i quali per amor del Signore Dio e per ispirazione dello Spirito Santo, che insegna e insegnerà loro ogni cosa, sapranno umiliarsi a ogni genere dl umiltà, sottomissione e servizio del propri fratelli.

Ma ci sono e saranno di quelli che, trattenuti da vergogna e mala abitudine, hanno e avranno a noia di umiliarsi e abbassarsi a mendicare e adattarsi ad altre umili occupazioni.

È mio dovere istruire con il comportamento i frati che sono e saranno nell'Ordine, affinché siano senza scusa davanti a Dio, sia in questo che nell'altro mondo.

E quando sono ospite in casa vostra, che siete nostro signore e papa, o nella dimora di magnati e ricchi, che per amor di Dio mi offrono con molta devozione e anzi mi impongono la loro ospitalità, io non voglio arrossire di andare alla questua, ma ritenere ciò un titolo di gran nobiltà, una dignità regale, un onore che mi fa il sommo Re.

Egli, Signore di tutti, ha voluto per slancio di amore diventare il servo di tutti; ricco e glorioso nella sua maestà divina, è venuto nella nostra umanità povero e disprezzato.

Per questo voglio che i frati presenti e futuri sappiano come godo la più gran consolazione di corpo e di spirito allorché siedo alla povera mensa dei frati e mi vedo dinanzi le poverelle elemosine accattate di porta in porta per amor del Signore Dio, che quando sto alla mensa vostra e di altri personaggi grandi, carica di ogni genere di cibi, sebbene mi vengano offerti con sincera devozione.

Il pane dell'elemosina è pane santo, santificato dalla lode e dall'amore di Dio.

Quando infatti il fratello va alla questua deve dire: " Sia lodato e benedetto il Signore Dio! ", e poi soggiungere: " Fateci l'elemosina per amore del Signore Dio "».

E il vescovo di Ostia, profondamente edificato da questa elevazione del padre santo, gli rispose: « Figlio, fai quello che ti sembra meglio, poiché il Signore è con te e tu con Lui ».

[1612] Frate mosca, il parassita

62. Fu volontà di Francesco, da lui espressa più volte, che un frate non dovesse stare lungo tempo senza andare all'elemosina, per non lasciarsi penetrare dalla vergogna.

Più un frate era stato di condizione elevata nel secolo, più Francesco era edificato e felice nel vederlo uscire per mendicare e accudire a compiti umili, per il buon esempio che dava.

Così si soleva fare nel tempo antico.

Appunto nei primordi dell'Ordine, quando i frati dimoravano presso Rivotorto, c'era uno di loro che poco pregava, non lavorava e si rifiutava di andare alla cerca perché si vergognava: mangiava forte, però.

Considerando una simile condotta, Francesco capì con la luce dello Spirito Santo che quello era un uomo carnale.

E gli rivolse queste parole: « Va' per la tua strada, fratello Mosca!

Tu vuoi mangiare il lavoro dei tuoi fratelli, ma sei ozioso nel servizio di Dio.

Sei come il fuco, che non lavora né raccoglie, e divora il frutto della fatica delle api operose ».

Quel tale se ne andò per la sua strada, senza nemmeno chiedere scusa, da quell'uomo carnale che era.

[1613] Bacia la spalla del questuante

63. In altro tempo, un frate molto spirituale se ne tornava un giorno da Assisi alla Porziuncola con l'elemosina.

Francesco soggiornava in quel luogo.

Camminando quello sulla strada vicina alla chiesa, cominciò a lodare Dio ad alta voce, pieno di gioia.

Udendolo, Francesco gli uscì incontro sulla strada, e con grande letizia gli baciò la spalla da cui pendeva la bisaccia con le elemosine.

E toltagliela di dosso, se la mise sulla spalla e la portò nella dimora dei frati, dicendo loro: « Così voglio che il mio frate vada alla questua e ne ritorni: felice ed esultante! ».

[1614] Gioia del Santo vicino alla morte

64. Nei giorni in cui Francesco, appena tornato dal luogo di Bagnara, giaceva gravemente infermo nel palazzo vescovile di Assisi, gli abitanti della città, temendo che, se il Santo venisse a morire di notte, i frati ne asportassero segretamente la salma per deporla in un'altra città, deliberarono che delle scolte vigilassero attentamente ogni notte fuori e tutto intorno le mura del palazzo.

Francesco, nelle gravi condizioni in cui si trovava, per dare conforto al suo spirito onde non venisse meno a causa delle aspre e diverse infermità si faceva cantare spesso durante il giorno dai compagni le Laudi del Signore, che lui stesso aveva composto, parecchio tempo prima, durante la sua malattia.

Le faceva cantare anche di notte, per dare un po' di sollievo alle scolte che vigilavano su di lui fuori del palazzo.

Frate Elia, vedendo che Francesco, in mezzo a così atroci sofferenze, attingeva dal canto coraggio e gaudio nel Signore, un giorno osservò: « Carissimo fratello, io sono assai edificato e consolato per la gioia che provi e manifesti ai tuoi compagni in questa dura sofferenza e malattia.

Gli abitanti di questa città ti venerano come santo in vita e in morte, certamente.

Però, siccome sono convinti che a causa di questa grande e incurabile infermità tra poco hai da morire, sentendo risuonare queste Laudi potrebbero pensare o dire fra sé: - Com'è possibile che uno, vicino a morire, esprima così viva letizia?

Farebbe meglio a pensare alla morte! - ».

Francesco gli rispose: « Ricordi la visione che avesti presso Foligno?

Mi dicevi allora che uno ti aveva rivelato che mi restavano da vivere soltanto due anni.

Ebbene, anche prima che tu avessi quella visione, per grazia dello Spirito Santo che suggerisce al cuore dei suoi fedeli ogni cosa buona e la pone sulla loro bocca, di frequente io pensavo alla mia fine, giorno e notte.

Ma dall'ora che ti fu comunicata quella rivelazione, ogni giorno mi sono preoccupato di prepararmi alla morte ».

Poi in un impeto di fervore continuò: « Fratello, lascia che io goda nel Signore e nelle sue Laudi in mezzo ai miei dolori, poiché, con la grazia dello Spirito Santo, sono cosi strettamente unito al mio Signore che, per sua misericordia posso ben esultare nell'Altissimo! ».

[1615] Coraggio di fronte alla realtà

65. Sempre in quei giorni, un medico di Arezzo, Buongiovanni, conoscente e amico di Francesco, venne a fargli visita nel palazzo.

Il Santo lo interrogò sulla propria malattia: « Che te ne pare, fratello Giovanni, di questa mia idropisia? ».

Invero, Francesco non voleva chiamare col loro nome quanti avessero nome " Buono", per riverenza al Signore che ha detto: Nessuno è buono, fuorché Dio solo.

Allo stesso modo, non voleva dare a nessuno il titolo di " padre " o di " maestro", né scriverlo nelle lettere, per rispetto al Signore che disse: Non chiamate nessuno " padre " sulla terra, né fatevi chiamare " maestri ", ecc.

Il medico rispose: « Fratello, con l'aiuto di Dio starai meglio ».

Non aveva il coraggio di dirgli che tra poco sarebbe morto.

Ma Francesco insistette: « Dimmi la verità, che cosa prevedi?

Non avere paura, poiché, con la grazia di Dio, non sono un codardo che teme la morte.

Per misericordia e bontà del Signore, sono così intimamente unito a Lui, che sono ugualmente felice sia della morte che della vita ».

Allora il medico gli disse schiettamente: « Padre, secondo la nostra scienza, la tua infermità è incurabile, e tu morrai tra la fine di settembre e i primi di ottobre ».

Francesco, che giaceva a letto ammalato, preso da ardente devozione e reverenza verso il Signore, stese le braccia con le mani aperte ed esclamò con viva gioia intima ed esteriore: « Ben venga la mia sorella Morte! ».

Indice