Teologia dei Padri

Indice

Vizi capitali e peccati principali

1. - Anche chi vive in grazia non è sicuro di salvarsi

L'uomo è fatto in modo tale che anche colui il quale sia immerso nel profondo dell'iniquità e sia schiavo del peccato, può tuttavia convertirsi al bene; così come, viceversa, persino chi sia avvinto dallo Spirito Santo e inebriato delle cose celesti, può volgersi verso il male.

Supponiamo, ad esempio, che una donna, vestita di stracci, affamata e sudicia, dopo aver conseguito con molti stenti la dignità regale, si adorni della porpora e della corona e divenga la sposa del re: costei, pur nella sua nuova condizione, si richiamerà alla memoria le antiche miserie e avvertirà la nostalgia di tornare alla situazione precedente, preferendo tuttavia mantenersi lontana, alla fine, dalla vergogna da cui è provenuta ( agire diversamente, infatti, sarebbe una dimostrazione di stoltezza ).

Ebbene, non diversamente, anche coloro i quali gustarono la grazia divina e divennero partecipi dello Spirito ( Eb 6,4 ), se non prestano ben attenzione, finiscono col decadere diventando peggiori di quando erano mondani.

E ciò accade non perché Dio sia mutevole o incoerente o perché si estingua lo Spirito Santo, ma in quanto sono gli uomini stessi a non accogliere la grazia: per questo essi tralignano e incorrono in innumerevoli peccati.

Coloro che abbiano gustato quel dono, infatti, hanno accanto a loro, come compagni, sia il gaudio e la consolazione che il timore e il tremore, sia l'esultazione che il lutto.

Tutti i discendenti di Adamo sono afflitti, poiché una sola è la natura degli uomini: le lacrime sono il loro pane, il dolore tiene il posto della dolcezza e della pace.

Se tu vedrai qualcuno insuperbirsi per il fatto di sentirsi partecipe della grazia, costui, sebbene compia miracoli e risusciti i morti, se non ha però un'anima abietta e umile, se non è povero in spirito e spregevole, è preda del male e non se ne rende conto: perciò, nonostante i suoi miracoli, non dovrai credergli.

Il contrassegno del cristianesimo, infatti, è questo: chi piace a Dio, cerca di nascondersi agli uomini; anche se possiede tutti i tesori di un re, egli li tiene nascosti e non fa che ripetere: « Il tesoro non è mio, ma un altro l'ha deposto presso di me: io, infatti, sono un mendicante e quando lo vorrà egli me lo toglierà ».

Se qualcuno, invece, afferma: « Sono assai ricco, possiedo beni, non ho bisogno di nient'altro », colui che si comporta a questo modo non è un cristiano, ma un diabolico vaso d'impostura.

Il godere di Dio, infatti, non è mai abbastanza e quanto più uno se ne sia nutrito e l'abbia assaporato, tanto più se ne sente affamato.

Coloro i quali si trovano, appunto, in una situazione del genere, nutrono un irrefrenabile ardore e amore nei confronti del Signore: quanto più essi si sforzano di progredire e di crescere, tanto più si stimano poveri, proprio come se fossero dei miserabili e non possedessero nulla.

Dicono questo, infatti: « Non sono degno di essere illuminato dai raggi di questo sole ».

Questo è il distintivo del cristiano: l'umiltà.

Perciò se uno dice: « Sono contento e sazio », è un ingannatore e un bugiardo.

Pseudo-Macario, Omelie spirituali, 15,36-38

2. - Il dovere dell'umiltà

Non vogliate rallegrarvi poiché gli spiriti vi obbediscono; ma godete poiché i vostri nomi sono scritti in cielo ( Lc 10,20 ): la prima cosa, infatti, avviene per virtù del Signore; la seconda, invece, si attua con il nostro impegno e la nostra volontà, sempre che sostenuti, evidentemente, da Dio.

Perciò non è necessario che ogni fedele esorcizzi o risusciti i morti o parli in lingue, ma unicamente colui che è stato ritenuto degno di tale carisma, in vista di un utile scopo: per la salvezza degli infedeli i quali spesso vengono convinti non dai discorsi, ma dai miracoli, qualora siano degni della salvezza …

Iddio consente, come un saggio amministratore, che si compiano dei miracoli: non, tuttavia, in virtù delle forze degli uomini, ma grazie alla sua volontà.

Abbiamo allora ricordato tutto ciò, affinché coloro i quali abbiano ricevuto carismi di tal genere, non si ritengano superiori a quelli che non ne hanno ricevuti …

Pertanto nessuno di coloro che compiono segni e portenti giudichi o condanni alcuno dei fedeli che non abbiano il dono di operare quelle medesime cose, giacché diversi sono i carismi di Dio, da lui ricevuti per il tramite di Gesù Cristo.

Perciò tu ne hai ricevuto uno, lui un altro: la sapienza o la scienza o la facoltà di discernere gli spiriti o la prescienza delle cose future o la capacità d'impartire un insegnamento o la pazienza o la continenza …

Nessuno di voi, perciò, sia profeta o sia taumaturgo, si ritenga superiore al fratello.

Se, infatti, non vi fosse, per combinazione, nessun altro infedele, non occorrerebbe allora più nessuna manifestazione prodigiosa.

L'essere pii, infatti, deriva dalla buona volontà di ciascuno; il compiere miracoli, invece, proviene dalla virtù di colui che opera: ora, la prima di queste cose riguarda noi; la seconda, invece, riguarda Dio, che opera per gli scopi dianzi citati.

Il comandante supremo, perciò, non giudichi punto gli ufficiali dell'esercito che stanno ai suoi ordini e le autorità civili non giudichino coloro che sottostanno ad esse.

Infatti, se non vi fossero coloro ai quali esse sono poste a capo, non esisterebbero neppure le autorità e se non vi fossero gli ufficiali subalterni, non esisterebbe il comando supremo.

Anzi, neppure il vescovo si ritenga superiore ai diaconi e ai presbiteri, né i presbiteri presumano di essere superiori al popolo; la Chiesa, infatti, è costituita da entrambi: i vescovi e i presbiteri debbono pur essere sacerdoti per alcuni; i laici debbono pur essere laici rispetto a qualcuno.

L'essere cristiani dipende da noi è vero; l'essere apostoli o vescovi o qualcosa del genere, però, non è in nostro potere, ma dipende da Dio in quanto elargitore dei carismi.

Tutto ciò è stato detto nell'interesse di coloro ai quali sono stati riservati simili carismi o dignità.

Costituzioni apostoliche, 8, 1,3-21

3. - La superbia origine di tutti i peccati

L'origine di ogni male è la superbia, perché la superbia è il maggiore di tutti i peccati.

Quando un medico comincia a seguire una malattia, se cura soltanto i suoi effetti e non cura la causa del male, la guarigione non sarà che temporanea, e, restando la causa, il male rinascerà.

Mediante un esempio, ve lo dirò ancora più chiaramente: l'umore che scorre nel corpo genera un'eruzione o un'ulcera; nel corpo si sviluppa una forte febbre, con forti dolori.

Il medico usa rimedi per calmare l'eruzione e sedare l'ardore dell'ulcera, e il rimedio ha effetto, perché vedete guarito l'uomo che era coperto di ulcere e di piaghe.

Ma, poiché non è stato sbarazzato di quell'umore che ha causato il male, di nuovo sarà coperto di ulcere.

Se invece il medico individua l'umore e ne libera il malato, cioè annulla la causa, non vi saranno più ulcere.

Perché la cattiveria è così frequente? Perché c'è la superbia.

Cura la superbia e non ci sarà nessuna cattiveria.

Perché fosse curata la causa di tutti i mali, cioè la superbia, si abbassò e si fece umile il Figlio di Dio.

Di che ti inorgoglisci, uomo? Dio si è fatto umile per te.

Se forse ti vergogni di imitare un uomo umile, non arrossire nell'imitare l'umiltà di Dio.

Dio venne qui in forma umana e si fece umile: ebbene, ti è ordinato di farti umile, non di ridurre ad animale l'uomo che tu sei.

Egli, cioè Dio, si è fatto uomo; tu, uomo, riconosci che sei uomo; poiché la tua umiltà consiste nel riconoscere ciò che sei.

É per insegnarci l'umiltà che il Signore disse: « Non venni per fare il mio volere, ma il volere di colui che mi ha mandato ».

Questo è un insegnamento d'umiltà.

La superbia fa il suo, l'umiltà fa il volere di Dio.

Per questo « chi verrà a me io non lo caccerò fuori ».

Perché? Perché « io non sono venuto per fare il mio volere, ma il volere di colui che mi ha mandato »

Cioè venni umile, venni per insegnare l'umiltà, venni come maestro di umiltà: chi viene a me entra dentro di me, e perciò si fa umile.

E chi si unisce a me, sarà umile perché non fa la volontà sua, ma quella di Dio, e io non lo caccerò fuori, come se fosse un superbo.

Agostino, Commento al Vangelo di san Giovanni, 25,16

4. - La cupidigia della gloria e la brama di dominare paragonate alla vera pietà

Vi è certo una netta distinzione fra la cupidigia della gloria umana e la brama di dominare.

Quantunque infatti sia facile che chi troppo si diletta nella gloria umana brami anche ardentemente di dominare, quelli però che desiderano il vanto delle lodi, quantunque semplicemente umane, curano con attenzione di non dispiacere a coloro che li giudicano.

E vi sono non poche virtù morali che molti giudicano bene, quantunque non le abbiano; per mezzo di queste tendono alla gloria, a dominare e a comandare, quelli, di cui Sallustio [ Catilina, XI, 2 ] dice: « Ma quegli tende per la retta via ».

Chi invece, pur privo della brama di gloria per cui l'uomo teme di dispiacere a chi lo giudica, desidera tuttavia dominare e comandare, tenta di ottenere ciò che desidera, per lo più, anche con palesi scelleratezze.

Dunque, chi desidera la gloria, o vi tende per la « vera via », oppure cerca di ottenerla con l'inganno e la menzogna, volendo apparire buono, mentre non lo è …

Chi invece è avido di dominare, disprezzando la gloria, supera gli stessi animali nei vizi, sia della crudeltà, che della lussuria.

E così furono alcuni romani; essi infatti, trascurando ogni estimazione, bramavano cupidamente di dominare.

Molti furono tali, come ci tramanda la storia, ma la vetta, la rocca, direi, di questo vizio fu raggiunta per primo da un certo Nerone imperatore; egli fu tanto lussurioso che, se non lo si conosceva, non si sarebbe pensato di dover temere da lui nessun atto virile; e fu tanto crudele che non si sarebbe creduto potesse avere alcunché di effeminato.

Eppure nemmeno a costoro viene dato il potere di dominare se non dalla provvidenza del sommo Iddio, quando giudica il mondo umano degno di tali dominatori.

É chiara la voce divina su ciò, perché la sapienza di Dio dice: Per me i re regnano e i tiranni per me possiedono la terra ( Pr 8,15 ) …

Perciò tutti coloro che sono intimamente religiosi ritengono che nessuno può avere la virtù vera senza la vera pietà, cioè il vero culto di Dio; e che non è vera la virtù, quando serve alla gloria umana.

Se hanno tuttavia una virtù di questo genere, coloro che non sono cittadini della città eterna - quella che nelle nostre sacre Scritture viene detta città di Dio -, essi sono più utili alla loro città terrena che se non l'avessero.

Quando poi coloro che sono virtuosi e vivono la pietà vera hanno la scienza necessaria per reggere i popoli, nulla è più felice per le cose umane se proprio essi, per misericordia di Dio, godono di potere.

Questi uomini non attribuiscono le loro virtù, per quante ne possano avere in questa vita, se non alla grazia di Dio, che le ha loro concesse per i loro desideri, la loro fede e le loro preghiere; essi sanno anche quanto distano ancora da quella perfezione di giustizia che è richiesta dalla convivenza con i santi angeli, di cui desiderano rendersi degni.

Per quanto infine si lodi e si esalti la virtù che, priva di vera pietà, serve alla gloria umana, essa non è neppure da paragonare con i primi inizi di quella dei santi, la cui speranza è tutta riposta nella grazia e nella misericordia di Dio.

Agostino, La città di Dio, 5,19

5. - Gloria presso gli uomini e gloria presso Dio

Dopo che i regni dell'Oriente ebbero avuto a lungo grande splendore, Dio volle che si costituisse un regno occidentale, posteriore nel tempo ma più splendente per la vastità e la grandezza del suo potere.

Per domare i gravi mali che affliggevano molte genti, lo affidò per lo più a uomini che, assetati di gloria, si dedicarono tutti al bene e allo splendore della patria, in che facevano consistere il proprio onore; non dubitarono di preporre la salvezza della patria alla loro stessa vita, e per questo unico vizio, cioè per amore della lode, repressero la brama di ricchezza e molti altri propri vizi.

Certo, chi osserva con occhio sano, comprende che l'amore della lode è un vizio …

Certo, coloro che frenano le libidini più turpi non per religiosità e fede, supplicando lo Spirito Santo e amando la bellezza intelligibile, ma piuttosto per brama di lode e gloria umana, non sono certo santi, ma sono meno turpi.

Anche Tullio [ Marco Tullio Cicerone, De republica, V, 7,9 ], non poté negare ciò nei libri che scrisse sulla Repubblica, ove parla di istituire, nella città, il principe, che - dice - deve essere sostenuto con l'onore; e ricorda, in seguito, che i suoi antenati compirono azioni mirabili e splendide per brama di gloria.

Non si opponevano dunque a questo vizio, ma pensavano di doverlo eccitare e accendere, ritenendolo utile alla repubblica.

Poi, però, nei libri più propriamente filosofici Tullio non nasconde questa peste, ma ne parla più chiaro della luce: discutendo degli sforzi da compiere per ottenere il vero bene, e non la morbosa lode umana, porta questa massima [ Marco Tullio Cicerone, Tusculanae, I, 2,4]  generale e universale: « L'onore alimenta le arti e tutti si accendono agli studi per la gloria; languisce sempre ciò che dai più non viene stimato ».

É meglio dunque, senza dubbio, opporsi a questa brama piuttosto che assecondarla, perché si è tanto più simili a Dio, quanto più purificati da tale immondizia.

E anche se durante questa vita non la si sradica completamente dal cuore - dato che mai cessa di tentare l'animo anche dei più perfetti -, tuttavia la brama della gloria venga dunque superata dall'amore per la giustizia così che, se si trova pur giacente in qualche parte ciò che è retto, ciò che è buono « che dai più non viene apprezzato », anche lo stesso amore della lode umana arrossisca e ceda all'amore della verità.

Questo vizio infatti è così ostile alla religiosità e alla fede - almeno se nel cuore la cupidigia della gloria è maggiore del timore di Dio o del suo amore - che il Signore disse: Come potete credere, voi che vi aspettate la gloria a vicenda, e non ricercate la gloria che viene da Dio solo? ( Gv 5,44 ).

Così, parlando di alcuni che credevano in Cristo ma temevano di confessarlo apertamente, l'evangelista dice: Amarono la gloria degli uomini più della gloria di Dio ( Gv 12,43 ).

Non agirono certo così i santi apostoli.

Quando predicavano il nome di Cristo ove non solo era trascurato, ma anche sommamente detestato, tra le maledizioni e gli obbrobri, tra gravissime persecuzioni e pene crudeli, non cessarono di predicare la salvezza dell'uomo, per timore, pur tra tanto fremito di umane offese, tenendo sempre presente ciò che avevano udito dal maestro buono e dal medico delle anime: Se qualcuno mi negherà davanti agli uomini, lo negherò davanti al Padre mio che è nei cieli ( Mt 10,33 ), oppure davanti agli angeli di Dio ( Lc 12,9 ).

Quando poi, per le loro opere e parole divine e per la loro vita divina, sconfitti, per così dire, i cuori duri e consolidata la pace della giustizia, essi conseguirono nella Chiesa di Dio una grande gloria, non si adagiarono in lei quasi fosse lo scopo della loro virtù, ma, riferendola alla gloria di Dio - per cui grazia erano tali - con la loro stessa fiamma accendevano i loro ascoltatori all'amore di colui che li aveva resi tali.

Di non essere virtuosi per gloria umana li aveva ammaestrati il loro maestro dicendo: Badate di non compiere le vostre opere giuste davanti agli uomini, per essere veduti da loro; altrimenti non avrete la mercede davanti al Padre vostro che è nei cieli ( Mt 6,1 ).

Tuttavia, perché interpretando male tale sua espressione, essi non temessero di piacere agli uomini e meno frutti raccogliessero nascondendo la loro bontà, spiegando loro con quale fine dovessero farla conoscere egli disse anche: Risplendano le vostre opere davanti agli uomini, perché vedano le buone azioni vostre e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli ( Mt 5,16 ).

Non dunque « perché siate visti da loro », con l'intenzione di convertirli a voi, perché se siete qualcosa, non lo siete da voi; ma « perché glorifichino il Padre vostro che è nei cieli », convertendosi al quale diventino quello che voi siete.

Costoro furono seguiti poi dai martiri che, non infliggendosi pene, ma sopportandole, superarono - per la loro virtù vera, perché fondata sulla religiosità, e per il loro numero incalcolabile - gli Scevola, i Curzi e i Deci.

Costoro, del resto, appartenevano alla città terrena e il fine di tutti gli obblighi che si erano imposti erano il bene di quella città, il regno non nel cielo, ma sulla terra, non nella vita eterna, ma nella successione delle generazioni che muoiono una dietro l'altra.

Cosa altro avrebbero potuto amare, se non la gloria dalla quale speravano quasi di vivere ancora, dopo la morte, sulla bocca dei loro ammiratori?

Dio non volle dunque concedere ai romani la vita eterna con i suoi angeli nella sua città celeste, di cui ci fa cittadini la religiosità vera, quella che non presta culto di adorazione - chiamato, alla greca, latria - se non al solo Dio vero.

Se dunque egli non avesse concesso loro la gloria terrena di un impero splendidissimo, non avrebbe ricompensato le loro buone arti, cioè le loro virtù, per le quali si sforzarono di giungere a tanta gloria.

Di coloro, infatti, che sembra facciano qualcosa di bene per venir glorificati dagli uomini, il Signore ci dice: In verità vi dico, hanno ricevuto la loro mercede ( Mt 6,2 ).

E i romani disprezzarono i loro interessi privati per quelli comuni, cioè per la repubblica e il suo erario; resistettero all'avarizia, si diedero pensiero della patria con tutta spontaneità; non si macchiarono, secondo le loro leggi, né di delitti, né di libidine.

Con tutte queste arti tendevano, come su una via maestra, agli onori, al dominio e alla gloria: sono stati onorati fra quasi tutte le genti; hanno imposto il dominio delle loro leggi su molte genti; anche oggi nelle lettere e nella storia sono gloriosi quasi fra tutte le genti.

Non hanno dunque nulla da lamentarsi della giustizia del sommo e vero Iddio: « Hanno ricevuto la loro mercede ».

Ma la mercede dei santi, che sostengono quaggiù obbrobri per la città di Dio, tanto odiata dagli amanti di questo mondo, è ben diversa.

Quella città lassù è sempiterna: là nessuno nasce, perché nessuno muore; là vive la felicità vera e piena, che non è un idolo, ma dono di Dio; di là ci viene elargito il pegno della fede fino a quando, pellegrini quaggiù, sospiriamo alla sua bellezza, ivi il sole non sorge sui buoni e i cattivi, perché il sole della giustizia illumina solo i buoni; là non vi è il grosso problema di rimpinguare l'erario pubblico con l'austerità della vita privata, perché tesoro comune è lassù la verità.

Per concludere, non solo perché fosse resa la mercede a tali uomini l'impero romano giunse a tanta gloria umana, ma anche perché i cittadini di quella città eterna, mentre sono pellegrini quaggiù, contemplino con diligenza e attenzione i loro esempi e vedano quanto amore meriti la patria superna, per la vita eterna, se la città terrena è tanto amata dai suoi cittadini, per la gloria umana.

Agostino, La città di Dio, 5,13-16

6. - La Chiesa viene distrutta dal fuoco dell'ambizione

L'ambizione mise sottosopra tutte le cose e riempì non soltanto il mondo, ma anche la Chiesa di innumerevoli tumulti.

Allo stesso modo come dei venti impetuosi e violenti, irrompendo in un tranquillo porto, lo rendono più pericoloso di qualsiasi frana o tempesta; parimenti, una volta che ebbe fatto la sua irruzione il desiderio della gloria, esso sconvolse e confuse tutte le cose.

Certamente avrete assistito spesso all'incendio di grandi case.

Avete veduto come il fumo sale verso il cielo, mentre nessuno si avvicina a estinguere il danno, ma il fuoco consuma indisturbato l'intera proprietà?

Sovente tutta la città si mette lì attorno a contemplare la sciagura, senza che nessuno si adoperi a recare il minimo aiuto.

Eccoli tutti là intorno: non fanno nulla, ma ognuno stende il suo braccio per mostrare a chi è appena arrivato una lampada che precipita da una finestra o le travi che si sfasciano oppure il muro di cinta, intatto, che si stacca dai sostegni e crolla al suolo.

Vi sono, a ogni modo, anche molte persone audaci e pronte a gettarsi nel pericolo, le quali, tuttavia, se osano avvicinarsi agli edifici che ardono, non è per dare una mano a spegnere il fuoco, ma soltanto perché lo spettacolo sia più divertente lì donde essi possono vedere tutto ciò che rimane nascosto a chi è più distante.

Orbene, anche se quella casa era grande e splendida, lo spettacolo che si para adesso dinanzi agli occhi è miserevole e degno di molte lacrime: i capitelli delle colonne ridotti in polvere, anche molte di queste distrutte, alcune a causa del fuoco, altre sovente a motivo dell'imperizia dei costruttori.

Si possono altresì vedere, attraverso il tetto scoperchiato, gli affreschi che adornavano le pareti rimasti allo scoperto senza più alcuna bellezza.

Chi potrebbe, poi, descrivere le ricchezze che si trovavano racchiuse lì dentro: vesti d'oro, vasi d'argento?

Ebbene, laddove entrava soltanto il padrone di casa con sua moglie, dove si trovava il segreto ripostiglio di tanti vestiti e profumi e gemme, i bagnini, gli immondezzai e tutti gli altri servi in fuga vedono ogni cosa in un unico rogo.

Tutto ciò che si trovava all'interno è diventato acqua e fuoco e fango e polvere e legna semibruciata.

Ma perché proseguire oltre con questa immagine?

Intendo, infatti, non descrivere l'incendio di una casa ( e che me ne importa? ), ma raffigurare piuttosto dinanzi agli occhi vostri, per quanto possibile, i mali della Chiesa.

La cupidigia, infatti, ha fatto la sua irruzione nella Chiesa come un fulmine che si abbatte dall'alto: entrando attraverso il tetto, non ha spaventato nessuno poiché, mentre la casa paterna brucia, noi dormiamo un sonno inerte e profondo.

Che cosa non ha divorato, infatti, questo fuoco?

Quali immagini che si trovano nella Chiesa non ha distrutto?

La Chiesa, infatti, non è altro che la casa costruita per le anime nostre.

Essa, d'altronde, non è tutta di pari dignità: delle pietre che la compongono, infatti, alcune sono splendide e lucide, altre più deteriori, ma a loro volta assai più pregiate di altre ancora.

Molte di queste, poi, sono costituite addirittura dall'oro che è posto ad ornamento del tetto; altre hanno la funzione di decorare le pareti come gli affreschi delle case; molte, infine, assolvono il compito delle colonne.

Infatti, gli uomini sono soliti chiamare « colonne » gli elementi che non soltanto con la loro potenza, ma anche con la bellezza producono un ricco ornamento con i loro capitelli dorati.

Si può altresì vedere una folla che si estende lungamente e occupa un notevole spazio: questa moltitudine, infatti, tiene il posto delle pietre che costituiscono le mura dell'edificio.

É ormai tempo di giungere a un'immagine ancora più splendida.

Questa Chiesa non è costituita da pietre qualsiasi, bensì d'oro e d'argento e di pietre preziose e dappertutto c'è oro a profusione.

Ma che dolore, ahimè! La tirannia della vanagloria ha bruciato tutte queste cose, divorando tutto con la sua fiamma, senza che nessuno sia riuscito a domarla; e noi restiamo qui a contemplare l'incendio, ancora incapaci di rimediare al danno.

Infatti, se anche per breve tempo lo estinguessimo, dopo due o tre giorni, dalla cenere si riaccenderebbe la scintilla e distruggerebbe nuovamente anche ciò che prima ha risparmiato.

Accade anche qui come negli incendi.

Il motivo di tutto ciò risiede nel fatto che hanno ceduto i sostegni delle colonne stesse della Chiesa, che reggevano il tetto, giungendo a circondare di fuoco tutto l'edificio che prima tenevano insieme.

Per questo l'incendio si è facilmente trasmesso anche a tutte le altre pareti.

Negli edifici, infatti, una volta infiammato il legno, il fuoco attacca con maggiore facilità le pietre; e quando poi la fiamma abbia attaccato le colonne e le abbia gettate a terra, allora non v'è neppure più bisogno del fuoco per compiere il resto.

Quando, infatti, cedono gli elementi principali che sostengono e puntellano, tutti gli altri tengono dietro con la massima facilità.

Così è avvenuto adesso nella Chiesa: il fuoco divora tutte le cose.

Cerchiamo onori dagli uomini e siamo accesi dal desiderio della gloria …

Grande è stata la violenza di questo male: tutto è stato distrutto e annientato.

Messo da parte Dio, siamo diventati servi della gloria umana; non possiamo più giudicare coloro che sottostanno a noi, dal momento che siamo noi stessi ad essere posseduti dalla medesima febbre: anche noi, dopo esser stati preposti da Dio a guarire gli altri, abbiamo bisogno della stessa medicina.

Quale speranza di salvezza può mai persistere, dal momento che coloro stessi che hanno la funzione di medicare hanno bisogno dell'aiuto altrui?

Non a sproposito ho detto tutto ciò, e non mi lamento senza motivo, ma affinché tutti assieme, con le mogli e i figli, cosparsoci il capo di cenere e rivestiti di sacco, ci applichiamo al digiuno, pregando Dio di aiutarci ad estinguere il male.

Abbiamo davvero bisogno dell'aiuto della sua mano grande e mirabile …

Facciamolo sia io che voi: distogliamoci dall'amore del denaro e della gloria, chiedendo a Dio di porgerci una mano e di raddrizzare le membra cadute.

Non esitiamo a farlo: mentre prima, infatti, stavano per crollare pietre e legni ed erano i corpi a correre il pericolo di essere annientati, adesso invece nulla di tutto questo, ma sono piuttosto le anime ad esser trascinate verso la geenna del fuoco.

Preghiamo dunque Dio, a lui confessiamo i delitti commessi.

Giovanni Crisostomo, Omelie sulla lettera agli Efesini, 10,2-3

7. - La miseria della gloria umana

Nulla è più miserevole della gloria umana.

Dimmi, infatti: se tu vedessi una folla di lattanti, desidereresti forse esser stimato da loro?

Ebbene, comportati nel medesimo modo, per quanto concerne la gloria, nei confronti di tutti gli uomini.

Non per nulla si chiama « vanagloria ».

Hai presenti le maschere che si mettono gli attori sulla scena: come sono belle, splendide e ben fatte?

Ciò nonostante, me le puoi forse paragonare ai volti veri? Assolutamente no.

Forse ti sei mai innamorato di una di esse? No di certo.

E perché mai? Perché esse sono vani oggetti: imitano la bellezza, ma non la posseggono veramente.

Ebbene, non diversamente, anche questa gloria è vana e imita quella gloria, ma gloria non è.

É duratura soltanto la bellezza interiore e naturale; quella esteriore, invece, nasconde sovente la deformità: la nasconde, per meglio dire, agli occhi degli uomini, e fino alla sera; finita la rappresentazione, però, e tolte le maschere, ciascuno appare com'è.

Non andiamo dunque verso la verità come su un palcoscenico di attori.

Dimmi, infatti: che cosa c'è di bello nell'essere contemplati da una folla?

Non è altro che vanagloria: torna a casa, rimani solo e tutto fugge via.

Sei entrato nel foro, hai fatto voltare verso di te quelli che c'erano? E poi?

Niente più: la gloria se n'è andata come il fumo che vola via.

Amiamo dunque cose così instabili?

Ma non è forse ciò, dimmi, una manifestazione di follia e di stoltezza?

Miriamo perciò ad una cosa soltanto: come Dio possa lodarci.

Se cercheremo questo, mai ci rivolgeremo verso le cose umane; anzi, ove queste vi fossero, noi le disprezzeremmo, le irrideremmo, le respingeremmo; come se, desiderando l'oro, ottenessimo il fango, non muterebbe per questo la nostra disposizione.

Che nessuno ti lodi! Infatti, non ti è di giovamento, così come non ti nuoce se qualcuno ti insulta.

Entrambe le cose, infatti, davanti a Dio, possono essere un guadagno o una perdita, mentre tutto ciò che proviene dagli uomini è vano.

In questo, per di più, noi siamo simili a Dio, poiché neppure lui ha bisogno della gloria degli uomini.

Egli afferma, infatti: Non ricevo gloria dagli uomini ( Gv 5,41 ).

E ti sembra poco questo, ti domando?

Quando avverti difficoltà a disprezzare la gloria, di' a te stesso: « Se la disprezzerò, sarò uguale a Dio », e la disprezzerai immediatamente.

Non può accadere, infatti, che colui che è servo della gloria umana, non sia allo stesso tempo servo di tutte le cose e più servile degli stessi schiavi …

Fuggiamo, dunque, fuggiamo una simile schiavitù, te ne prego.

Come possiamo, dirai? Se noi riflettessimo a fondo intorno alle cose di questo mondo, se considerassimo che le realtà presenti sono sogno e ombra, e nient'altro, facilmente la supereremmo e non saremmo attratti né dalle cose piccole né da quelle grandi.

Se, invece, non disprezziamo neppure le cose da poco, certo facilmente siamo poi sedotti da quelle più grandi.

Giovanni Crisostomo, Omelie sulla lettera a Tito, 2,4

8. - L'ambizione dei servi di Dio

Se volete possedere la gloria, disprezzatela e allora diverrete veramente i più illustri di tutti.

Perché volete comportarvi come si comportò Nabucodonosor?

Egli, infatti, si fece innalzare una statua; immaginava così che quella statua, pur essendo di materia e certo senza vita, avrebbe accresciuto il suo onore; e, sebbene egli fosse vivo e quell'immagine fosse inerte, credeva di apparire con ciò più glorioso.

Chi non vede l'enormità della sua pazzia?

Costui, pensando di procurarsi onore, si attira piuttosto un insolente disprezzo.

Egli ripone la sua fiducia in una cosa inanimata, invece di riporla in se stesso, vivo e dotato di anima; e perciò innalza a grande dignità quella statua: così si rende ridicolo, in quanto spera di acquistare stima per mezzo di una materia vile anziché per mezzo delle sue opere e del suo comportamento.

É come se un uomo si credesse più degno di stima per il pavimento e per la bella scala che possiede in casa, anziché per il fatto di essere un uomo.

Eppure molti di noi, anche oggi, imitano quel re.

E come quello voleva farsi apprezzare per mezzo di una statua, così costoro desiderano farsi ammirare per i loro abiti o per le loro case, per i loro muli e i loro cocchi, per le colonne delle loro ville.

Quando hanno perduto la loro dignità di uomini, ecco che essi cercano ad ogni costo altrove una gloria miserabile e degna d'ogni disprezzo.

Non per queste cose, ma per altre ben più apprezzabili, quei tre nobili e generosi servi di Dio rifulsero un tempo ( Dn 3,8ss ).

Prigionieri, schiavi, giovani, stranieri e privi di tutti i beni che potevano provenire dalla patria, essi parvero assai più dignitosi e splendidi di coloro che pur possedevano ogni bene.

A Nabucodonosor non bastarono quella statua, i governatori, gli ufficiali, gli innumerevoli soldati, l'immensa quantità d'oro e ogni altra fastosa ricchezza per saziare la sua avidità e per farlo apparire più grande.

Per quei tre giovani, invece, che erano stati spogliati di tutto, fu sufficiente il solo amore della sapienza, che li rese, pur poveri d'ogni cosa, assai più splendidi di quel re ornato di porpora e di diadema: essi parvero come la luce del sole in confronto a una pietra.

Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo di san Matteo, 4,10

9. - Ricerca dell'applauso e della lode

Ispirandomi il tuo timore, soffocasti la mia superbia, rendesti mansueta la mia cervice al tuo giogo.

Ora lo porto, e mi è lieve …

Ma davvero, Signore, che sei il solo a signoreggiare senza burbanza, perché sei il solo vero Signore senza signori, davvero mi sono liberato anche da questo terzo genere di tentazione, se mai si può esserne liberati in tutta questa vita: ossia dal desiderio di farsi temere e amare dagli uomini, senz'altro motivo, se non di trarne un godimento che non è un godimento?

Misera vita, lurida iattanza.

Di qui soprattutto deriva l'assenza di amore e timore innocente per te, e quindi tu resisti ai superbi, mentre agli umili accordi favore ( 1 Pt 5,5 ); tuoni sulle ambizioni mondane, e tutte tremano le fondamenta delle montagne ( Sal 18,8 ).

Certi impegni del consorzio umano ci costringono a farci amare e temere dagli uomini; quindi l'avversario della nostra vera felicità, il demonio, incalza e dissemina ovunque i lacci dei « bravo, bravo! », per prenderci a nostra insaputa mentre li raccogliamo con avidità, per staccare la nostra gioia dalla tua verità e attaccarla alla menzogna degli uomini, per farci gustare l'amore e il timore non ottenuti in tuo nome, ma in tua vece, per averci, simili così a se stesso, con sé, non concordi nella carità, ma consorti nella pena.

Decise di fissare la propria sede nel settentrione, affinché gli uomini servissero questo tuo perverso e deforme imitatore in una gelida tenebra.

Ma noi, Signore, siamo, ecco, il tuo piccolo gregge ( Lc 12,32 ).

Tienici, dunque, stendi le tue ali, e ci rifugeremo sotto di esse.

Sii tu la nostra gloria.

Ci si ami per te, e in noi sia temuta la tua parola.

Chi vuole la lode degli uomini col tuo biasimo, non sarà difeso dagli uomini al tuo giudizio, né sottratto alla tua condanna.

Quando non si loda un peccatore per le brame della sua anima e non si benedice un ingiusto ( Sal 10,3 ), bensì si loda un uomo per qualche dono ricevuto da te, se costui si rallegra della lode più del possesso del dono per cui è lodato, anche costui è lodato con biasimo, ed è migliore chi loda di chi è lodato.

Al primo piacque in un uomo il dono di Dio, al secondo piacque maggiormente il dono di un uomo che quello di Dio.

Agostino, Le Confessioni

10. - Il lusso nel vestire è indizio di nudità spirituale

Il dottore universale, rivolgendo il suo discorso alle donne, esorta: Non si ornino di riccioli né d'oro né di perle né d'un abito sontuoso ( 1 Tm 2,9 ).

Vedi come egli non vuole che le donne si adornino di tali cose né si circondino d'oro o di perle o di una veste sontuosa, ma, al contrario, rechino nell'anima il vero ornamento e, per mezzo delle opere buone, le conferiscano bellezza, affinché essa non rimanga sordida, squallida, cenciosa, affamata e intirizzita dal gelo?

Questa premura di adornare il corpo, infatti, fa trapelare la bruttezza dell'anima; mentre i piaceri del corpo, dal canto loro, significano chiaramente che l'anima muore di fame; il vestito indossato dal corpo, infine, manifesta la nudità dell'anima.

Non può accadere, infatti, che colui che abbia cura dell'anima e della sua bellezza e si dia da fare per questo tenga in eccessiva considerazione la bellezza esterna; così come, d'altra parte, è impossibile che colui che si preoccupa dell'aspetto esterno, dello splendore delle vesti e dell'ornamento d'oro, si prenda poi cura dell'anima.

Come potrebbe, infatti, un'anima come questa interessarsi di qualcosa di proficuo o pervenire addirittura alla contemplazione delle realtà spirituali, dal momento che essa, da quando ha intrapreso a consacrarsi alle cose terrene, striscia, per così dire, sulla terra?

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 37

11. - L'avarizia è una maledizione per i ricchi e per i poveri

Potessero tutti gli uomini spogliarsi dell'amore per l'avarizia con quella facilità con cui la biasimano!

Ma essa è un'incantatrice, un dolce male; è perciò una maledizione per l'umanità tutta, in ogni tempo.

In coloro che non hanno ricchezza alcuna essa infonde un'ardente brama di possesso; a coloro invece che ne hanno, essa non permette che ne possano godere.

Così essa tutti travolge nella tempesta di una passione vana, tanto che non si sa se è più grande in questi o in quelli.

É come un fuoco che ha trovato alimento in paglia secca e che non si spegne fin che l'ha divorata tutta.

Coloro che vivono in condizioni discrete, indulgono ad essa con gli inganni; i ricchi, con la mancanza di ogni modestia; i giudici, con la parzialità; gli oratori, con la prontezza a ogni discorso venale; i re, con la prepotenza; i mercanti, con l'imbroglio; i poveri, con desideri vani; tutti i popoli e le nazioni, con la guerra.

Come imperversa pazzamente sulla faccia della terra, tutto bruciando ed escogitando nuovi e vari stratagemmi!

Non conosce riposo, né di giorno, né di notte; né in pace, né in guerra.

Nulla le basta mai, anzi, più grande è il guadagno, più essa si sente misera.

L'avarizia rappresenta una specie nuova di male, perché cresce sempre e non muore mai.

Non riescono ad abbatterla né l'amore dei genitori, né la tenerezza dei bimbi, né l'affetto degli sposi, né l'intimo legame dei fratelli, né il diritto dell'amicizia, né il rispetto delle buone maniere, né la triste sorte delle vedove, né la miseria dei poveri, né il pensiero di Dio: tutto ciò essa lusinga o danneggia con tutti i mezzi possibili, purché le sia dato togliere agli altri ciò che posseggono.

Certo, come potrebbe aver riguardo di qualcuno essa, che in ogni tempo è pronta ad angustiarsi fino alla morte per un meschino e dannoso guadagno? Povero uomo!

Perché ti tormenti con inutili cure per la tua brama ardente e vana d'oro e d'argento?

Perché accumuli grandi masse di denaro?

Perché cerchi di riporre, con eccitazione incessante e vana, cose su cose, che pur un giorno dovrai lasciare qui, perfino senza averne in qualche modo goduto?

Per di più, tu ti lamenti della tua miseria, tu che neppure sai ciò che possiedi!

Qualunque cosa tu possa fare, nulla di tutto ciò porterai un giorno con te nell'aldilà.

O cristiano, se debbo dire la verità: tu abomini l'oro e l'argento sugli idoli, ma non nel tuo cuore!

Eppure vedi che sui pezzi d'oro e d'argento coniati in rotonde monete, vi sono le immagini e i segni dei re, come nei templi; e non vi è affatto differenza se nella tua casa queste immagini sono più piccole e nei templi più grandi.

Se tu spendi queste monete, esse sono denaro; ma se tu le accumuli, sono immagini idolatriche.

E tu, serva di Cristo, anche la tua detestazione per l'immagine idolatrica è un inganno.

Credimi: tu le presti adorazione interna, se non deponi gli ornamenti che sono il suo riflesso.

Tu te ne vai alla chiesa del Signore col corpo coperto d'oro e di monili, fai fatica a portare quel metallo maledetto e tu, che in altre circostanze sei tanto sensibile, sotto il peso dei monili sei dura.

E così non puoi inginocchiarti nella preghiera, perché il tuo vestito non si gualcisca, non puoi alzare le braccia e ti guardi bene di prostrare a terra il tuo petto che nuota tra i monili.

Quando poi fai la confessione dei tuoi peccati, pieghi certo le spalle: non per umiltà, ma per il peso che le opprime: ti dai più cura per i tuoi vezzi, che per la salvezza della tua anima.

Cosa credi di ottenere da Dio, se la tua preghiera si compie proprio con quegli oggetti che egli ha in odio?

Apri dunque gli occhi del tuo cuore e vedrai certo che il tuo pregare è più un'offesa che una preghiera a Dio.

E infine, fratelli, la donna che non teme Cristo, non teme neppure il suo uomo.

Da ciò deriva che gli sposi, in pieno contrasto con il santo vincolo matrimoniale, curano solo il loro proprio interesse e ciascuno - evidentemente per immenso amore! - tiene d'occhio l'eredità dell'altro.

Da ciò deriva che i genitori odiano i loro figli e i figli i loro genitori; che l'amicizia lusinga gli occhi, ma non vive nel cuore.

Da ciò deriva che tutta l'umanità si rallegra per la sua rovina e per la sua infelicità, stimando l'anima meno del denaro; da ciò deriva che la giustizia, l'onoratezza, la pietà, la fede, la verità vanno in rovina; che Dio stesso in ogni momento riceve oltraggio, perché i suoi comandi vengono disprezzati, e a lui si preferiscono i gingilli e l'amore del mondo.

In ogni peccato, in ogni delitto, in ogni prava azione, in ogni ingiustizia è presente - senza dubbio alcuno - un uomo, il cui cuore è pieno della vampa nefasta di un'ingordigia insaziabile.

Giustamente Dio odia l'avarizia: è una brama senza fondo, una cupidigia cieca, una passione pazza, un desiderio di rapina che non ha confine, una tensione che non trova pace, che non giunge mai alla fine delle sue brame, che non conosce contento.

Spezza la fedeltà, spegne ogni sentimento, pone se stessa al di sopra dei diritti divini e, con argomentazioni cavillose, riduce a nulla ogni diritto umano e, se le fosse possibile, usurperebbe il mondo intero.

Zenone di Verona, L'avarizia, 1,10,1-4; 1,11

12. - Avarizia anche tra gli asceti

Cosa devo dire di questa ridicolaggine?

Vediamo che alcuni, dopo l'ardore di quella prima rinuncia per il quale abbandonarono i loro averi, grandi ricchezze e gli affari del secolo e si rinchiusero nei monasteri, ora sono tanto presi dalla cura delle cose, per quanto piccole e vili, cui non si può del tutto rinunciare e che, anche in questo santo stato, è necessario possedere, da superare la passione che prima li legava alle loro grandi ricchezze.

A costoro certo non gioverà molto aver disprezzato ricchezze e beni maggiori, perché l'affetto che a quelle li legava si è ora riversato in oggetti piccoli e miseri.

Non possono più orientare il loro vizioso sentimento di cupidigia e di avarizia verso oggetti preziosi, e allora lo fermano su oggetti vili e danno così prova di non aver strappato da sé l'antica passione, ma di averla solo mutata.

La loro grande diligenza nel curare un materasso, un cestello, un sacco, un codice, una stuoia o altre cose simili, per quanto vili, mostra che sono avvinti dallo stesso vizio che prima li inceppava.

Anzi, custodiscono e difendono queste piccole cose con tanto ardore, da non vergognarsi per quelle di irritarsi e, cosa ancor più turpe, anche di litigare con i loro fratelli.

Soffrendo ancora, per queste piccole cose, della loro precedente cupidigia, non si accontentano di avere nel numero e nella misura comune ciò che la necessità stessa esige che i monaci posseggano e usino; e inoltre rivelano la loro intima avarizia o perché desiderano avere più degli altri ciò che è necessario, o perché, per esagerata cura, custodiscono in modo particolare e con la massima attenzione, e sottraggono all'uso degli altri, ciò che dovrebbe essere comune a tutti i fratelli …

Che differenza c'è se qualcuno si lascia tentare dalla cupidigia per oggetti ricchi e copiosi, oppure per oggetti miseri e vili?

Anzi, è da stimare più biasimevole chi, disprezzate le cose grandi, si lascia legare dalle piccole.

Questo tipo di rinuncia perciò non porta alla perfezione del cuore: per censo sarà povera, ma non rigetta la volontà della ricchezza.

Giovanni Cassiano, Conferenze, 4,21

13. - Stoltezza della cupidigia

Se aspetti la risurrezione e il premio, perché cerchi la gloria nella vita presente?

Perché, dimmi, ogni giorno ti crucci, raccogliendo più soldi dei granelli di sabbia, acquistando campi e case e bagni e impadronendoti sovente di queste cose con la rapina e l'avarizia, incorrendo con ciò nella maledizione del profeta: Guai a coloro che aggiungono casa a casa e uniscono campo con campo, togliendo qualcosa al vicino ( Is 5,8 )?

Forse che non è dato di vedere queste cose ogni giorno?

Uno dice: « La casa di costui fa ombra alla mia », ed escogita infiniti pretesti per rubargliela; un altro, dopo aver sottratto un campo a un povero, lo congiunge al proprio.

Ma ancor più grave, inaudito e meno degno di perdono è il caso di colui il quale, abitando e rimanendo fermo sempre nel medesimo luogo, senza mai trasferirsi in un altro ( né lo potrebbe, anche se lo volesse, a causa dei suoi affari o perché impedito dalle infermità del corpo ), ciò nondimeno si preoccupa di possedere in quasi tutte le città i monumenti della sua avarizia e di edificare le colonne immortali della sua malizia, recando sul proprio capo, senza accorgersene, il peso oneroso di quei peccati dai quali sono state raccolte tutte le sue proprietà.

Costui, poi, non soltanto all'indomani della sua emigrazione da questa vita, ma già ancor prima di partirsene di qui, affida ad altri l'usufrutto dei suoi possedimenti che vengono dissipati dai suoi familiari e ridotti, per così dire, in mille pezzi.

Egli, perciò, non gode neppure della millesima parte delle sue ricchezze.

E come potrebbe, d'altronde? In qual modo, anche volendo, non avendo altro che un unico ventre, potrebbe ingerire una quantità così smisurata di beni?

Ma la causa di tutti i mali è la vanagloria; essa, infatti, vorrebbe imporre il proprio nome ai campi, ai bagni, agli edifici.

Quale utilità te ne deriva, o uomo, quando non molto appresso, colpendoti una febbre e volando l'anima immediatamente via, sei costretto a rimanere nudo e solo?

Anzi, spogliato della virtù e rivestito di ingiustizia, di rapine, di avarizia, di gemiti, di lamenti, di lacrime d'orfani, di insidie, d'inganni?

Come potresti, recando quei fardelli grandi e pesanti di peccati, entrare attraverso quella porta angusta che non consente di passare a una mole così voluminosa?

Pertanto sarà necessario rimanere fuori e pentirsi invano di essersi caricati di quei pesi, mentre già vedrai dinanzi ai tuoi occhi i tormenti che ti aspettano e quel terribile fuoco che mai si estingue e il verme che non muore mai.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 22

14. - La cupidigia di ricchezze è insaziabile

Tu chiami te stesso povero, e io sono d'accordo.

Povero, infatti, è colui che ha bisogno di molte cose.

Tuttavia, non è altro che l'insaziabile cupidigia a rendervi tali.

A dieci talenti cerchi di aggiungerne altri dieci; diventati venti, ne vuoi altrettanti e ciò che tu ammassi, lungi dal calmare il tuo appetito, lo stimola ancora di più.

Infatti, come per gli ubriaconi il continuare a ingerire vino costituisce uno stimolo al bere, parimenti le persone che si arricchiscono, dopo aver messo insieme delle ricchezze, ne desiderano ardentemente delle altre ancora; in tal modo, continuando sempre a nutrirsi, aggravano la loro malattia e il loro desiderio ottiene l'effetto contrario a quello auspicato.

Le ricchezze materiali, infatti, anche quando siano abbondanti, non rallegrano tanto i loro detentori quanto invece li rattristano le cose di cui sono privi, quelle, cioè, di cui essi ritengono di avere bisogno.

Così il loro animo è costantemente tormentato dalle preoccupazioni, poiché si danno da fare per raccogliere profitti sempre maggiori.

E al posto di essere lieti e di pensare che sono meglio piazzati rispetto a molti altri, sono abbattuti e tristi poiché sono messi in ombra da questa o da quest'altra persona più ricca.

Una volta però che abbiano raggiunto anche quest'ultima, subito si danno da fare per diventare pari a un'altra più ricca ancora; salvo poi, eguagliata questa, puntare su di un'altra la loro cupidigia.

Come coloro che salgono delle scale, con il piede sempre proteso verso il gradino superiore, non trovano pace prima di aver guadagnato la cima; similmente anche costoro non cessano di aspirare alla potenza, fino a quando, pervenuti alla vetta, non precipitino con una lunga caduta.

A beneficio degli uomini il Creatore di tutte le cose stabilì che l'uccello seleucide fosse insaziabile; tu, invece, è a danno di molti che hai reso insaziabile l'anima tua.

Tutto ciò che l'occhio vede, l'avaro lo desidera grandemente.

L'occhio non si sazierà di vedere ( Qo 1,8 ), né l'avaro si sazierà di arraffare.

L'inferno non ha mai detto: Basta; e l'avaro neppure ha mai detto: Basta ( Pr 27,20; Pr 30,16 ).

Quando dunque potrai servirti delle ricchezze presenti?

Quando potrai goderne tu, che sempre ti affanni a procurartene ancora?

Guai a coloro che uniscono casa a casa e congiungono campo a campo, togliendo qualcosa al vicino ( Is 5,8 ).

E tu cosa fai?

Basilio il Grande, Omelia contro i ricchi, 5

15. - Esortazione alla vigilanza sui moti istintivi

Tutti gli altri vizi toccano l'uomo dal di fuori, e a quanto è al di fuori è facile rinunciare.

Soltanto l'istinto carnale, che Dio ha radicato in noi in vista della procreazione, se esce fuori dai suoi limiti, diventa un vizio prepotente e, in forza di una legge naturale, diventa un desiderio sfrenato che tende all'unione dei corpi.

Ci vuole una virtù eroica e un'attenzione sempre viva, per poter dar la volta alla tua natura carnale, a non vivere carnalmente, a combattere giorno per giorno contro te stesso, e a tener sotto osservazione con i cento occhi di Argo - come dice la mitologia - il nemico che ti sta dentro.

É quanto l'Apostolo esprimeva in altri termini: Ogni altro peccato che l'uomo commette non tocca il suo corpo; ma chi commette fornicazione pecca contro il proprio corpo ( 1 Cor 6,18 ).

Dicono i medici e coloro che hanno trattato di fisiologia umana ( particolarmente Galeno nel suo libro intitolato L'igiene [ « Ughienôn lógôn » 1,15; 5,5. Galeno, nato a Pergamo nel 131 d.C. e mortovi nel 201, celebre medico, autore di numerosissime opere - pare circa 500 - di cui la maggior parte andarono perse ] ) che il corpo dei giovanetti e delle giovanette, degli uomini e delle donne di matura giovinezza, arde per un calore congenito; che a dette età sono nocivi tutti i cibi che ne aumentano l'eccitazione, e che aiuta meglio la salute ingerire sempre alimenti freddi, sia solidi che liquidi, mentre i vecchi, che sono soggetti ai reumatismi e al freddo, trovano giovamento nei cibi caldi e nel vino invecchiato.

Anche il Salvatore ha detto: State attenti che non vi succeda d'appesantirvi il cuore nei bagordi, nell'ubriachezza e nell'affanno di questa vita! ( Lc 21,34 ).

Girolamo, Le Lettere, II, 54,9 ( a Furia )

16. - Violenza della concupiscenza carnale

Ogni mia speranza è posta nell'immensa grandezza della tua misericordia.

Da' ciò che comandi e comanda ciò che vuoi.

Ci comandi la continenza, e qualcuno disse: Conscio che nessuno può essere continente se Dio non lo concede, era già un segno di sapienza anche questo, di sapere da chi ci viene questo dono ( Sap 8,21 ).

La continenza in verità ci raccoglie e riconduce a quell'unità che abbiamo lasciato disperdendoci nel molteplice.

Ti ama meno chi ama altre cose con te, senza amarle per causa tua.

O amore, che sempre ardi senza mai estinguerti, carità, Dio mio, infiammami!

Comandi la continenza. Ebbene, da' ciò che comandi e comanda ciò che vuoi.

Mi comandi certamente di astenermi dai desideri della carne e dai desideri degli occhi e dall'ambizione del mondo ( 1 Gv 2,16 ).

Comandasti l'astensione dal concubinato, ma anche a proposito del matrimonio indicasti una condizione migliore di quella lecita; e poiché me ne desti la grazia, fu la mia condizione ancor prima che diventassi dispensatore del tuo sacramento.

Sopravvivono però nella mia memoria, di cui ho parlato a lungo, le immagini di questi diletti che vi ha impresso la consuetudine.

Vi scorrazzano fievoli mentre sono desto; però durante il sonno non solo suscitano piaceri, ma addirittura consenso e qualcosa di molto simile all'atto stesso.

L'illusione di questa immagine nella mia anima è così potente sulla mia carne, che false visioni mi inducono nel sonno ad atti, cui non mi induce la realtà nella veglia.

In quei momenti, Signore Dio mio, non sono forse più io?

Eppure sono molto diverso da me stesso nel tempo in cui passo dalla veglia al sonno e finché torno dal sonno alla veglia.

Dov'è allora la ragione, che durante la veglia mi fa resistere a quelle suggestioni e rimane incrollabile all'assalto della stessa realtà?

Si rinserra con gli occhi, si assopisce col senso del corpo?

Ma allora da dove nasce la resistenza che spesso opponiamo anche nel sonno, quando, memori del nostro proposito, vi rimaniamo immacolatamente fedeli e non accordiamo l'assenso ad alcuna di tali seduzioni?

In verità sono due stati tanto diversi, che anche nel primo caso la nostra coscienza si risveglia e torna in pace, e la stessa distanza fra i due stati ci fa riconoscere che non abbiamo compiuto noi quanto in noi si è compiuto comunque, con nostro rammarico.

La tua mano, Dio onnipotente, è forse impotente a guarire tutte le debolezze della mia anima, a estinguere con un fiotto più abbondante di grazia i miei moti lascivi anche nel sonno?

Moltiplicherai vieppiù, Signore, i tuoi doni in me, affinché la mia anima, sciolta dal vischio della concupiscenza, mi segua fino a te; affinché non si ribelli a se stessa, affinché anche nel sonno non solo non commetta turpitudini così degradanti, ove immaginazioni bestiali scatenano gli umori della carne, ma neppure vi consenta.

Far sì che non vi provi alcuna attrazione, o così lieve da poterla comprimere col più lieve cenno della volontà, con la sola intenzione casta con cui ci si mette a letto in questa vita, e per di più a questa età, non è gran cosa per la tua onnipotenza.

Tu puoi superare quanto chiediamo e comprendiamo ( Ef 3,20 ).

Ora ho esposto al mio buon Signore con esultanza e insieme apprensione ( Sal 2,11 ) per i tuoi doni, con lacrime per le mie imperfezioni, il punto ove mi trovo tuttora per questo aspetto del mio male.

Ma spero che tu perfezionerai in me le tue misericordie, finché io abbia la pace piena, che possederà con te il mio essere interiore ed esteriore, quando la morte sarà stata assorbita nella vittoria ( 1 Cor 15,54 ).

Agostino, Le Confessioni, 10,29-30

17. - Il vino è un pericolo per la castità giovanile

Se mi è lecito porgere un consiglio, e si dà credito alla mia esperienza, la prima raccomandazione, o meglio, la prima preghiera che rivolgo a una sposa di Cristo, è di astenersi dal vino come da un veleno.

Il vino è l'arma migliore del diavolo contro i giovani …

É facile restare immuni dagli altri vizi: ma qui il nemico l'abbiamo dentro.

Vino e giovinezza: doppia fornace di voluttà!

Perché aggiungere olio alla fiamma?

Perché a questa carne che brucia, forniamo combustibile?

É vero, Paolo scrive a Timoteo: Non continuare a bere solo acqua: fa' uso anche d'un po' di vino, a motivo del tuo stomaco e delle tue frequenti indisposizioni ( 1 Tm 5,23 ).

Ma osserva bene a quali condizioni egli concede il permesso di bere vino: a stento lo giustificano i crampi allo stomaco e le indisposizioni ripetute.

Anzi, per impedire che esageriamo con la scusa della malattia, ordina di berne poco.

É un consiglio da medico più che da apostolo ( del resto l'apostolo è medico dell'anima! ), e lo dà temendo che Timoteo, sfinito dall'anemia, non possa continuare i suoi giri di predicazione del Vangelo.

Se no, si sarebbe ricordato che altrove aveva scritto: Il vino è sorgente di lussuria ( Ef 5,18 ) e nella lettera ai Romani: É bene per l'uomo non bere vino, né mangiare carne ( Rm 14,21 ).

Girolamo, Le Lettere, I, 22,8 ( a Eustochio )

18. - Come reprimere i moti carnali

Quando sorge in te la ribellione della carne, non aver paura e non perderti d'animo, perché altrimenti incoraggeresti contro di te il nemico, che instillerebbe in te i suoi pensieri, dicendoti: « Ti è impossibile spegner l'ardore, che ti tormenta, senza soddisfare queste brame ».

Se egli in questo modo ti ferisse, presto ti supererebbe e deriderebbe poi la tua debolezza.

Ma tu, pieno di fiducia, resta unito al Signore ed effondi dinanzi alla sua bontà le tue lacrime e le tue preghiere; egli ti ascolterà, sollevandoti dalla fossa infelice dei pensieri impuri e dalla palude delle fantasie vergognose, ponendo i tuoi piedi sulla roccia salda della castità.

Così vedrai venire a te il suo aiuto.

Persevera dunque in pazienza, non addormentarti nei tuoi pensieri, non stancarti di attingere l'acqua abbondante, perché il porto della vita è vicino.

Mentre ancora parlerai, Dio ti dirà: « Eccomi, sono qui! ».

Egli attende a osservare la tua battaglia, per vedere se tu al peccato sai resistere fino alla morte.

Non scoraggiarti, dunque, perché egli non ti abbandona.

Ma anche il coro dei santi angeli, e la schiera tetra degli spiriti cattivi osservano la tua battaglia: gli angeli, se vinci, ti porgono una corona; gli spiriti cattivi, se tu vieni travolto, ti coprono di insulti.

Gli angeli combattono con zelo per te, ma anche gli spiriti cattivi ce la mettono tutta contro di te, amico di Cristo.

Sta' dunque all'erta, non contrastare i tuoi amici e non farti amico dei tuoi nemici: chiamo amici tuoi i santi angeli; tuoi nemici, invece, gli spiriti impuri.

Nessun luogo è celato agli occhi di Dio, ai suoi occhi non vi è tenebra alcuna, o fratello.

Non lasciarti perciò ingannare dall'avversario perché tu sei sempre vicino ai piedi del Signore.

Non essere indifferente.

Sta scritto infatti: Il cielo è il mio trono, e la terra lo sgabello dei miei piedi ( Is 66,1 ).

Non essere dunque trascurato nel tuo intimo, ma fatti coraggio, perché chi ti aiuta è vicino.

Ascolta come dice il profeta: Tutti i popoli mi avevano circondato, ma nel nome del Signore mi sono difeso da loro.

Mi avevano circondato come api il favo, avevano divampato come fuoco tra le spine, ma nel nome del Signore mi sono difeso da loro.

Ero stato colpito e urtato, perché cadessi, ma il Signore mi ha sorretto e accolto.

Mia forza e mia lode è il Signore, egli è stato la mia salvezza ( Sal 118,10-15 ).

Persisti dunque coraggioso nella battaglia, per venir trovato desto e vigilante, e ottenere la corona della vita che il Signore ha promesso a coloro che lo amano.

Efrem Siro, La vigilanza, 3,1

19. - Il danno provocato all'anima dai pensieri impuri

Supponiamo che vi sia un giardino pieno di alberi da frutto e di altre piante aromatiche, ben coltivato e adornato in ogni sua parte, provvisto anche d'un muricciolo protettivo.

Supponiamo, poi, che vi sia un fiumiciattolo che vi scorre accanto: questo, quantunque povero d'acqua, sbatte contro la parete del muricciolo e la corrode; allargando a poco a poco una fessura e irrompendo all'interno del giardino, l'acqua finisce col travolgere e sradicare tutte le piante, distruggendo ogni coltivazione e rendendo sterile il suolo.

Ebbene, non diversamente avviene anche nel cuore dell'uomo.

Questi nutre pensieri onesti, ma continuamente si avvicinano al suo cuore i rivoli del male, pretendendo di sconvolgerlo e di trascinarlo dalla loro parte.

Se l'anima si distrae un po', dunque, incappa nei pensieri impuri: ecco, gli spiriti dell'errore ne fanno il loro pascolo e, una volta penetrati, distruggono e devastano gli ornamenti dell'anima, sradicandone i pensieri buoni.

Pseudo-Macario, Omelie spirituali, 43,6

20. - Miseria e tentazione

Appena la passione ha solleticato i sensi, e il dolce fuoco della voluttà ci pervade col suo piacevole calore, gridiamo subito: Signore, tu sei il mio aiuto; non avrò paura degli assalti della carne ( Sal 118,6 ).

Se l'uomo interiore tentenna un po' tra il vizio e la virtù, dirai: Perché ti rattristi, anima mia, e mi sconvolgi tutto quanto? Spera in Dio!

Sì, io lo glorificherò: egli è la salvezza del mio volto e il mio Dio ( Sal 42,6 ).

Non voglio proprio che lasci aperto il campo ai cattivi pensieri.

Nulla di Babilonia [ nella sacra Scrittura Babilonia indica la città del peccato, il mondo ] e di disordinato germogli nel tuo cuore.

Uccidi il nemico finché è piccolo, soffoca la malizia finché è in germe.

Ascolta cosa dice il salmista: O figlia di Babilonia, sciagurata; beato colui che ti castiga come meriti, beato chi afferra i tuoi bimbi e li sfracella contro le rupi ( Sal 137,8-9 ).

Ora, è impossibile che non si insinui nei sensi dell'uomo quella vampa di passione che - ognuno l'ha provato - penetra fino al midollo delle ossa.

Per questo merita lode e il titolo di beato chi smorza i pensieri perversi appena spuntano e li sbatte contro la roccia: la roccia è Cristo.

Quante, quante volte, pur abitando in questo deserto … credevo d'essere nel mezzo della vita gaudente di Roma!

Me ne stavo seduto tutto solo, con l'anima rigonfia d'amarezza.

Il mio corpo, sfigurato dal sacco, faceva spavento; la pelle sporca e indurita richiamava l'aspetto squallido dell'epidermide d'un negro.

Lacrime e gemiti ogni giorno!

Se, nonostante i miei sforzi, il sonno mi assaliva improvviso, ammaccavo le ossa tutte slogate, steso sulla dura terra.

Non ti parlo del cibo e della bevanda: nel deserto anche i malati usano acqua gelida: un piatto caldo è una golosità!

Io, dunque, sì, proprio io, che mi ero da solo inflitto una così dura prigione per timore dell'inferno, senz'altra compagnia che belve e scorpioni, sovente mi pareva di trovarmi tra fanciulle danzanti.

Il volto era pallido per il digiuno, eppure, in un corpo ormai avvizzito, il pensiero ardeva di desiderio; dinanzi alla mente di un uomo già morto nella carne, ribolliva l'incendio della passione.

Privo d'ogni aiuto mi prostravo ai piedi di Gesù, li irroravo di lacrime, li asciugavo con i capelli, domavo la carne ribelle con settimane di digiuni.

Non mi vergogno di confessare queste miserie; se mai, piango di non avere più il fervore di una volta.

Ricordo: frequentemente i miei gemiti congiungevano il giorno alla notte; non la smettevo di battermi il petto finché, per le minacce del Maestro, non era tornata la bonaccia [ allusione al miracolo della tempesta sedata ( Mt 8,24 ), che Girolamo prende come figura della tempesta delle passioni ].

Anche la cella mi faceva spavento, quasi fosse complice di pensieri impuri; irritato contro me stesso e inflessibile, avanzavo solo nel deserto.

Se scoprivo una valle profonda o una montagna scoscesa o rocce a precipizio, là mi rifugiavo a pregare, là stabilivo l'ergastolo per la mia carne martoriata.

Ma, il Signore mi è testimone: dopo pianti a non finire, dopo aver tenuto a lungo lo sguardo fisso al cielo, mi pareva talvolta ritrovarmi fra le schiere degli angeli; allora, esultante di gioia, cantavo: Ti correremo dietro, attratti dal profumo dei tuoi aromi ( Ct 1,3 ).

Girolamo, Le Lettere, I, 22,6-7 ( a Eustochio )

21. - La repressione dell'ira

Questo soprattutto racchiude la nostra vita e in questo ci differenziamo dagli animali e dalle belve, nel fatto cioè che noi possiamo, se lo vogliamo, condurre per noi stessi una vita ordinata e manifestare una profonda concordia con il nostro prossimo.

Possiamo, altresì, guidare il nostro pensiero e sbranare quella belva feroce che è l'ira, rappresentandole l'orrore del tremendo tribunale [ di Dio ], e insegnandole che, qualora si riconcili coi nemici, sarà ricolmata di grandi beni; nel caso in cui, invece, perseverasse nell'ostilità, sarebbe allora punita a mezzo di gravi supplizi.

Infatti, non bisogna spendere il nostro tempo inutilmente, ma tenendo ogni giorno e ogni ora dinanzi agli occhi il giudizio del Signore e considerando quali siano le cose che possano recarci grande speranza e quali, invece, procurino pena.

Meditando tutto ciò, e a questo modo, nei nostri pensieri, superiamo le passioni, freniamo le lascivie della carne e mortifichiamo, secondo l'apostolo Paolo, le nostre membra che sono sopra la terra, la fornicazione, l'impurità, la mollezza, la cattiva concupiscenza ( Col 3,5 ), il furore, l'avarizia, la vanagloria, l'invidia.

Se noi, infatti, moriamo a queste passioni sì che nulla possano più operare in noi, potremo allora ricevere i frutti dello spirito, che sono la carità, la gioia, la pace, la longanimità, la benignità, la bontà, la fede, la mansuetudine, la continenza ( Gal 5,22 ).

In tutto ciò consiste la differenza fra il cristiano e il pagano; distinguiamoci con queste caratteristiche, onde non farci belli soltanto per la fama e non insuperbirci per l'abito di lusso; così facendo, anzi, nel possedere cioè quanto abbiamo dianzi enumerato, non inorgogliamoci mai, umiliamoci ancor di più. Infatti, quando avrete compiuto ogni cosa, dite: Siamo servi inutili ( Lc 17,10 ).

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 4

22. - Bisogna evitare l'ira

Bandisci dal tuo animo queste due cose: non giudicarti degno di grandi cose e non ritenere che nessun uomo sia inferiore a te nella dignità.

Così, infatti, anche quando ci insulteranno, non ci accenderemo d'ira.

É grave che un uomo, che ha ricevuto da noi benefici e che sarebbe obbligato alla più grande gratitudine, commetta ingratitudine, insolenza e ingiuria.

Si tratta di un atto assolutamente grave; ciò nondimeno, quel male è maggiore per chi lo compie che non per colui che lo subisce.

Quello ti ingiuria; tu, però, non ingiuriarlo.

Le sue parole ti servano per esercitarti nella saggezza.

Se non ti adirerai, non riceverai ferita alcuna; se, invece, soffrirai qualcosa nell'animo, tieni la tristezza dentro di te.

Dice, infatti, il salmista: Il mio cuore è turbato in me ( Sal 143,4 ); il che significa ch'egli non ha espresso i suoi sentimenti, ma li ha repressi come delle onde che s'infrangono sulle sponde.

Calma il tuo animo che scaglia ingiurie ed è esacerbato.

I tuoi sentimenti abbiano soggezione della ragione non diversamente da come l'hanno in fanciulli indisciplinati della presenza di un uomo anziano.

Basilio il Grande, Omelia contro gli iracondi, 5

23. - É possibile domare l'ira

Come su questa vasta ed estesa terra alcune belve sono più irrazionali, altre più selvagge, altrettanto avviene nella dimensione della nostra anima.

Alcuni dei nostri pensieri sono più irragionevoli e bestiali; altri sono più selvaggi e sfrenati.

Questi dunque noi dobbiamo dominare, questi sconfiggere, su questi porre la signoria del pensiero razionale.

Ma come uno potrebbe - mi si ribatte - diventare padrone di un pensiero che è come una belva selvaggia?

Ma che dici, o uomo? Noi sconfiggiamo i leoni e li domiamo e tu dubiti di essere in grado di tramutare la sfrenatezza dei tuoi pensieri in mansuetudine?

Nel leone la ferocia è naturale; la mansuetudine, invece, è contraria alla sua natura.

In te, invece, si verifica il caso contrario: la dolcezza è secondo la tua natura e la ferocia belluina è contro la tua natura.

L'uomo, dunque, che può togliere dalla belva ciò che ad essa è naturale per porvi ciò che è contrario alla natura di quella, non sarebbe forse in grado di conservare alla sua propria anima ciò che è conforme all'umana natura?

Non sarebbe questa la più grossa sciocchezza?

Nel domare i leoni c'è, accanto alla prima difficoltà, ancora un'altra: l'anima della belva non possiede intelligenza; ciò nonostante osservate quante volte vengono condotti dei leoni al mercato, i quali sono più miti delle pecore, al punto che molti mercanti danno al domatore spesso del denaro come salario per la sua perizia e capacità, con la quale egli ha fatto diventare la belva mansueta.

Nella tua anima, però, si trova intelligenza e timor di Dio e tu godi di un valido aiuto sotto tutti gli aspetti per renderti mansueto.

Non tirarmi dunque fuori scappatoie e obiezioni; se soltanto lo vuoi, ti sarà possibile esser mansueto e dolce.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 3

24. - Si deve soffocare l'ira prima del tramonto del sole

Raccomanda Paolo: Il sole non tramonti sulla vostra ira ( Ef 4,26 ).

Vuoi riempirti d'ira?

Ti basti una sola ora e una seconda e una terza, in maniera che il sole, ad ogni modo, non vada a dormire lasciandovi nemici.

Il sole sorge grazie alla bontà di Dio; che non tramonti, perciò, su persone indegne!

Dal momento che il Signore, infatti, ha inviato il sole in virtù della sua grande bontà e ti ha rimesso i peccati, considera quanto tu sia malvagio, non rimettendo i peccati al tuo prossimo.

Inoltre vi è anche un altro motivo: il beato Paolo teme che la notte, se sorprende infiammato colui che è stato colpito da un'offesa, accenda il fuoco ancor di più.

Finché è giorno, infatti, ti è consentito di adirarti; quando cala la sera, però, riconciliati ed estingui il male recente.

Se la notte ti sorprenderà in questo stato, infatti, il giorno successivo non sarà più in grado di estirpare il male accumulato nel corso della notte; anzi, se anche riuscirai a estinguerlo, in parte e non interamente, la notte successiva, ancora una volta, accenderà da ciò che resta un rogo ben più grande.

E come quando il sole, non essendo riuscito con il calore del giorno a sciogliere e disperdere il vapore che durante la notte si è radunato e condensato nell'aria, favorisce il sopraggiungere della tempesta, allo stesso modo avviene per la nostra ira …

Perciò, ve ne prego, facciamo ogni cosa per estinguere le nostre inimicizie prima del tramonto del sole.

Se le conservi per un primo e un secondo giorno, infatti, spesso giungerai a prolungarle anche sino a un anno.

D'altronde le inimicizie stesse, dal canto loro, si accrescono da sole e non hanno bisogno di alcun pretesto per questo …

Come, dunque, calmeremo l'ira?

In che modo estingueremo la fiamma? Pensando ai nostri peccati e al fatto che saremo costretti a rendergliene conto; pensando che non feriamo il nemico, ma noi stessi.

Giovanni Crisostomo, Omelie sulla lettera agli Efesini, 14,1-2

25. - Il veleno dell'ira

Se in un'anima dimora l'ira, essa annulla la vita di un giorno.

Non lasciare perciò che duri fino al giorno seguente, ché non annulli in te tutta la vita!

A ciascun giorno basta il suo male ( Mt 6,34 ) come ha detto il nostro Salvatore.

Basta, dunque, che l'ira annienti la vita di un giorno solo.

Essa non pernotti nella tua anima, il sole non tramonti senza che non se ne sia andata.

Un ospite sgradito dimora in te: caccialo, allontanalo, non offrirgli dimora.

Col tramonto del giorno tramonti anche l'ira e non resti più a lungo nella tua anima.

E come le ore non si arrestano, così non si arresti in te l'ira, senza allontanarsi.

Non dorma nella tua anima, perché se vi dorme una volta sola è ben difficile poi allontanarla.

Non passi in te la notte, non fermenti, non resti, non riposi in te!

Se l'ira fermenta nell'anima, la corrompe, la confonde, l'appesta e insudicia, tanto che l'anima non riesce più a emergere dal male.

Il lievito cattivo, messo nell'impasto, appesta il tutto; così l'ira, se prende dimora in un'anima, la riempie del suo pessimo odore.

Le vipere e i serpenti sono velenosi, ma l'ira è ancor peggio di loro.

Abbatte l'anima e la uccide, allontanandola da Dio.

Se tu vedi una serpe in casa tua, le dai la caccia e la uccidi; ma l'ira, che uccide te, abita nell'anima tua e tu non la cacci.

Quando vedi davanti a te un serpente, ne hai paura, perché potrebbe morderti; ma l'ira, che ha in sé un veleno mortale, tu la lasci dimorare quieta nel tuo intimo.

Se una serpe ti scivola in seno, il tremore si impossessa delle tue membra; ma il tuo cuore è un covo pieno di vipere.

Se una vipera morde, la carne si ammala e va in rovina; dove abita l'ira vi è un veleno corrompitore.

Tu temi di venir morso da un serpente o punto da uno scorpione; ma non temi il morso dell'ira e non hai paura del pungiglione dell'odio.

Chi desidera mai che una serpe venga da lui, e da lui si nasconda?

Chi ama un serpente, perché si insinui nel suo seno e vi prenda dimora?

Ma mentre tu non sopporti questi rettili, ne desideri altri ben peggiori; l'ira, che è più crudele di una vipera, e l'odio, che è più crudele di un serpente.

Per una parola detta senza attenzione, suggerita dal demonio, tu apri tutti i battenti all'ira, perché venga nella tua anima, e vi dimori.

Perché il tuo prossimo ti contende un misero privilegio, tu chiami l'odio, perché penetri nel tuo petto, e vi si piazzi.

Quando l'ira abbaia in te e latra come un cane, scaglia contro di lei il sasso del tuo desiderio di pace, e arresta così il suo latrare.

Annientala con la tua letizia, mostrale un viso sorridente, non angustiato.

L'ira sarà impedita così di annientare due anime insieme.

O Signore, tu che col sangue sgorgato dal tuo fianco ci hai donato le altezze e le profondità abissali della pace, manda la tua pace ai cuori adirati!

Tu che fra i due partiti, quello di sopra e quello di sotto, hai stabilito la pace, concilia nell'amore i cuori divisi e semina tra di loro la tua pace!

Signore, tu che sei la nostra pace, come scrive il tuo discepolo, fa' che la tua pace custodisca le anime che a te ricorrono!

« Vi do la mia pace, vi lascio la mia pace » disse il Signore ai suoi apostoli, poi salì al Padre.

Quando tornerà nella sua grande gloria e il terrore si impossesserà del creato; quando la tromba risuonerà lassù, e le fondamenta della terra si scioglieranno; quando le pietre robuste si spaccheranno e le tombe si apriranno e in un istante tutti coloro che dormono risorgeranno incorrotti; quando la polvere di Adamo sarà raccolta, tanto che nessun granello ne resti fuori; quando coloro che stanno in alto e quelli che stanno in basso staranno in grande terrore: ci venga incontro allora il tuo perdono, Signore, e la tua pace ci accompagni!

Efrem Siro, Su « Tutto è vanità e afflizione di spirito », 6-8

26. - Il vizio della vendetta

Peggiore di ogni altro vizio e peccato è la tremenda ingiustizia, la grande malvagità dell'uomo dominato dall'odio e bramoso di vendetta.

Tutti gli altri peccati e ingiustizie esplodono con forza all'improvviso come fiamme, ma poi cessano; quando invece un animo vendicativo e irriducibile comincia a sentire ostilità per il suo prossimo, arde in se stesso, per sempre, di pensieri maligni e perversi.

Per sempre arde nel suo intimo la fiamma inestinguibile dell'odio, aizzata dal cuore vendicativo del malvagio.

Tale gente si strugge e si corruccia interiormente, e tortura se stessa: alcuni perfino perdono i colori del viso, tutti assorti nei loro piani cattivi, corrucciati dalla malignità del loro cuore.

É un vizio che striscia tra gli uomini come la serpe astuta, e proprio come la serpe riversa nei cuori il veleno.

Anche se uno di costoro si dedicasse a tesori di buone opere, anche se digiunasse e vigilasse, se si facesse magro nelle opere di mortificazione, tutto ciò a nulla gli gioverebbe se non rinuncia all'odio contro il prossimo, se cela in cuore la cattiveria.

Continuamente sta all'erta e spia ogni occasione per manifestare questa sua cattiveria e porre un laccio al suo nemico.

Le brame lo torturano, gira qua e là, tutto assorto in tetri pensieri, si sente spossato e confuso.

Tesse malvagie macchinazioni contro il suo prossimo; gli augura ora la fame, ora la spada, ora i ladri, ora la morte, ora ogni infelicità e calunnia perversa.

Se lo scorge, guarda dall'altra parte, e gli è gravoso dover passare davanti alla sua casa.

Se poi è costretto in qualche modo a incontrarlo, cerca perfino di ritornare sui suoi passi per evitarlo.

Se lo scopre in chiesa, si rifiuta perfino di entrarvi.

Quando poi lo trova sulla pubblica via, distoglie gli occhi per non guardarlo, oppure abbassa tanto il capo come se stesse discorrendo col suolo e intanto nutre perversi pensieri contro di lui.

Se sente che qualcuno ne parla male, solleva il capo e si sente felice; ascolta con soddisfazione, rincara la dose delle maldicenze, si intrattiene pieno di ardore con i calunniatori.

E se ascolta una lode sola del suo nemico, si rabbuia, si rannuvola in volto, si contrista e si travaglia interiormente.

É amico dei nemici di quello, e nemico dei suoi amici.

Odia i suoi figli, e tratta male perfino quelli che al suo nemico assomigliano; odia non solo gli esseri ragionevoli, ma perfino gli animali di lui e getta sguardi corrucciati sui suoi campi, invocando su di loro la siccità e la sterilità.

Tutto ciò, e ancor di più, coltiva nel suo cuore l'uomo vendicativo, che nutre rancore; ma non manifesta esteriormente il suo astio.

Nessuno perciò consideri piccolo il vizio della vendetta, e nessuno si faccia vendetta da sé, ma la lasci al giudice divino, perché: Mia è la vendetta, e io voglio punire, dice il Signore ( Eb 10,30; Dt 32,35 ).

E tu non ripagare mai il male con il male. No!

Se il tuo nemico ha fame, dagli del pane; se ha sete, porgigli dell'acqua! Io punirò poi il male, dice il Signore.

Dato perciò che il Signore distribuirà vendetta e ricompensa ai danneggiatori e ai danneggiati, nessuno si faccia giustizia da sé e punisca chi gli ha recato danno: è questa una ingiustizia che supera assai l'empietà dei pagani.

Giovanni Mandakuni armeno, Gli odiatori e i vendicativi, 1-3,13

27. - Si può guarire dall'ira

Gli animali secondo natura sono selvaggi; spesso, tuttavia vengono addomesticati dalla perizia dell'uomo.

Ma voi, che rendete docili le bestie da selvagge che sono naturalmente, come potrete giustificarvi, dal momento che, dopo aver costretto le bestie stesse ad abbandonare la loro naturale ferocia per imitare la mansuetudine degli uomini, da voi stessi vi siete spogliati della docilità della vostra natura, per rivestirvi della loro crudeltà?

Voi, sì, addomesticate il leone e lo rendete docile, ma poi, per contro, riducete il vostro animo ad essere più furioso e crudele di un leone.

Questo animale presenta due ostacoli ad essere addomesticato: il primo è che manca di ragione, il secondo è che di tutti gli animali è il più feroce.

Tuttavia, grazie all'intelligenza che Dio vi ha data, voi vincete la stessa natura.

E come può avvenire allora che, mentre dominate la natura delle bestie, in voi stessi tradite, insieme alla natura, anche la bellezza della vostra intelligenza e della vostra libera volontà?

E se io vi presentassi un uomo da rendere mansueto, non vi chiederei cosa impossibile; tuttavia, voi potreste obiettarmi che non siete padroni dell'intelletto e della volontà di un altro uomo, e che, quindi, quanto vi chiedo non dipende interamente da voi.

Ma ora io vi do da addomesticare la bestia che è in voi e della quale voi siete totalmente padroni.

Quale scusa ancora vi resta, quale specioso pretesto potete allora invocare, voi che, pur essendo capaci di fare, in un certo senso, di un leone un uomo, non vi preoccupate affatto se voi stessi, che pur siete uomini, vi comportate come leoni?

Voi date al leone qualcosa che è al di là della sua natura, e togliete a voi stessi ciò che è secondo la vostra natura.

Cercate di elevare le belve feroci alla dignità dell'uomo e nello stesso tempo discendete dal trono regale per abbassarvi al livello delle belve e adeguarvi alla loro furia.

Ebbene, considerate l'ira come una bestia feroce e cercate anche voi di usare nei vostri confronti la stessa cura che usano coloro che addomesticano i leoni, rendendo calmo e mite il vostro animo.

Questa passione è fornita di denti aguzzi e di artigli: se non la si addolcisce, distruggerà tutto.

Il leone e la vipera non dilaniano tanto le loro vittime, come le dilania l'ira, con gli assalti continui dei suoi artigli di ferro.

Essa non tiranneggia solo il corpo, ma arriva a corrompere l'anima, guastando ciò che in essa v'è di sano, corrodendo totalmente e paralizzando il suo vigore e rendendola inerte in ogni cosa.

Se coloro che nutrono nelle proprie viscere dei vermi non riescono neppure a respirare, essendo il loro interno quasi del tutto consumato, come potremo noi realizzare qualcosa di buono e generoso, finché saremo preda dell'ira che, come un crudele serpente, rode tutto il nostro intimo?

Qual è, dunque, il modo - voi direte - di liberarci da questa terribile distruzione?

Il modo consiste nel bere quella bevanda capace di uccidere tutti i vermi e tutti i serpenti che stanno in noi.

E quale sarebbe questa bevanda - voi chiederete - che ha tanta potenza?

Essa è il prezioso sangue di Cristo, che è efficace se lo si riceve con fede.

Nessuna malattia può resistere alla forza di questo rimedio; ma bisogna aggiungere la lettura attenta e la pratica della parola di Dio, bisogna aver cura di fare elemosine e aver misericordia per tutti.

Con questi rimedi, noi potremo annientare le passioni che avvelenano la nostra anima.

E allora soltanto vivremo, mentre ora non siamo molto diversi dai morti.

É infatti impossibile che la nostra anima viva, finché vivranno questi vizi presso di noi: necessariamente il nostro spirito muore.

Se noi non ci affrettiamo ad annientarli mentre siamo in questa vita, essi ci faranno morire nell'altra; anzi, prima ancora di quell'estrema morte, ci faranno soffrire qui le più gravi pene.

Infatti, ognuna di queste passioni è crudele, violenta, insaziabile e l'intero giorno ci divora senza darci mai tregua.

Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo di san Matteo, 4,8-9

28. - Ritorno alla dignità

Persino gli elementi nutrono rispetto di fronte ai servitori del Signore e trattengono il loro assalto.

Considerino ciò i molti fra di noi che sono ripieni d'ira e di rabbia oppure si lasciano imprigionare scioccamente da altre passioni, gettando via la loro salvezza.

Noi che siamo stati provvisti da Dio della ragione, imitiamo, piuttosto, questa stupefacente obbedienza dimostrata dagli elementi irrazionali …

Ma l'uomo, che è per natura un essere mansueto, ragionevole e dolce, compie ora proprio ciò che è opposto alla sua natura, diventando, a causa della sua leggerezza, pari alle bestie feroci.

Per questo la divina Scrittura attribuisce sovente ad uomini dotati di ragione i nomi di esseri irrazionali e talvolta persino di bestie feroci, a motivo, appunto, della passione che li domina …

E tutto ciò affinché essi, per lo meno, comincino a vergognarsi e a ritornare alla loro propria dignità umana, preferendo le leggi di Dio a quelle passioni alle quali essi si sono sconsideratamente abbandonati.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 12

29. - Dove conducono le due strade

Nessuno si aspetti di giungere a contemplare i cieli standosene tranquillo; ciò, infatti, non può accadere.

Nessuno speri di progredire senza angustie lungo la via stretta.

Nessuno, camminando lungo la strada larga, pretenda di conseguire la vita [ eterna ].

Quando perciò vedrai qualcuno rallegrarsi per il fatto di possedere bagni, una mensa sontuosa ed esser provvisto di una guardia del corpo, non ritenerti un miserabile perché non sei in possesso di quelle cose, ma compiangi piuttosto quello che si avvia verso la perdizione.

A che giova, infatti, quella larga via, dal momento che termina nell'afflizione?

E, per contro, a cosa nuoce la strettezza della via, se conduce alla pace?

Dimmi un po': se uno, convocato al palazzo reale, procede attraverso stretti vicoli e precipizi e un altro, invece, condannato a morte, viene trasportato in mezzo alla piazza, chi chiameremo beato dei due?

Chi compiangeremo se non colui che cammina per la via larga!

Parimenti, anche adesso, non reputiamo beati coloro che vivono fra i piaceri, ma, al contrario, quelli che non si deliziano: costoro si affrettano verso il cielo, gli altri verso la geenna.

Molti di essi, forse, rideranno di quanto diciamo, ma proprio per questo io piango e mi addoloro.

Essi, infatti, non si rendono conto di ciò di cui bisogna ridere e di che cosa, invece, si debba piangere: confondono e stravolgono tutto. Perciò li compiango.

Che cosa stai dicendo, o uomo?

Risorgerai e renderai ragione di quanto avrai commesso e sarai condannato al supplizio finale.

E tu non ti rendi minimamente conto di queste cose, ma pensi a soddisfare il ventre e ad ubriacarti, prendendoti gioco di tutto questo?

Io, invece, ti compiango perché conosco le sventure che pendono sul tuo capo e il supplizio al quale stai per esser destinato: proprio perché tu ridi, perciò, io piango ancora di più.

Addolorati insieme a me, deplora con me i tuoi mali.

Dimmi un po', se morisse uno dei tuoi familiari, non riterresti come avversari e nemici coloro che ridessero del suo decesso?

E non ameresti chi piangesse e si addolorasse con te?

Così, se tua moglie giacesse morta, allontaneresti chi ride; ora invece che è la tua anima ad esser incorsa nella morte, allontani colui che piange e tu stesso ridi?

Vedi come il diavolo ci ha fatti diventare nemici e avversari di noi medesimi? Ravvediamoci una buona volta, facciamo attenzione, vigiliamo, impadroniamoci della vita eterna, scacciamo via questo sonno profondo!

Giovanni Crisostomo, Omelia sulla prima lettera ai Tessalonicesi, 9,5

30. - Il cibo: piacere e pericolo per l'anima

Noi restauriamo i danni che ogni giornata infligge al corpo, con cibo e bevanda, finché tu distruggerai e cibo e ventre ( 1 Cor 6,13 ), estinguendo il mio bisogno con una meravigliosa sazietà e rivestendo questo corpo corruttibile di un'incorruttibilità sempiterna ( 1 Cor 15,53 ).

Per ora mi è dolce questa necessità e lotto contro la sua dolcezza per non caderne prigioniero, combatto una guerra quotidiana attraverso i digiuni, riducendo di solito il mio corpo in schiavitù ( 1 Cor 9,27 ) e scaccio i miei dolori col piacere.

La fame e la sete sono anch'esse una sorta di dolore, bruciano e uccidono come la febbre, se non intervenga il rimedio del cibo; e poiché il rimedio è a portata di mano grazie al conforto dei tuoi doni, in cui terra, acqua e cielo lavorano per la nostra debolezza, questa sventura si chiama delizia.

Tu mi hai insegnato ad accostarmi agli alimenti per prenderli come medicamenti.

Sennonché, nel passare dalla molestia del bisogno all'appagamento della sazietà, proprio al passaggio mi attende, insidioso, il laccio della concupiscenza.

Il passaggio stesso è un piacere e non ve n'è altro per passare ove ci costringe a passare il bisogno.

Sebbene io mangi e beva per la mia salute, vi si aggiunge come ombra una soddisfazione pericolosa, che il più delle volte cerca di precedere, in modo da farmi compiere per essa ciò che dico e voglio fare per la salute.

La misura non è la stessa nei due casi: quanto basta per la salute è poco per il piacere, e spesso non si distingue se è la cura indispensabile del corpo, che invoca altro aiuto, o la soddisfazione ingannevole della gola che, sotto, richiede un servizio.

La nostra povera anima esulta dell'incertezza, e predispone in questa la difesa di una scusa lieta che non sia manifesto quanto basta a una vita normalmente sana.

Così sotto il velo della salute si occultano i traffici del piacere.

A queste tentazioni mi sforzo quotidianamente di resistere, invocando l'aiuto della tua mano, e riferisco a te i miei turbamenti, poiché il mio giudizio su questo punto non è ancora sicuro.

Odo la parola del Signore, che mi comanda: Non lasciate appesantire i vostri cuori nella crapula e nell'ubriachezza ( Lc 21,34 ).

L'ubriachezza è lontana da me: la tua misericordia non le permetterà di avvicinarsi.

La crapula invece si insinua talvolta nel tuo servo: la tua misericordia la spingerà lontano da me.

Nessuno può essere continente se tu non lo concedi ( Sap 8,21 ) …

Tu, Padre buono, mi insegnasti che tutto è puro per i puri, ma fa male un uomo a mangiare con scandalo degli altri ( Rm 14,20 ); che ogni tua creatura è buona e non si deve respingere nulla di ciò che si prende rendendo grazie ( 1 Tm 4,4 ); che non è l'alimento a raccomandarci a Dio ( 1 Cor 8,8 ); che nessuno ci deve giudicare dal cibo o dalla bevanda che prendiamo ( Col 2,16 ); infine che chi mangia non deve disprezzare chi non mangia, come chi non mangia non deve giudicare chi mangia ( Rm 14,3 ).

Ora lo so, e ti siano rese grazie e lodi, Dio mio, mio maestro, per aver bussato alle mie orecchie e illuminato la mia intelligenza.

Liberami da ogni tentazione!

Io non temo l'impurità delle vivande, temo l'impurità del desiderio.

So che a Noè fu permesso di mangiare ogni genere di carne commestibile, anche Elia si rimise in forza mangiando carne, che Giovanni, pur dotato di un'austerità meravigliosa, non fu contaminato dagli animali, ossia dalle locuste impiegate come cibo; ma so pure che Esaù fu vittima della brama di lenticchie, che Davide si rimproverò di aver desiderato dell'acqua, e il nostro Re fu tentato non già con carne, ma con pane.

Perciò anche il popolo nel deserto meritò un rimprovero non per aver desiderato della carne, ma perché nel suo desiderio di cibo mormorò contro il Signore.

Assediato da queste tentazioni, lotto ogni giorno contro la concupiscenza del cibo e della bevanda.

Qui non è possibile che decida di troncare tutto una volta per sempre e non tornarvi più in avvenire, come potrei fare per i piaceri venerei.

Devo invece tenere sulla mia gola un morso, allentandolo o stringendolo moderatamente.

Ma chi, Signore, non viene trascinato qualche volta oltre il fine del necessario?

Se c'è qualcuno, è magnanimo e magnifichi il tuo nome.

Certo, non sono io, perché sono un uomo peccatore.

Magnifico ugualmente il tuo nome e intercede presso di te per i miei peccati ( Rm 8,34 ) chi vinse il secolo ( Gv 16,33 ) enumerandomi fra le membra inferme del suo corpo ( 1 Cor 12,22 ).

I tuoi occhi videro infatti le sue imperfezioni, e tutti saranno iscritti nel tuo libro ( Sal 139,16 ).

Agostino, Le Confessioni, 10,31

31. - L'idolatria del ventre

Non v'è nulla di più adatto di queste parole per indurre al pudore, nulla di più perentorio per biasimare: Il loro Dio è il ventre e il loro onore le vergogne ( Fil 3,19 ).

Di chi mai si tratta? Di « coloro che gustano le cose terrene » e che dicono: « Costruiamo case ».

Dove? Sulla terra, naturalmente.

« Comperiamo campi »: ancora sulla terra.

« Conquistiamo il potere »: sempre sulla terra.

« Conseguiamo la gloria »: di nuovo sulla terra.

« Procuriamoci le ricchezze »: tutto, insomma, su questa terra.

Questi sono coloro il cui Dio è il ventre.

Coloro i quali, infatti, non meditano alcunché di spirituale, ma posseggono qui tutte le loro case e si preoccupano di queste soltanto, è naturale che abbiano per Dio il loro ventre e dicano: Mangiamo e beviamo, poiché domani morremo ( 1 Cor 15,32 ).

E tu ti crucci che il tuo corpo sia terreno, quantunque esso non ti sia di nocumento alcuno per quanto concerne la virtù?

Umìli poi la tua anima sino a terra attraverso i piaceri e, non rendendotene minimamente conto, ridi e te ne stai con l'animo divertito?

E quale perdono otterrai, comportandoti in maniera così irresponsabile, quando invece bisogna rendere spirituale anche il corpo?

Ciò è possibile, infatti, se tu lo volessi.

Hai ricevuto il ventre per nutrirlo, non per riempirlo; per dominarlo, non per avere lui come signore; perché ti serva per nutrire le altre parti, non perché sia tu a servire lui, oltrepassando ogni limite.

Il mare, una volta che abbia rotto i suoi argini, non è causa di tanti danni quanti ne provoca, invece, il ventre al corpo e all'anima nostra: il primo sommerge tutta la terra ch'esso raggiunge; il ventre, invece, tutto il corpo.

Ponigli come limite la sufficienza, così come Dio ha posto la rena per il mare; se esso si riscalda troppo, poi, richiamalo con quella autorità che ti è stata data.

Considera di quanto onore Dio ti ha ricoperto, affinché tu lo imitassi; tu, però, non vuoi farlo: vedi che il ventre oltrepassa i limiti e corrompe e sommerge tutto il tuo essere, eppure non osi reprimerlo né calmarlo.

« Il loro Dio è il ventre ».

Vediamo ora come Paolo servì Dio e come questi ingordi servono il loro stomaco.

Ma forse che costoro non subiscono infinite volte la morte?

Non hanno forse paura ad obbedire al ventre?

Non fanno forse per esso le cose più assurde?

Non così Paolo, invece; per questo egli affermava: Il nostro soggiorno è nei cieli ( Fil 3,20 ).

Non ricerchiamo dunque qui la pace, ma adoperiamoci per essere raggianti laddove si trova la nostra vera patria.

Di lassù aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù, che trasfigurerà il corpo della nostra bassezza, affinché divenga simile al suo corpo di gloria ( Fil 3,20-21 ).

In tal modo Paolo ci ha pian piano innalzati: nel dire, infatti, « dal cielo il nostro Salvatore », dimostra per mezzo del luogo e della persona la nostra grandezza.

« Il quale trasfigurerà il corpo della nostra bassezza ».

In molti modi adesso il nostro corpo è vinto, è umiliato, è sconvolto, è afflitto da infiniti mali, e in realtà anche il corpo di Cristo ha patito queste stesse cose.

Questo, perciò, ha sottinteso Paolo, dicendo: « Affinché divenga simile al suo corpo di gloria ».

Si tratta, dunque, del medesimo corpo, rivestito, però, d'immortalità.

« Trasfigurerà », è detto.

Perciò si tratta proprio di un'altra figura, a meno che non si sia chiamato così, con minor proprietà, il mutamento.

É scritto, però, « il corpo della nostra bassezza », poiché tale è adesso la sua condizione, poiché è soggetto alla morte e alla sofferenza, poiché appare come meschino e bisognoso di tante cose.

« Affinché divenga simile al suo corpo di gloria ».

Caspita! Simile a colui che siede alla destra del Padre?

Il nostro corpo diviene simile a quello che è adorato dagli angeli, che è assistito dalle potestà celesti, che si trova al di sopra di ogni principato e virtù e potestà: proprio a questo diventa simile.

Perciò se tutto il mondo piangerà e verserà lacrime, per coloro che hanno perduto una simile speranza lo farà con ragione; dal momento che ci è stata fatta la promessa di diventare simili a quello, non bisogna star lontani dal demonio?

Non mi fa più paura la geenna: qualunque cosa dirai, infatti, la stimerò un niente, a paragone della perdita di quella speranza.

Ma che cosa dici, Paolo? Simile a quello? Certamente.

Poi, perché tu non diffidassi, ha soggiunto: secondo la sua potenza con la quale potrebbe anche sottomettere a sé tutte le cose ( Fil 4,21 ).

Egli ha il potere, precisa l'Apostolo, di sottomettere a sé tutte le cose: perciò anche la rovina e la morte.

In effetti, è forse maggiore la potenza che sottomette gli angeli, gli arcangeli, i cherubini, i serafini e i demoni oppure quella che rende immortale e incorruttibile il corpo?

Certamente ne richiede una molto maggiore la prima operazione.

Per questo egli palesa le opere maggiori della sua potenza: affinché, cioè, tu creda anche a queste.

Pertanto, anche se vedete questi mondani rallegrarsi ed esser circondati di gloria, voi tuttavia persistete, non fatevi recar danno da quelli e non vi turbate: speranze come quelle che ci sono state proposte sono capaci di raddrizzare anche i deboli di spirito e gli incerti.

Giovanni Crisostomo, Omelie sulla lettera ai Filippesi, 13,2

32. - Effetti negativi del benessere

Prendi da un orto una di quelle piante che crescono nei deserti e sono flagellate dai venti, e mettila in terreno umido e ombreggiato; e troverai che lì diventa molto inferiore a quella del posto originario.

Che ciò sia vero risulta dal fatto che le donne di campagna sono più robuste degli uomini di città e ne potrebbero vincere molti nella lotta.

Quando poi il corpo diventa troppo raffinato, necessariamente l'anima ne risulta danneggiata; infatti, per lo più le energie dell'una corrispondono alle disposizioni dell'altro.

Così altra è la nostra disposizione quando siamo infiacchiti dalla malattia, e altra quando siamo sani.

Come in uno strumento a corde, quando queste sono deboli o poco tese, l'abilità dell'artista è ostacolata dalla deficienza dello strumento, così dal corpo l'anima riceve molto danno e molti condizionamenti.

Proprio quando il corpo ha tanto bisogno di curarsi, all'anima tocca di subire un'amara schiavitù.

Perciò rendiamolo robusto e non fiacco.

Questo non lo dico solo agli uomini, ma anche alle donne.

Perché continuamente infiacchisci il tuo corpo con la vita godereccia e lo rendi esile, o donna?

Perché rovini l'energia con cibi succulenti, che invece di dargli forza lo snervano?

Se invece te ne astieni e ti comporti diversamente, allora anche la bellezza del corpo se ne avvantaggerà con ragione, quando ci sia robustezza e buona salute; ma se gli fai venire tanti malanni, perderai il colorito e il benessere e sarai sempre abbattuta.

Sapete che come una bella casa appare anche più bella quando l'aria è serena, così la luminosità dell'anima rende più bello l'aspetto.

Ma la tristezza e i dolori lo fanno sgradevole; la tristezza viene dalle malattie e dalle sofferenze; e queste sono le conseguenze di un corpo indebolito dalla vita gaudente.

Perciò anche per questo scansate tali ricercatezze, se mi volete credere.

Ma, dice uno, c'è tanto gusto a godersi queste cose!

Sì, ma sono maggiori gli inconvenienti.

Il piacere finisce in gola, lo gusta la lingua: finito il pranzo, e inghiottito il cibo, tu sei come quello che non vi ha preso parte, anzi stai molto peggio, perché te ne vai con pesantezza, gonfiezza, dolore di testa, sonno simile alla morte, e spesso insonnia per l'eccessiva pienezza, difficoltà di respiro, vomito; e tu mandi mille maledizioni al tuo stomaco, mentre dovresti maledire la tua sfrenatezza.

Perciò non ingrassiamo il corpo, ma ascoltiamo Paolo che dice: Non date soddisfazione alle brame della carne ( Eb 13,14 ).

Come, infatti, se uno prendesse i cibi e li gettasse nella fogna, così fa chi li carica nel ventre; anzi, neppure così, ma molto peggio: a gettarli nella fogna, infatti, per lui non ne deriva danno alcuno, mentre nel ventre generano tante malattie.

Infatti, ciò che nutre, è solo quel tanto che è sufficiente e che può esser digerito; quello invece che è più del necessario, non solo non nutre, ma rovina pure l'altra parte.

Ma nessuno ci fa caso, trascinato dal godimento inconsiderato e dalla consuetudine viziosa.

Vuoi nutrire il corpo? Togli via il superfluo, dagli il necessario e quel tanto che può digerire; non lo caricare troppo, perché non affondi.

Il necessario dà nutrimento e piacere; niente, infatti, dà tanto gusto, quanto un cibo ben digerito; niente dà tanta salute, acutezza di sensi e immunità da malattie.

Sicché il cibo preso con moderazione dà nutrimento, piacere e buona salute; il superfluo reca danno, molestia e infermità.

Infatti quel che fa la fame, lo fa pure la voracità, anzi peggio, perché la fame in pochi giorni porta via l'uomo e poi non soffre più, mentre la golosità rode e guasta il corpo, lo fa cadere in lunghe malattie e poi in una morte dolorosissima.

Noi, invece, riteniamo che la fame sia cosa abominevole, e corriamo a rimpinzarci così dannosamente.

Donde viene questo malanno, questa pazzia?

Non dico di tormentarci con la fame, ma di cibarci in modo da gustare il piacere, quello vero, nutrendo il corpo, per averlo ben disposto a servizio delle facoltà dell'anima, robusto e agile.

Se invece il cibo ingerito è troppo, tale inondazione allenta i bulloni e le giunture, per così dire, poiché l'eccesso disturba e impedisce il retto funzionamento degli organi.

« Non assecondate le passioni della carne ».

E dice bene: « le passioni ».

Il cibo squisito ed eccessivo è infatti materia per le passioni disordinate; chi lo consuma, anche se è molto saggio, per forza risente disturbo dal vino e dai cibi, necessariamente perde il controllo di sé e prova come una fiamma troppo ardente.

Di qui vengono poi fornicazioni, adulteri; infatti, lo stomaco vuoto non produce amore passionale e neppure il vitto, limitato al necessario.

I desideri peccaminosi ce li procura solo chi si nutre voluttuosamente.

Infatti, come la terra acquitrinosa produce vermi e così pure il concime fradicio e carico di umori, ma quando viene prosciugata e razionalmente fertilizzata, porta molti frutti; se non è coltivata produce fieno e, se coltivata, frutti; allo stesso modo anche noi.

Non rendiamo, dunque, inutile la nostra carne, né senza profitto né dannosa, ma piantiamo in essa frutti di buona qualità, alberi da frutta e stiamo attenti a non rovinarla con la golosità, giacché questa produce vermi invece di frutti.

Così anche la cupidigia insita in noi, se troppo la soddisfi, produce godimenti illeciti e anche molto impudichi.

Giovanni Crisostomo, Omelie sulla lettera egli ebrei, 29,3-4

33. - Forza distruttiva dell'intemperanza

La Scrittura suole dire, a proposito degli uomini senz'anima: Il mio spirito non rimarrà in questi uomini, poiché sono carne ( Gen 6,3 ).

In realtà essi avevano un'anima; nondimeno, poiché la portavano in giro morta, li chiamava « carne ».

Infatti, allo stesso modo come, a proposito delle persone virtuose, nonostante che abbiano un corpo, diciamo: « Il tale è tutto anima, è tutto spirito »; non diversamente, affermiamo il contrario a proposito di coloro che tali non sono.

Così anche Paolo diceva: Voi non siete nella carne ( Rm 8,9 ), poiché non compivano le opere della carne.

Parimenti anche coloro che si danno ai piaceri non sono nell'anima né nello spirito.

Egli dice: « Colei che si dà ai piaceri, anche se viva, è morta ».

Ascoltate, anime che trascorrete tutto il tempo a mangiare e a bere, che disprezzate i poveri che si consumano e muoiono di fame, mentre voi morite sempre nel piacere.

Voi provocate due morti: quella di coloro che sono afflitti, e la vostra medesima; e l'una e l'altra poiché non osservate moderazione alcuna.

Se, invece, donaste un po' della vostra abbondanza alla loro indigenza, conservereste due vite.

Perché rilassi il tuo stomaco con la sazietà?

Perché tormenti il ventre del povero con l'indigenza?

Il primo lo impingui oltre misura; l'altro lo estenui al di là di ogni limite.

Rifletti a ciò che deriva dai cibi, in cosa si mutino, che cosa producano.

Forse ti scandalizzi udendo questo?

Per quale motivo allora ti dai da fare per accumularne sempre di più?

L'aumento di quei piaceri non è altro che incremento dello sterco.

La natura, infatti, ha una misura: ciò che sovrabbonda non è più alimento, ma danno ed escremento eccessivo.

Nutri il corpo per non farlo morire.

Per questo il cibo si chiama alimento: non per danneggiare il corpo, cioè, ma per alimentarlo.

Per questa ragione altresì, come ritengo, l'alimento viene espulso: affinché, cioè, noi non diventiamo estimatori dei piaceri.

Se le cose non stessero a questo modo, se, cioè, i piaceri non fossero inutili e non nuocessero al corpo, non smetteremmo mai di divorarci l'uno con l'altro.

Se lo stomaco, infatti, raccogliendo quanto noi volessimo, lo digerisse e lo distribuisse per il corpo vedresti infinite guerre e battaglie.

Se già adesso, nonostante il fatto che certi alimenti si mutino in escremento, altri in sangue e in flemma nocivo e impuro, ci abbandoniamo tuttavia ai piaceri e sovente durante un unico pasto consumiamo interi patrimoni, che cosa non faremmo qualora tale non fosse la destinazione dei piaceri?

Quanto più ci deliziamo, tanto più ci riempiamo di cattivo odore, mentre il corpo scorre da ogni parte come un otre.

Uno erutta sì da scandalizzare i vicini; torbide esalazioni vengono emesse da ogni parte del corpo, come da una fornace, mentre il calore interno va in putrefazione.

Ora, se le persone che stanno al di fuori si indignano a questo modo, che cosa ritieni che soffra il cervello all'interno, scosso com'è così frequentemente da queste esalazioni?

Che cosa soffrono i rivoli del sangue che ribolle, dal momento che il suo corso viene ostruito?

Che ne sarà del fegato e della milza?

E dei pozzi scavati per l'escremento?

E, ciò che è più grave, noi stiamo attenti che questi non si ostruiscano e non rimandino in su lo sterco ( e a questo scopo nulla tralasciamo di fare, spingendolo con pertiche o tirandolo fuori con le zappe ); e poi non pensiamo a purificare le latrine del nostro ventre, ma le ostruiamo e le chiudiamo, senza curarci affatto, inoltre, dello sterco che sale sopra, dove siede lo stesso re, cioè il cervello.

Perciò facciamo ogni cosa non come se avessimo un saggio re, bensì un cane immondo; per questo Dio l'ha posto lontano da quelle membra, affinché non ne ricevesse nocumento veruno.

Ma noi non tolleriamo ciò, e corrompiamo ogni cosa con un uso smodato.

E che cosa si potrebbe dire degli altri danni?

Ostruisci i canali delle latrine e vedrai subito prodursi luridume.

Poiché se quel cattivo odore che sopraggiunge all'esterno provoca la peste, quello interno, costretto da ogni parte dall'angustia del corpo e privo di un adito donde erompere, non sarà forse causa di innumerevoli malattie sia per il corpo che per l'anima?

Ma ciò che è più grave è che molti s'indignano contro Dio, dicendo: « Che significa ciò? Egli ha stabilito che lo sterco ci porti via »; mentre sono loro stessi ad aumentare gli escrementi.

Ecco perché Dio ha così disposto: per tenerci lontani dai piaceri e persuaderci a non attaccarci troppo alle cose mondane.

Giovanni Crisostomo, Omelie sulla prima lettera a Timoteo, 13,4

34. - L'ingordigia distrugge il corpo e l'anima

Lo spirito è contemporaneamente aggredito da due mali, dal piacere e dall'inquietudine, ognuno dei quali è sufficiente a sommergere la barca dell'anima.

Immaginate quale naufragio avverrà quando un male si congiunge all'altro.

Non meravigliarti se Cristo ha dato il nome di « spini » ai piaceri.

Tu non lo capisci perché sei ebbro della tua passione.

Ma coloro che sono temperanti ben sanno che le delizie terrene pungono più degli spini, corrompono l'anima più degli stessi affanni temporali, e arrecano dolori assai più pungenti sia al corpo che allo spirito.

L'inquietudine non ferisce quanto la sazietà.

Quando infatti l'insonnia, i dolori alle tempie, i mali di testa, gli spasmi addominali colpiscono l'intemperante, considera se tutto questo non reca maggiori sofferenze di qualunque spina.

E come le spine, da qualsiasi parte si tocchino, insanguinano le mani, così gli eccessi del piacere danneggiano i piedi, le mani, la testa, gli occhi e tutte le membra.

Anche i piaceri, come le spine, sono secchi e sterili, ma assai più di quelle feriscono e attaccano i punti più vitali del corpo.

Portano con sé una vecchiaia prematura, ottundono i sensi, annebbiano la ragione, accecano lo spirito più illuminato; rendono il corpo molle e flaccido e lo fanno il deposito più abbondante di immondizia, attirandovi una gran quantità di malanni, aumentandone il peso e ingrossandone eccessivamente la mole: di qui hanno origine molte, continue cadute e frequenti naufragi.

Perché, dimmi, ingrassi così il tuo corpo?

Dobbiamo forse sacrificarti nel mattatoio?

O servirti come una portata a tavola?

Ingrassa pure i polli; anzi, non sarebbe bene neppure ingrassare quelli perché quando sono troppo grassi non sono buoni per una sana alimentazione.

É' un male tanto grande l'eccesso nel mangiare, che persino agli animali risulta dannoso.

Se infatti li rimpinziamo, li rendiamo inutili a se stessi e a noi, in quanto tutto ciò che è superfluo risulta assolutamente indigesto, e i cattivi umori del nostro corpo sono causati da quei cibi grassi.

Gli animali che non sono allevati in tal modo, ma vivono, per così dire, sobriamente, con mangime misurato, lavorando e faticando, questi sono i più utili a sé e agli altri, sia come alimento, sia per tutto il resto.

Coloro, infatti, che se ne alimentano vivono più sani, mentre coloro che mangiano animali ingrassati, diventano simili ad essi, torpidi e facili a prendere malattie e si procurano inoltre una durissima e pesante catena, perché niente fa tanta guerra al corpo e lo danneggia più del piacere; niente lo strazia, l'ottenebra e lo corrompe quanto la dissolutezza.

Chi infatti non rimane colpito dall'insensatezza di questi individui intemperanti, che non hanno per se stessi neppure quella considerazione che hanno i vinai per le loro botti?

Coloro che vendono il vino hanno cura di non riempire le botti più del necessario, nel timore che si spacchino: questi golosi, invece, non ritengono il loro povero stomaco degno di tale precauzione, ma dopo averlo riempito e fatto quasi scoppiare, vi aggiungono vino sino alla gola, al naso, alle orecchie, procurando in tal modo una duplice oppressione allo spirito e a quella forza che regola la vita.

Ti è stata data forse la gola perché tu la riempia fino alla bocca di vino guasto e di altro cibo corrotto?

No, o uomo, non ti è stata data per questo, ma anzitutto per cantare a Dio, per elevare a lui inni sacri, per leggere i comandi e i precetti divini, per dare vantaggiosi consigli al tuo prossimo.

Ma tu, come se l'avessi ricevuta esclusivamente per la tua intemperanza, non le concedi neppure un momento per compiere quella sacra funzione e la sottometti per tutta la tua vita a questa ignominiosa schiavitù.

É come se un tale, presa nelle sue mani una cetra dalle corde d'oro, mirabilmente armonizzata, invece di trarne una varia e perfetta melodia, la ricoprisse d'immondizia e di fango; così fanno costoro. Io chiamo infatti immondizia non il cibo, ma il piacere e l'intemperanza senza limiti.

Tutto quanto va al di là del necessario, non è più alimento, ma veleno.

Solo il ventre fu fatto per ricevere esclusivamente i cibi; mentre la gola, la bocca, la lingua ci sono state date per altri scopi più nobili e importanti.

O, per dir meglio, neppure il ventre serve per accogliere indiscriminatamente gli alimenti, ma per riceverne con misura e moderazione.

E la prova di ciò sta nel fatto ch'esso protesta in mille modi quando lo danneggiano con eccessi, e non solo protesta, ma si vendica dell'aggravio che gli facciamo imponendoci i più severi castighi.

Comincia col punire i piedi, che ci conducono a questi sregolati conviti.

Poi lega e impedisce le mani, che l'hanno ricolmato di tanti e tali cibi.

Molti, inoltre, hanno avuto distorta la bocca, stravolti gli occhi e la testa. Come un servitore, se gli si comanda qualche lavoro che supera le sue forze, molte volte, fuori di sé, insulta e maledice chi lo ha caricato oltre misura, così anche il ventre, oltre a colpire queste membra per la violenza subita e lo sforzo fatto, danneggia e rovina il cervello stesso.

Dio nella sua previdenza permette che dall'intemperanza derivi tale danno: così, se tu non vivi volontariamente la virtù, impari anche contro la tua volontà a essere sobrio e moderato per il timore di così grande rovina.

Conoscendo, quindi, tali conseguenze, fuggiamo il piacere e l'intemperanza nel cibo e procuriamo di essere moderati: godremo così la salute del corpo e libereremo l'anima da ogni infermità.

Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo di san Matteo, 44,4-5

35. - Danno per tutto l'uomo a motivo dell'intemperanza nel mangiare e nel bere

Il Signore ha voluto che noi fossimo congiunti a un corpo, il quale non può sopravvivere in altro modo se non nutrendosi di cibo in maniera non eccessiva: ciò che favorisce oltremodo la salute e la buona condotta del fisico.

Forse che non vedete ogni giorno provenire dalle mense abbondanti e dalla smodata ghiottoneria infiniti generi di malattie?

Donde vengono le podagre? Donde i mali di testa?

Donde l'abbondanza di umori corrotti? Donde gli infiniti altri malanni?

Non dall'intemperanza, forse, e dal bere vino più di quanto sia opportuno?

Come la nave, che si riempie di acqua in modo tale da non poter essere svuotata, tosto affonda; così anche l'uomo, una volta abbandonatosi alla crapula e all'ubriachezza, precipita a capofitto e sommerge la sua ragione.

Alla fine egli giace come un cadavere vivo, abile spesso a operare il male, ma per tutte le cose buone non migliore di un morto.

Perciò vi scongiuro, conformemente alla parola del beato Paolo, affinché non vi prendiate cura della carne per soddisfarne le concupiscenze ( Rm 13,14 ), perché possiate sopravvivere e dedicarvi con maggior zelo alle cose spirituali.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 10

36. - Non il vino, ma l'ubriachezza è proibita

Chi è dato al vino, lo pensa continuamente con brama, e non ne distoglie il pensiero; si tira addosso la maledizione, come chi non osserva la legge.

A chi i guai, a chi la confusione, se non a coloro che indugiano presso il vino o si intrattengono nelle bettole, e per il loro bere smoderato si fanno ebbri, sfrenati e stolti, come animali irragionevoli?

Tu non sai più se Dio ti ha dato o no intelletto e ragione.

Ti ubriachi per la tua troppa sete, ti fai stolto, esci di senno tanto, che non ti si può più considerare neppure uomo.

Anzi, stai addirittura al di sotto degli animali, tanto sei sciocco e tanto sragioni: sembri addirittura legno o pietra insensibile, per il tuo smodato uso di vino.

Solo all'inizio il corpo si sente bene, quando si dà al bere, ma poi le mani, nel lavoro, si addormentano; i piedi, nell'andare, sono come inceppati; le orecchie sono quasi sorde ai suoni, gli occhi quasi non vedono più, il cuore perde i sentimenti; tutte le membra sono ottenebrate, cieche e confuse.

Questo è il vizio e lo sviamento di coloro che sono schiavi del bere.

Non avranno parte al regno di Dio, ma saranno condannati con gli adulteri e gli omicidi: Dio infatti, creandoli, ha dato loro la ragione, ma essi l'hanno persa per le loro passioni, per lo smodato uso di vino.

Dove sono, dove vanno, da dove vengono: di tutto ciò non sanno più niente.

I fumi del vino hanno ottenebrato i loro sensi, hanno sconvolto e addormentato la loro ragione, hanno distrutto i loro pensieri: il bere eccessivo li ha indeboliti tremendamente.

Non meritano, dunque, che grandi tormenti e un'ira tremenda cada su di loro?

Erano dotati di ragione e di loquela: la lussuria li ha resi muti e irragionevoli.

Per questo Paolo ci ammonisce: Non ubriacatevi di vino, perché in ciò vi è lussuria ( Ef 5,18 ).

Già nell'Antico Testamento coloro che entravano nel Tabernacolo si astenevano pienamente dal vino.

Quanto più noi, nel Nuovo Testamento, dobbiamo vivere sobri, davanti allo sguardo di Dio, per non essere travolti dall'ebbrezza della lussuria e giudicati come i figli di Aronne, che per la loro scostumatezza furono distrutti da un fuoco improvviso: pauroso esempio per i sacerdoti lussuriosi.

Perciò dice la Scrittura: Il vino è petulante e l'ubriachezza nociva; chi vi si abbandona, non ha senno ( Pr 20,1 ).

Per gli assetati basta certo l'acqua, che acquieta la sete e rinfresca lo spirito: è fresco infatti lo spirito di chi beve acqua, e sano il corpo di chi prende cibo secco.

Ma io so bene che tu mi obietterai: « Perché dunque egli ha creato il vino, se intendeva proibire di berlo? ».

Ma egli non proibì di berlo, solo di ubriacarsene; del resto ha creato la donna per il matrimonio, proibendo l'impudicizia; ha creato il ferro per usarlo nei lavori agricoli, proibendo di adoperarlo per uccidere.

In tal modo ha creato il vino per la nostra debolezza, proibendone l'uso smodato.

Egli non biasima il bere, ma punisce l'ebbrezza.

Anzi, il vino è addirittura necessario per chi è ammalato, per chi è triste e anche per il grande sacramento, proprio come sta detto: Il vino è per il triste, è la gioia di coloro che sono in afflizione ( Pr 31,6 ).

Per sovvenire ai bisogni vitali bastano pane, acqua e vesti; tutto il resto è voluttuario e non necessario.

Alcuni vi sono incatenati per l'abitudine o per libera scelta, altri, con la volontà e l'abitudine, se ne sono liberati.

Non lasciamoci dunque ridurre in schiavitù, per l'abitudine, dal pessimo, diabolico vizio del bere. No!

Con ferma volontà teniamoci lontani dall'eccesso nel mangiare e dalla smoderatezza nel bere, per poter osservare sempre i suoi comandamenti; manteniamo l'ordine nei nostri costumi, conduciamo una vita virtuosa, diamoci al santo amore, osserviamo con fedeltà il digiuno, attendiamo alla preghiera, compiamo opere di misericordia e sforziamoci di essere modesti, di farci santi e salvare la nostra anima.

Giovanni Mandakuni armeno, Il vizio del bere, 8-10

37. - Il vino è opera di Dio, l'ubriachezza, invece, del diavolo

Bere troppa acqua provoca non poche malattie, ma assai di più e di maggior gravità ne causa all'anima e al corpo l'intemperante pratica del vino, recando nella mente il conflitto delle passioni e l'assurda tempesta dei pensieri e infiacchendo le energie fisiche.

Non così, infatti, la terra danneggiata dall'abbondanza delle acque continuamente si consuma, come l'energia fisica s'infiacchisce finendo con lo scomparire, innaffiata di continuo dal vino bevuto.

Fuggiamo pertanto l'una e l'altra intemperanza, sia curando la salute del corpo che respingendo le sue lascivie.

Il vino, infatti, ci è stato dato da Dio, non per ubriacarci, ma per mantenerci sobri; per allietarci, non per rattristarci.

Infatti sta scritto: Il vino allieta il cuore degli uomini ( Sal 104,15 ): tu, invece, ne fai occasione di tristezza.

Coloro che sono ebbri oltre misura, infatti, hanno l'animo pesante, poiché la loro mente è offuscata da spesse tenebre.

É un'ottima medicina se viene usato con più adeguato senso della misura.

Questo brano è utile anche contro gli eretici, che calunniano le cose create da Dio; infatti, se il vino fosse da annoverarsi tra le cose proibite, Paolo non l'avrebbe permesso, non avrebbe esortato a servirsene.

E non soltanto contro gli eretici, ma anche contro i più sprovveduti fra i nostri fratelli i quali, dopo aver visto taluni stravolti dall'ubriachezza, tralasciando di rimproverare quelli, calunniano il frutto donato da Dio, dicendo: « Se il vino non ci fosse! ».

Diciamo però a costoro: « Se l'ubriachezza non ci fosse! ».

Il vino, infatti, è opera di Dio; l'ubriachezza, invece, del diavolo.

Non è il vino a provocare l'ebbrezza, ma è l'intemperanza: non accusare l'opera di Dio, ma incolpa la follia del suo servo.

Tu, invece, senza punire e correggere il peccatore, scagli oltraggi contro il benefattore?

Orbene, quando udiamo affermare da certuni tali cose, facciamoli tacere; non l'uso, infatti, ma l'abuso conduce all'ubriachezza, che è poi radice di tutti i mali.

Il vino ci è stato dato per raddrizzare la debolezza della carne, non per opprimere la forza dell'anima; per eliminare le malattie del corpo, non per distruggere la salute dell'anima.

Giovanni Crisostomo, Omelie sulle statue, 1,4-5

37a. - L'invidia, causa del primo omicidio

E subito si sparse la fama di lui in tutta la regione della Galilea ( Mc 1,28 ).

Non si diffuse la sua fama nella Giudea o a Gerusalemme: i dottori giudei, che erano rosi dall'invidia per Gesù, non permettevano che la sua fama uscisse dalla Galilea.

Infatti Pilato e gli altri sapranno dell'arresto di Gesù da parte dei farisei per la loro invidia.

La fama di Gesù raggiunse le loro orecchie, che l'invidia non aveva chiuso.

Perché dico tutte queste cose? Perché la sua fama si diffuse in tutta la Galilea; raggiunse ogni villaggio della Galilea, e non arrivò in nessun angolo della Giudea.

Perché, ripeto, dico tutto questo?

Perché l'anima, una volta caduta in preda all'invidia, è difficile che riesca a tornare alla virtù.

É quasi impossibile guarire l'anima che l'invidia ha posseduto.

Fu l'invidia la causa del primo omicidio e del primo parricidio.

Vi erano due uomini nel mondo.

Abele e Caino: il Signore gradì i doni di Abele, non quelli di Caino.

Costui avrebbe dovuto imitare la virtù del fratello, ma non lo fece; al contrario uccise colui i cui doni erano stati graditi al Signore.

Girolamo, Commento al Vangelo di san Marco, 1,28

38. - Rimedio contro la malattia dell'invidia

Fuggiamo questo intollerabile vizio.

Esso è insegnamento del serpente, parto dei demoni, seme del nemico, garanzia del supplizio, ostacolo alla pietà, strada verso la geenna, privazione del regno.

Gli invidiosi, inoltre, si riconoscono chiaramente dal loro stesso sembiante.

I loro occhi sono aridi e oscuri, le palpebre abbassate, le sopracciglia aggrottate, l'animo turbato dalla violenta passione, incapace di una valutazione obiettiva delle cose.

Essi, per di più, non potrebbero compiere alcuna azione virtuosa né sarebbero in grado di parlare ponderatamente e in bella maniera né potrebbero mostrarsi all'altezza di alcun'altra delle cose auspicabili e ammirevoli.

Come gli avvoltoi, volando lontano dai prati e dai luoghi ameni e profumati, si dirigono verso quelli maleodoranti; e come le mosche, trascurando ciò che è sano, si accostano alle ferite; allo stesso modo gli invidiosi non prestano attenzione allo splendore della vita e alla grandezza delle buone opere, ma si slanciano verso le cose marce e putride.

E se viene fuori uno sbaglio, come spesso capita nella vita umana, essi lo danno subito in pasto al pubblico e vogliono così bollare gli uomini, come malvagi pittori che attraverso i profili dei loro ritratti rendono visibile un naso curvo, una gobba o un qualsiasi altro difetto di natura o casuale.

Essi sono poi abili nel disprezzare una cosa lodevole, dopo averla travisata in peggio, calunniando la virtù dal punto di vista del vizio corrispondente.

Una persona forte, infatti, la chiamano audace e temeraria; una temperante, stupida; il giusto, lo definiscono crudele; il prudente, ipocrita.

Ciò che è magnifico lo rigettano come volgare; il liberale lo disprezzano come prodigo; il risparmiatore come avaro; insomma, qualsiasi genere di virtù, presso di loro prende il nome del vizio opposto.

Orbene, limiterò forse il mio discorso alla denuncia di questo vizio?

Ma questa sarebbe come la metà di una cura.

Mostrare, infatti, all'ammalato la gravità della sua malattia perché si sottoponga a una cura adeguata onde fugare il male, non sarebbe inutile; tuttavia, abbandonarlo a questo punto, senza cioè averlo ancora restituito alla buona salute, significa lasciare il malato in preda al suo male e disperato.

E allora, come si potrebbe fare in modo che noialtri, o non contraiamo affatto questa malattia fin dall'inizio oppure, una volta guariti da essa, ne restiamo lontani?

Ritenendo anzitutto come non vi sia nulla di grande nelle cose umane: né le ricchezze materiali né la gloria che poi marcisce né la buona salute fisica.

Noi non crediamo, infatti, che il sommo bene si trovi nelle realtà transitorie, ma siamo invece chiamati alla partecipazione degli autentici beni eterni.

Il ricco, perciò, non è ancora da ritenersi beato per via delle sue ricchezze né potente per l'ampiezza della sua autorità e dignità né forte per l'energia fisica né sapiente per la grande facilità di parola.

Questi, infatti, sono strumenti della virtù per coloro i quali se ne servono rettamente, ma non racchiudono affatto in se stessi la felicità.

Chiunque, perciò, si serve male di essi, è un miserabile, non diversamente da colui il quale, ricevuta una spada per ferire i nemici, colpisca spontaneamente se stesso.

Qualora, invece, si serva rettamente delle cose presenti e sia dispensatore dei beni ricevuti da Dio e non li accolga per servire i propri interessi e il proprio piacere, è degno di lode e d'amore per la sua sollecitudine verso i fratelli e per la sua indole liberale e benefica.

Quando qualcuno, poi, eccelle per la sua prudenza e si distingue per la sua capacità di parlare di Dio e interpretare i sacri testi, non invidiarlo e non desiderare che egli taccia soltanto perché, con la grazia dello Spirito Santo, egli ottiene ammirazione e lode da parte degli ascoltatori.

Che egli sia tale, infatti, costituisce un bene per te: per il tramite del fratello ti è trasmesso il dono della dottrina, se soltanto vuoi accoglierlo.

Nessuno, dunque, otturi la fonte che zampilla né celi la vista del sole che illumina né provi invidia alcuna; preghi, piuttosto, affinché anche lui ne riceva beneficio.

Perché allora non porgi le orecchie con letizia alla parola spirituale che scaturisce nella Chiesa e, traendo origine dai doni divini, si espande piamente come una fontana?

Perché non ne trai beneficio anche tu, accogliendola con animo grato?

Al contrario, ti dà persino fastidio l'applauso degli ascoltatori e vorresti che nessuno ne fruisse e la lodasse.

Quale giustificazione potrà avere un simile comportamento di fronte al giudice dei nostri cuori?

É dunque conveniente amare e ascoltare colui che abbonda di ricchezze ed è provvisto di una buona salute e ha la capacità di conoscere grandi cose, sempre che, naturalmente, si serva in maniera retta delle cose che possiede, donando generosamente del suo denaro ai poveri, aiutando gli infermi nel corpo e ritenendo tutto ciò che possiede non più suo che di qualsiasi altro ne avesse bisogno.

Viceversa, l'uomo che non fosse così disposto riguardo a tutto ciò, converrebbe stimarlo misero piuttosto che degno d'invidia, avendo in tal modo maggiori opportunità per essere cattivo: il suo, infatti, sarebbe un correre verso la morte con un più gravoso bagaglio e con maggior fatica.

Se il sostegno offerto dalla ricchezza, infatti, favorisse l'ingiustizia, il ricco sarebbe un miserabile; qualora, invece, esso contribuisca alla pratica della virtù, non vi sarebbe allora alcun posto per l'invidia, poiché tutti ne trarrebbero beneficio ( a meno che qualcuno non sia talmente malizioso da invidiare anche ciò che è utile a se stesso ).

In una parola, con lo spirito sollevato al di sopra delle cose umane e con gli occhi intenti verso l'autentico e lodevole bene, sarà molto difficile per te giudicare beata e degna d'invidia qualsiasi cosa suscettibile di morte e terrena.

Sarebbe impossibile, infatti, per colui che fosse così disposto e non nutrisse ammirazione alcuna verso le realtà mondane, fosse poi afflitto dall'invidia.

Se poi sei assolutamente bramoso di gloria e non sopporti perciò di startene al secondo posto, concentra allora il tuo sforzo ad acquisire la virtù ( anche questa, infatti, è oggetto d'invidia ).

Sia però assolutamente lungi da te l'aspirazione, qualunque essa sia, ad arricchire o a ottenere lode nelle cose mondane!

Non a questo, infatti, sei stato destinato; sii, invece, giusto e temperante e prudente e forte e paziente nei travagli ai quali piamente ti rassegnerai.

Così infatti ti procurerai la salvezza e conseguirai, per beni maggiori, una gloria più grande.

La virtù è in nostro potere, infatti, e può essere conseguita da chi vi si impegna; al contrario, l'abbondanza di ricchezze, l'eleganza del corpo e l'elevatezza della dignità non sono in nostro potere.

Se dunque la virtù è un bene maggiore e più duraturo ed è tenuta in maggior conto presso chiunque, dobbiamo perseguirla.

Essa, però, non può sbocciare nell'anima se non dopo che questa abbia abbandonato ogni vizio e si sia purificata da qualsiasi invidia.

Basilio il Grande, Omelia sull'invidia, 5

39. - I danni dell'invidia e della gelosia per i singoli e per la Chiesa

Molto si estende la rovina, molteplice e tristemente feconda, della gelosia.

É la radice di tutti i mali, la sorgente delle stragi, il vivaio dei delitti, la sostanza delle colpe.

Da lei sorge l'odio, da lei procede l'animosità.

La gelosia infiamma l'avarizia, perché non può essere contento del suo, chi vede l'altro più ricco di sé.

La gelosia eccita l'ambizione, se si vede qualcuno maggiormente onorato.

Quando la gelosia acceca il nostro senso e soggioga al suo potere l'intimo della nostra mente, si disprezza il timore di Dio, si trascura l'insegnamento di Cristo, non si pensa al giorno del giudizio.

La superbia si gonfia, la crudeltà si esacerba, la perfidia si erge, l'impazienza si scuote, furoreggia la discordia e ferve l'ira; e chi è in potere altri non può più reggere e reprimere sé.

Si rompe così il vincolo della pace donataci dal Signore, si viola la carità fraterna, si adultera la verità, si scinde l'unità, ci si getta nell'eresia e nello scisma, si disprezzano i sacerdoti, si invidiano i vescovi - lamentandosi di non essere stati nominati al posto loro - e si sdegna di riconoscere i propri superiori.

Così ricalcitra e si ribella chi è superbo per l'invidia e pervertito dalla gelosia: chi è nemico, per animosità e livore, non dell'uomo, ma della sua dignità.

Ma quale tignola per l'anima, quale muffa per il pensiero, quale ruggine per il cuore, invidiare in altri, o la sua virtù, o la sua felicità, odiare cioè in lui o i suoi meriti, o i benefici divini, convertire in male proprio il bene altrui, esser tormentati dalla prosperità dei ricchi, far propria pena la gloria degli altri, e radunare quasi nel proprio tetto i propri carnefici, farsi cioè torturare dai propri pensieri e dai propri sensi, lasciarsi da loro lacerare con sofferenze profonde, strappare a brani l'intimo del cuore con le unghie del rancore.

In tale stato non si può gustare cibo o apprezzare bevanda: e si sospira sempre, si geme e ci si duole; mai gli invidiosi depongono il loro livore, giorno e notte il loro petto è internamente lacerato senza posa.

Gli altri mali hanno un termine e ogni sentimento delittuoso, una volta compiuto il delitto, si placa … ma l'invidia non ha termine: è un male sempre vivo, un peccato senza fine; più chi è oggetto di invidia avanza e ha successo, più l'invidioso arde in un maggiore fuoco di gelosia …

Perciò il Signore, preoccupandosi di questo pericolo e che nessuno incappasse nel laccio mortale dell'invidia contro i fratelli, interrogato dai suoi discepoli chi tra loro fosse maggiore, disse: Chi sarà il minimo fra tutti voi, costui sarà grande ( Lc 9,48 ).

Cipriano, La gelosia e il livore, 6.10

40. - L'invidia e la gelosia sono più rovinose del fuoco e della spada

Vi sono molti che ardono di invidia quando vedono che il loro fratello è felice, o ricco, o abile, oppure che da molti viene tenuto in gran conto per la sua oratoria.

Pensando a sé, essi si struggono e si rammaricano, spargono calunnie sul suo conto, accusando così la volontà di Dio che ha donato a quello la felicità.

Metti pure che l'invidioso sopporti molte fatiche, che si eserciti in molte virtù, che possegga purità e castità, che si consumi nel digiuno e nella penitenza, nel sacco e nella polvere; metti pure che dai suoi occhi sgorghino due continue polle di lacrime giorno e notte, che si riduca in povertà per la sua beneficenza, che operi grandi meraviglie, che per la sua stupenda preghiera o per le sue lodi a Dio sia simile agli angeli più alti; o perfino che subisca la morte del martire e il fuoco lo riarda: se nel suo cuore non è libero dall'invidia e dalla cattiveria, la sua condizione è peggiore di quella degli assassini e degli adulteri, egli è più ingiusto degli empi che stanno conficcati nel fango del peccato.

Vi è dunque qualche vizio peggiore dell'invidia e della gelosia?

Esse rovinano peggio del fuoco distruggitore e della spada assassina, e mandano tutto in rovina, dove dominano.

Chi può resistere in questa fiamma, e dove mai anime tanto demoniache otterranno, per grazia, il perdono?

Non vi è delitto che si possa paragonare all'invidia e all'astio, che tengono sempre vincolati al peccato: mai e in nessun luogo, di giorno e di notte, ci si asterrà dall'assassinio: senza tregua ci si porterà addosso il proprio delitto.

Chi sarebbe mai in grado di dissipare le nebbie tenebrose che si diffondono sull'anima dell'uomo astioso, e che lo rendono schiavo?

Nessuno gli toglierà mai il peso amaro del suo astio omicida.

Se costoro pur vengono alla chiesa, se pure si consumano in preghiere e in pianto, se pure versano torrenti di lacrime, compiono grandi opere di carità: essi non sono puri da omicidio.

Com'è possibile che tale gente ottenga perdono e clemenza?

Giovanni Mandakuni armeno, L'amore, l'invidia e la gelosia, 6-8

41. - La gioia e la tristezza del cuore

Spesso il nostro cuore è tutta esultanza e noi siamo pieni di una tale esuberanza di sentimenti intimi, che non solo la parola non sa esprimere, ma che neppure il senso può seguire.

La preghiera è allora pura e pronta e lo spirito, pieno di frutti spirituali, sente che le sue preghiere - perfino nel sonno - sono lievi ed efficaci, e giungono fino a Dio.

Ma all'improvviso, senza causa apparente, ci sentiamo tanto pieni di ansietà, siamo oppressi da una specie di dolore irragionevole, che non solo sentiamo inaridire i nostri sensi intimi, ma la cella ci fa orrore, la lettura nausea e la stessa nostra preghiera è instabile e vacillante, tanto che, nonostante i nostri gemiti e i nostri sforzi, la nostra mente non può venire ricondotta al suo precedente orientamento e che, quanto più intensamente il nostro sguardo si rivolge a Dio, con tanta più veemenza siamo rapiti dalle distrazioni e dai pensieri lubrichi.

Ogni frutto spirituale si vanifica così in noi, tanto che né il desiderio del regno dei cieli, né la meditazione dell'inferno possono svegliarci da questa specie di sonno mortale.

A che si deve tutto ciò?

Gli anziani ci hanno tramandato tre motivi di questa sterilità spirituale: essa deriva o da negligenza nostra, o dall'opera del diavolo, o da disposizione di Dio, che vuol metterci alla prova.

Deriva da nostra negligenza quando noi, mostrandoci troppo tiepidi e remissivi con i nostri vizi anteriori, nutrendoci, per ignavia e oziosità, di pensieri nocivi, lasciamo germogliare nella terra del nostro cuore rovi e spini, che quando pullulano ci rendono sterili, privi di ogni frutto spirituale e di santa contemplazione.

Si deve invece all'opera del demonio quando talvolta, pur essendo tutti noi dediti alle opere di bene, per la sottile astuzia del nostro avversario che penetra nella nostra mente, veniamo distolti dalle nostre ottime intenzioni, o non accorgendocene, o contro voglia.

Se si tratta invece di disposizione e di prova divina, il motivo può essere duplice.

Primo, perché noi, abbandonati un po' da lui, sperimentando umilmente l'infermità del nostro animo, non ci inorgogliamo punto della nostra precedente purezza di cuore dovuta alla sua visita, e, sentendoci da lui abbandonati, comprendiamo che il nostro precedente fervore ci era stato concesso non per nostra opera, ma per sua degnazione e che ora dobbiamo di nuovo impetrarlo per sua grazia e illuminazione.

Il secondo motivo per cui veniamo messi a questa prova è perché si manifestino la nostra perseveranza, la costanza della nostra mente e i nostri desideri: cioè con quanta tensione di cuore e istanza di preghiere sappiamo supplicare la visita dello Spirito Santo; e allo stesso tempo anche perché, rendendoci conto con quanta fatica si impetra questo gaudio spirituale da noi perduto e questa pura letizia, stiamo attenti a custodirla con maggior sollecitudine, quando l'avremo ritrovata, e a mantenerla in noi con maggiore alacrità.

Di solito infatti si custodisce con più negligenza ciò che si crede poter facilmente riacquistare.

Tutto ciò prova evidentemente che la grazia e la misericordia di Dio opera sempre in noi il bene.

Giovanni Cassiano, Conferenze, 4,2-5

42. - Le continue distrazioni dell'anima dedita alle realtà celesti

Molti santi vengono distratti e ritardati dalla contemplazione del sommo Bene perché impegnati in faccende terrene, pur trattandosi di opere buone.

Chi, infatti, strappa il povero dalle mani dei prepotenti, chi difende il misero e il diseredato da chi li distrugge, chi spezza i molari agli iniqui strappando dai loro denti ciò che hanno rapinato, chi dunque in queste opere di altruismo sa contemplare la gloria della divina maestà con mente quieta?

Chi, procurando cibo ai poveri, accogliendo con benevola umanità le turbe che a lui si rivolgono, sa contemplare, mentre ha la mente piena di sollecitudine per le necessità dei fratelli, l'immensità della beatitudine superna?

E chi, tutto preso dalle cure e dalle tribolazioni della vita presente, contempla lo stato della vita futura col cuore sollevato sopra tutti i contagi terreni?

Perciò il beato Davide, ritenendo questo l'unico bene dell'uomo, desiderava stare unito intimamente a Dio e diceva: Ma per me è bene aderire a Dio e riporre nel Signore Iddio la mia speranza ( Sal 73,28 ).

E l'Ecclesiaste, convinto che nessun uomo può ottenere ciò senza errore, diceva: Non vi è uomo giusto sulla terra, che operi il bene e non pecchi ( Qo 7,20 ).

Di chi mai, infatti, quantunque sia sommo fra tutti i giusti e i santi, si può credere che, legato con i vincoli di questo corpo, abbia potuto possedere questo bene, tanto da non allontanarsi mai dalla divina contemplazione di colui che solo è buono, neppure per un istante, purificato da ogni pensiero terreno?

Che non si sia mai dato cura per il cibo, per il vestito e le altre necessità del corpo, non si sia mai preoccupato di dover ospitare i fratelli, di dover cambiare abitazione, di dover costruire la cella, e non abbia mai desiderato qualche aiuto umano o non sia stato tormentato dalla povertà, tanto da non dover mai incorrere nel rimprovero del Signore: Non siate solleciti per la vostra vita, di che mangiare, né del vostro corpo, di che vestire ( Mt 6,25 )?

Affermiamo anzi con certezza che lo stesso apostolo Paolo, che per il numero delle fatiche e delle sofferenze aveva superato tutti i santi, non poté evitare con fiducia questo rimprovero divino, poiché egli stesso negli Atti degli apostoli attesta ai discepoli: Voi stessi sapete che al necessario per me e per coloro che erano con me provvidero queste mie mani ( At 20,34 ); e scrivendo ai Tessalonicesi testimonia di aver lavorato giorno e notte con fatica e sofferenza ( 2 Ts 3,8 ).

E quantunque tutto ciò gli fosse meritorio e gli preparasse una grande ricompensa, tuttavia la sua mente, per quanto santa e sublime, non poteva escludere che quelle preoccupazioni di opere terrene non lo distraessero alquanto dalla contemplazione di Dio.

Vedendo dunque di quanti e quali frutti stava arricchendosi, ma pesando interiormente anche il bene della divina contemplazione, quasi ponendo su un piatto della bilancia il risultato di così grandi opere e sull'altro piatto il diletto della contemplazione celeste, lo rallegrano, da una parte, gli immensi meriti delle sue fatiche, dall'altra il desiderio di un'inseparabile unione a Cristo lo invita a sciogliersi dalla carne, finché tutto emozionato esclama: Non so che scegliere, sono attratto infatti da due parti: desidero sciogliermi e essere con Cristo, che è molto meglio, e desidero rimanere in questa carne, che è più necessario per voi ( Fil 1,23-24 ).

Pur avendo dunque preferito per molti motivi l'eccellenza di questo bene celeste, cioè l'unione con Cristo, anche a tutti i frutti della sua predicazione, viene tuttavia attratto e soggiogato dallo splendore della carità, senza la quale nessuno merita Iddio; e per il bene di coloro ai quali, come nutrice, dà il latte del Vangelo, non rifiuta neppure la separazione da Cristo, per lui tanto nociva, se fosse necessaria per gli altri.

A tale scelta viene spinto dalla travolgente potenza del suo amore per la quale, se fosse possibile, a ottener la salute dei fratelli sarebbe pronto a scegliere anche il male supremo, la dannazione.

Dice infatti: Preferirei essere io separato da Cristo per i miei fratelli, che mi sono apparentati nella carne, cioè gli israeliti ( Rm 9,3 ).

Cioè: Vorrei essere condannato non solo alle pene temporanee, ma anche alle eterne, se fosse possibile che tutti gli uomini potessero giungere all'unione con Cristo.

Sono certo infatti che è più utile a Cristo, e a me, la salvezza di tutti gli uomini che la mia sola.

Per poter raggiungere perfettamente, dunque, questo bene sommo - cioè il godimento della vista di Dio e l'unione indefettibile a Cristo - desidera di sciogliersi da questo corpo, perché, caduco e inceppato dalla sua fragilità e dalle sue molte necessità, inevitabilmente ci stacca dall'unione con Cristo.

Infatti è impossibile che una mente schiacciata da tante cure oppressa da tanti pensieri, possa godere sempre della vista di Dio.

Dove troviamo, infatti, un esercizio di perfezione tanto costante, un proposito tanto alto, di cui l'astuto avversario qualche volta non si rida?

Chi ha ricercato il segreto della solitudine e si è allontanato completamente dal consorzio dei mortali, tanto da non cadere mai in pensieri superflui e venir distolto, per faccende e cose terrene, da quella contemplazione di Dio, che sola è vera e buona?

Chi mai poté conservar sempre il fervore dello spirito e non fu mai trasportato dai pensieri cattivi durante la stessa orazione, cadendo all'improvviso dal cielo sulla terra?

Chi di noi, per non parlare di tutto l'altro tempo di distrazione, proprio in quel momento in cui, supplicando Iddio, eleva la mente in alto, quasi colpito da una specie di stordimento, non pecca involontariamente, in quella stessa azione per la quale sperava ottenere il perdono dei suoi peccati?

Chi, dico io, è tanto esercitato e vigilante, da non distogliere mai l'animo, mentre canta i salmi, dal senso della Scrittura?

Chi è tanto familiare a Dio e tanto a lui congiunto, da poter gioire di aver adempiuto, anche per un giorno solo, il comando dell'apostolo di pregare sempre, senza interruzione alcuna?

Giovanni Cassiano, Conferenze, 23,4-7

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