Teologia dei Padri

Indice

Lo stato, le autorità e gli uffici pubblici

1. - La vera felicità degli uomini e dei popoli

Vorrei cercare un po' se sia veramente ragionevole e intelligente gloriarsi della grandezza e dell'estensione dell'impero, non potendosi dimostrare che gli uomini siano felici tra le continue stragi di guerra e tra il sangue di concittadini o di nemici, ma pur sempre sangue umano, attanagliati sempre da oscuro timore e da brame cruente, tanto da poter paragonare la loro felicità allo splendore fragile del vetro, che si teme sempre possa andar in pezzi con disastro tanto maggiore, quanto più improvviso.

Per giudicar più facilmente ciò, non lasciamoci gonfiare da una vana verbosità, non lasciamo ottundere la forza del nostro ragionamento da parole altisonanti come: popoli, regni, province; consideriamo invece due individui ( ogni singolo uomo, infatti, è un elemento - come ogni lettera nel discorso - dello stato e del regno, per quanto vaste siano le terre su cui si estende ); poniamo che l'uno dei due sia povero, o piuttosto di condizioni modeste; l'altro invece straricco.

Ma il ricco sia sempre angosciato dai timori, afflitto dalle preoccupazioni, riarso dalle brame, mai sicuro, sempre inquieto, affannato per le continue inimicizie e contese; aumenti, sì, il suo patrimonio, e immensamente, ma con esso aumentino anche le sue preoccupazioni amarissime.

L'altro invece abbia un possedimento limitato, ma sufficiente: caro ai suoi in pace piena e dolcissima con i parenti, i vicini e gli amici; intimamente religioso, equilibrato nel pensiero, sano di corpo, sobrio nella vita, casto di costumi, sicuro in coscienza.

Non so chi sarà tanto stolto da dubitare un istante solo chi mai preferire.

Come per questi due individui, così per due famiglie, così per due popoli, così per due regni, si avvera la stessa giusta regola: e se la consideriamo attentamente, se correggiamo così il nostro pensiero, vedremo facilmente dove stia la felicità e dove invece la vanità.

Se si adora il vero Dio e lo si serve con costumi retti, schietti e religiosi, è utile che i buoni estendano in lungo e in largo il loro regno; ma ciò non è tanto utile a loro, quanto a quelli su cui regnano.

Per quanto li concerne, infatti, bastano loro, per ritenersi veramente felici, la pietà e la probità, che sono grandi doni di Dio, con cui si passa bene la vita di quaggiù e poi si ottiene la vita eterna.

Che in questa terra, dunque, regnino i buoni, non è tanto a loro vantaggio, quanto a vantaggio della realtà umana; che invece regnino i cattivi, è un maggior danno per i cattivi stessi che devastano le loro anime con una maggior licenza nelle scelleratezze; ma a coloro che, da loro oppressi, li servono, non nuoce se non l'iniquità propria.

Qualunque sia la sofferenza, infatti, cui gli iniqui assoggettano i giusti, non è pena della colpa, ma prova della virtù.

Perciò il buono, anche se è schiavo, è libero: il cattivo, anche se regna, è schiavo; è schiavo non di un solo uomo, ma - cosa ben più grave - di tanti padroni quanti sono i suoi vizi.

Parlando di costoro dice la divina Scrittura: Ognuno è schiavo di quello da cui si lascia vincere ( 2 Pt 2,19 ).

Agostino, La città di Dio, 4,3

2. - La felicità degli stati non è riposta nei beni terreni

La sacra Scrittura mostra chiaramente che lo stato viene reso beato solo da ciò che rende beato anche il singolo uomo.

Così parla e prega in essa un uomo ripieno di Spirito Santo: Liberami dalle mani dei figli degli stranieri, la cui bocca proferisce vanità, la cui destra è destra d'iniquità.

I loro figli, come piante novelle nel vigore giovanile; le loro figlie, abbigliate e cariche di ornamenti, somigliano a un tempio.

I loro granai sono pieni, rigurgitano da ogni parte.

Le loro pecore sono feconde ed escono a branchi; le loro vacche sono grasse.

Non c'è breccia nei loro muri né passaggio, né grido nelle loro piazze.

Hanno detto: Beato il popolo che ha tali cose.

Beato il popolo che ha per suo Dio il Signore! ( Sal 144,11-15 ).

Vedi come solo dagli stranieri - cioè da coloro che non hanno parte alla rinascita che ci rende figli di Dio - un popolo viene proclamato beato per la sua sovrabbondanza di beni terreni.

Il salmista supplica di essere liberato dalle loro mani: potrebbe venir tratto a simile mentalità a tale empietà.

Siccome la loro bocca proferisce vanità, essi proclamano felice il popolo cui toccano i beni menzionati, mentre in essi consiste solo la felicità che cercano gli amici di questo mondo.

Per questo la loro destra è una destra di iniquità: perché cioè hanno preferito ciò che avrebbero dovuto posporre, come si pospone la sinistra alla destra.

Se si possiedono questi beni, non bisogna riporre in essi la beatitudine: devono rappresentare l'accessorio, non certo l'interesse principale.

Possono stare solo al secondo posto, non certo al primo.

Se a costui che desidera di essere salvato e liberato dagli stranieri proclamanti beato il popolo fornito di tali beni noi chiedessimo: « Qual è il tuo pensiero? Quale popolo tu proclami beato? », egli non risponderebbe: « Beato il popolo che possiede la virtù in se stesso ».

Se parlasse così, avrebbe pur fatto una distinzione fra questo popolo e quello che ripone la propria beatitudine nel benessere visibile e corporeo, ma non si sarebbe innalzato al di sopra di ogni vanità e stoltezza.

Infatti, come dice la sacra Scrittura in un altro passo: Maledetto chiunque pone la sua speranza in un uomo ( Ger 17,5 ).

Dunque nessuno può confidare neanche in se stesso, poiché anch'egli è un uomo.

Per oltrepassare quindi le linee di confine di tutte le falsità e pazzie menzognere e per collocare la felicità in ciò in cui veramente consiste, egli soggiunge: « Beato il popolo che ha per suo Dio il Signore ».

Vedi dunque da chi bisogna richiedere ciò che tutti, sapienti e ignoranti, profondamente desiderano; ma molti non sanno, nel loro superbo errore, da chi lo si deve richiedere e da chi lo si riceve.

In un altro salmo vengono biasimati anche costoro che confidano nelle loro forze, come quelli che si rallegrano per l'abbondanza delle loro ricchezze ( Sal 49,7 ), cioè sia i sapienti di questo mondo, sia i nemici della sapienza terrena, che proclamano beato il popolo cui è toccato il benessere temporale.

Perciò dal Signore, nostro Dio, che ci ha creati, noi supplicheremo la forza di sopportare i dolori di questo tempo e gli chiederemo la beatitudine che ci sarà dato godere dopo questa vita nella sua eternità, affinché, come dice l'Apostolo, chi per le virtù o per il merito delle virtù si gloria, si glori nel Signore ( 2 Cor 10,17 ).

Questo dobbiamo desiderare per noi, questo anche per lo stato di cui siamo cittadini.

Perché lo stato viene reso beato solamente da ciò che rende beato il singolo, dato che lo stato non è altro che la concorde società degli uomini.

Di conseguenza, se tutta la tua prudenza con cui ti sforzi di procurare il bene comune nel disbrigo delle faccende umane;

se tutta la tua fortezza con cui ti mostri coraggioso nell'affrontare la malvagità degli avversari;

se tutta la tua temperanza con cui sai preservarti dalla corruzione in mezzo al fango dei più depravati costumi umani;

se tutta la tua giustizia con cui nel giudicare dai a ciascuno il suo;

se - dico - tutte queste virtù hanno di mira e tendono con ogni sforzo a salvaguardare l'incolumità fisica, la tranquillità e la sicurezza dagli attacchi dei malviventi per tutti coloro dei quali desideri il bene;

se ti preoccupi solo che abbiano figli simili a virgulti vigorosi e rigogliosi e le figlie adorne come un tempio, le dispense traboccanti d'ogni bene di Dio, le pecore feconde, le vacche pingui, senza brecce nella cinta delle mura che guastino le loro proprietà, e che non risuonino nelle loro piazze le grida dei litiganti, le tue virtù non saranno autentiche, come non sarà autentica neppure la loro felicità …

Se la tua amministrazione - ripeto - di qualunque specie essa sia, dotata delle virtù su accennate, ha per unico scopo quello di preservare le persone da qualsiasi ingiustizia e molestia fisica e non reputi tuo dovere di conoscere a quale scopo esse facciano servire la tranquillità che ti sforzi di procurare ad esse, cioè - per parlar senza ambagi - in qual modo adorino il vero Dio nel quale risiede tutto il godimento di ogni vita tranquilla, tutti i tuoi sforzi non ti gioverebbero a nulla per raggiungere la vera felicità.

Agostino, Le Lettere, 155,7-10 ( a Macedonio )

3. - Senza giustizia non si può governare lo stato

Nella Repubblica di Cicerone, Scipione definisce il popolo come una massa unita in società nel riconoscimento comune di un diritto e nella comunione di interessi.

Cosa intenda poi per diritto riconosciuto, lo spiega nel corso dell'esposizione; e con ciò mostra che senza giustizia lo stato non si può reggere, che dove non c'è la vera giustizia, non ci può essere il diritto.

Ciò che si compie secondo il diritto, è certamente giusto; le azioni ingiuste, invece, non possono compiersi secondo diritto.

Non possono chiamarsi diritto, infatti, gli ordinamenti ingiusti degli uomini, dato che essi stessi affermano che è diritto ciò che promana dalla fonte della giustizia; ed è falso ciò che asseriscono alcuni dalle idee sbagliate: che il diritto è ciò di cui si avvantaggiano i più potenti.

Pertanto, dove non c'è la vera giustizia, non vi può essere l'unione di una massa associata dal comune riconoscimento di un diritto; e perciò non vi può essere un popolo, secondo la definizione di Scipione o, meglio, di Cicerone; e se non c'è il popolo, neppure la cosa pubblica, ma solo una massa amorfa indegna del nome di popolo.

Perciò se lo stato è la cosa pubblica, e non vi è popolo se non vi è il riconoscimento del diritto, e non c'è diritto dove non c'è giustizia, se ne deduce senz'altro che dove non c'è giustizia non c'è lo stato.

Ma la giustizia è la virtù che attribuisce a ciascuno il suo.

Come si può dunque parlare di giustizia nell'uomo se non si attribuisce al Dio vero proprio l'uomo, e lo si assoggetta ai demoni immondi?

É questo dare a ciascuno il suo?

Chi toglie un podere al legittimo possessore e lo dà a chi non ne ha diritto alcuno, è ingiusto; e chi toglie se stesso al dominio di Dio, da cui è stato creato, e si assoggetta agli spiriti maligni, è forse giusto?

Agostino, La città di Dio, 19,21

4. - Senza la giustizia gli stati non sono altro che grosse bande di briganti

Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non grosse bande di briganti?

E le bande stesse, cosa sono se non piccoli regni?

Vi è un gruppo di uomini retto dal comando di un capo; è una società stretta da un patto: il bottino viene diviso in base a una legge stabilita.

Se una tale società di gente perduta si accresce, invade territori, fonda centri abitati, occupa città, soggioga popoli, assume senz'altro il nome di regno, che gli viene pubblicamente attribuito non per aver perso la sua rapacità, ma per aver conseguito l'impunità.

É bella e vera la risposta che un pirata catturato diede ad Alessandro Magno.

Avendolo infatti quegli interrogato che ne pensasse ora di avere infestato il mare, quegli con libertà e arroganza gli replicò: « Ciò che ne pensi tu di aver infestato tutto l'orbe; ma poiché io lo faccio con una piccola nave, vengo detto brigante; perché tu lo fai con una grande flotta, vieni detto imperatore ».

Agostino, La città di Dio, 4,4

5. - La città terrena è fondata sull'amore di sé, la città di Dio sull'amore di Dio

Due amori fondarono due città: l'amore di sé fino al disprezzo di Dio fondò la città terrena; l'amore di Dio fino al disprezzo di sé, invece, la città celeste.

Perciò quella si gloria in se stessa, questa nel Signore.

Quella ricerca la gloria dagli uomini; la gloria più grande di questa, invece, è Dio, testimone della sua coscienza.

Quella innalza il capo nella sua gloria; questa dice al suo Dio: Gloria mia, che innalza il mio capo ( Sal 3,4 ).

Quella è dominata dalla brama di dominio sui prìncipi o sulle nazioni soggiogate; in questa si servono a vicenda, nella carità, i capi governando, i sudditi obbedendo.

Quella ama, nei suoi potenti, la propria forza; questa dice al suo Dio: Amo te, o Signore, o forza mia ( Sal 18,2 ).

Perciò in quella i sapienti, vivendo umanamente, cercarono il bene del corpo o quello dell'anima, o quello di tutt'e due; se poterono conoscere Dio: Non lo onorarono come Dio, né lo ringraziarono, ma si perdettero nei loro pensieri e il loro cuore stolto si oscurò.

Dicendo di essere sapienti ( cioè esaltando se stessi perché dominati dalla superbia ), divennero stolti: mutarono la gloria di Dio incorruttibile nella somiglianza, nell'immagine dell'uomo corruttibile, e anche degli uccelli, dei quadrupedi e dei serpenti ( e condussero il popolo ad adorare tali simulacri, o almeno lo seguirono ); e venerarono, e servirono la creatura piuttosto che il Creatore, che è benedetto nei secoli ( Rm 1,21-25 ).

Nella città di Dio, invece, non vi è sapienza umana che non sia vera pietà, con la quale si adora rettamente il vero Dio, cioè aspettandone il premio nella società dei santi, non solo uomini, ma anche angeli, affinché Dio sia tutto in tutti ( 1 Cor 15,28 ).

Agostino, La città di Dio, 14,28

6. - Il cittadino della città di Dio non esita a osservare, in tutto ciò che è lecito, le leggi della città terrena

La famiglia che non vive di fede cerca la pace terrena nei beni e nelle comodità di questa vita temporale.

Ma la famiglia che vive di fede aspetta i beni promessi per il futuro e usa dei beni terreni e temporali come di passaggio, non per esserne accalappiata e distolta da Dio verso cui tende, ma per sorreggere, per meglio tollerare e non aggravare il peso del corpo corruttibile che appesantisce l'anima.

Di ciò che è necessario a questa vita mortale, ne usano parimenti sia l'una che l'altra famiglia, sia gli uni che gli altri uomini; ma il fine di quest'uso è particolare di ciascuno e molto diverso.

Così anche la città terrena, che non vive di fede, ricerca la pace terrena; verso ciò appunta la concordia dei cittadini nel comandare e nell'obbedire affinché tra di loro vi sia un accordo delle volontà umane circa i beni pertinenti alla vita mortale.

Ma la città celeste, o meglio quella sua parte che è pellegrina in questo corpo mortale e vive di fede, è necessario che fruisca di questa pace fino a quando questo suo stato mortale cui tale pace è necessaria non se ne passi.

Pertanto, mentre trascorre la sua vita in schiavitù e pellegrinaggio nella città terrena, pur avendo già accolto la promessa della redenzione e il dono spirituale che ne è il pegno, non dubita di obbedire alle leggi della città terrena; quelle, cioè, con cui questa si amministra, leggi atte a sorreggere la vita mortale.

Le è comune con essa il suo stato mortale: si mantiene di tal modo la concordia tra le due città in tutto ciò che a questo stato mortale si riferisce.

Ma la città terrena ebbe alcuni sapienti - riprovati dall'insegnamento di Dio - che attratti da semplice supposizione o ingannati dai demoni credettero di dover mettere in rapporto molte divinità con le varie realtà umane.

Affidarono alla loro tutela diverse parti dell'uomo:

a uno il corpo, all'altro l'anima; e nello stesso corpo a uno il capo, all'altro il collo, ad altri svariati le singole membra;

e così nell'animo a uno l'ingegno, all'altro la dottrina, all'altro ancora l'ira, all'altro la concupiscenza;

e nelle realtà vicine alla vita, a uno le greggi, all'altro il frumento, all'altro il vino, all'altro ancora l'olio; a un altro le selve, a un altro il denaro, a un altro ancora la navigazione; a uno le guerre e le vittorie, a un altro gli sposalizi, a un altro ancora i parti e la fecondità e a vari altri tutte le altre cose.

Ma la città di Dio sa di dover adorare un Dio solo e di dover a lui solo prestare quel servizio che si chiama, con parola greca, latria: con fedeltà e con devozione ritiene che a nessun altro si possa prestare se non a Dio.

Si è così verificato che essa non può avere in comune con la città terrena le leggi della religione e che in ciò deve da quella necessariamente dissentire; e ciò è un peso, che l'assoggetta all'ira, all'odio e alla persecuzione di quella, a meno che l'animo degli avversari non sia frenato a volte dal terrore della sua moltitudine, sempre poi dall'aiuto divino.

Questa città celeste, dunque, mentre è pellegrina sulla terra, raccoglie i propri cittadini da tutte le genti, e raduna una società pellegrinante, dai popoli di tutte le lingue: non bada a ciò che nei costumi, nelle leggi e nelle tradizioni è diverso, se pur crea o mantiene la pace terrena; nulla disprezza di quei popoli, nulla distrugge, ma anzi tutto conserva e osserva.

Infatti, benché diverso in diverse nazioni, tutto serve allo stesso fine di ottenere la pace terrena, se non impedisce la religione che ci insegna di dover adorare un unico sommo e vero Dio.

La città celeste, dunque, gode, in questo suo pellegrinaggio, della pace terrena e di tutto ciò che giova alla natura umana; difende e desidera, quanto lo ammette l'integrità della devozione e della religione, la concordia delle volontà e mette in rapporto la pace terrena alla pace terrestre.

Ma è quest'ultima la vera pace, tanto che si può dir l'unica pace della creatura razionale, cioè l'unione ordinatissima e piena di armonia nel godimento di Dio e nel godimento reciproco in Dio; al quale quando si giungerà, la vita non sarà più mortale, ma certamente e pienamente vitale; e il corpo non sarà più animale, che si corrompe e aggrava l'anima, ma spirituale, senza bisogno alcuno, soggetto in ogni sua parte alla volontà.

Anche in questo pellegrinaggio possiede tale pace nella fede; e per questa fede vive nella giustizia perché al raggiungimento di tale pace ordina tutte le sue buone azioni compiute verso Dio e verso il prossimo; la vita infatti di tale città è evidentemente sociale.

7. - I cristiani amano, rispettano e onorano l'imperatore

I cristiani non sono nemici di nessuno, tanto meno dell'imperatore.

Sanno infatti che è stato costituito dal loro Dio, perciò necessariamente lo amano, lo rispettano, lo onorano, lo vogliono salvo con tutto l'impero romano fino a quando durerà il mondo.

Tanto infatti durerà. Veneriamo dunque l'imperatore, ma nel modo che ci è lecito ed è utile a lui stesso: come un uomo che è il secondo dopo Dio, che ha ottenuto da Dio tutto ciò che è, ed è inferiore a Dio solo.

Questo dovrebbe volere anche lui stesso.

É infatti superiore a tutti, se è inferiore a Dio solo: è superiore agli stessi dèi perché anch'essi stanno sotto il suo potere.

Per questo noi sacrifichiamo per la salute dell'imperatore, ma solo al nostro Dio che è anche il suo, e, come ci ha comandato Dio, solamente con la preghiera.

Dio infatti, creatore dell'universo, non ha bisogno alcuno d'incenso o di sangue: tutto ciò è pascolo dei demoni.

E i demoni noi non solo li rigettiamo, ma anche li superiamo e li svergogniamo ogni giorno, cacciandoli dagli uomini come molti sanno.

Noi dunque preghiamo per la salute dell'imperatore, supplicandola da colui che può realmente concedergliela.

Può risultarvi così abbastanza chiaro che noi agiamo come ci insegna la pazienza di Dio; una moltitudine di uomini grande come la nostra, forse più della metà in ogni città, opera nel silenzio e nella modestia; e siamo forse più noti come singoli che come comunità, e null'altro ci contraddistingue se non l'emendazione dai nostri vizi anteriori.

Sia ben lungi da noi, dunque, sopportare con indignazione ciò che invece desideriamo sopportare, oppure macchinare la vendetta, che noi aspettiamo solo da Dio.

Tertulliano, A Scapula, 2

7a. - La patria per i cristiani

Celso vorrebbe che noi assumessimo cariche nell'esercito, per difendere la patria.

Sappia che la patria noi la difendiamo, ma non per essere visti dagli uomini e averne una piccola gloria.

Di nascosto, nell'intimo della nostra anima, noi innalziamo preghiere a Dio per i nostri concittadini.

I cristiani giovano alla patria più degli altri uomini, perché essi istruiscono i loro concittadini, li ammaestrano nella pietà verso il Dio di tutti gli esseri, e fanno salire alto a una divina e celeste città coloro che vivono rettamente in queste piccole città; sicché si avvera la parola del Signore: Fosti fedele nella piccola, vieni nella grande città ( Mt 25,21 ).

Origene, Contro Celso, 7,74

8. - L'adorazione si deve a Dio solo

Onorerò l'imperatore: non lo adorerò, ma per lui pregherò.

Solo il Dio reale, il Dio vero adorerò, sapendo che da lui l'imperatore è stato fatto.

Certo mi chiederai: perché non adori l'imperatore?

Perché non è stato fatto per essere adorato, ma per essere onorato con l'ossequio delle leggi: non è infatti un Dio, ma un uomo costituito da Dio non ad essere adorato, ma a fungere da giusto giudice.

In un certo senso gli è stata affidata da Dio l'amministrazione; ed egli stesso non vuole che chi a lui è subordinato si chiami imperatore: imperatore è il nome suo e a nessun altro è lecito chiamarsi così.

Egualmente anche l'adorazione è unicamente di Dio.

Dunque, o uomo, sei davvero in errore: onora l'imperatore amandolo, obbedendogli, pregando per lui: facendo così, farai il volere di Dio.

Dice infatti la legge divina: O figlio, onora Dio e l'imperatore, e non essere disobbediente né all'uno né all'altro.

Subito infatti puniscono i loro nemici ( Pr 24,21-22 ).

Teofilo di Antiochia, Ad Autolico, 1,11

9. - Comportamento dei cristiani nei confronti delle autorità

Per ciò che si riferisce all'onore reso ai re o agli imperatori, ci è stato sufficientemente prescritto di essere pienamente ossequienti e soggetti, secondo il comando dell'Apostolo, ai magistrati, ai prìncipi e alle autorità; tuttavia, dentro i confini delle norme che ci separano dall'idolatria.

Per questo da tanto tempo ci è stato preposto l'esempio dei tre fratelli che, obbedienti in tutto al re Nabucodonosor si rifiutarono con somma costanza di adorarne l'immagine, ritenendo idolatria tutto ciò che al di là della misura dell'onore umano, si eleva alla somiglianza della divina sublimità.

Così Daniele, soggetto a Dario in tutto il resto, rimase nel suo incarico fino a quando le sue pratiche di pietà rimasero libere da pericolo.

Per non doverlo subire, non ebbe timore alcuno dei leoni del re, come i tre fanciulli non ne ebbero per il fuoco del re.

Tertulliano, L'idolatria, 15

10. - I soldati cristiani sotto l'imperatore apostata

Talvolta le autorità sono buone e temono Dio; talaltra non temono Dio.

Giuliano fu un imperatore infedele, fu apostata, iniquo, idolatra; i soldati cristiani servirono a questo imperatore infedele; ma quando si giungeva alla causa di Cristo, non riconoscevano se non colui che è in cielo.

Se l'imperatore pretendeva che essi adorassero gli idoli, che bruciassero loro incenso, gli preferivano Dio.

Se invece diceva loro: « Stringete le schiere, muovete contro quel popolo! », subito gli obbedivano.

Distinguevano il Signore eterno dal signore temporale, e purtuttavia, per il Signore eterno, erano anche sudditi al signore temporale.

Agostino, Esposizioni sui Salmi, 125,7

11. - Le autorità devono governare con bontà e dolcezza

La libertà fa presto a divenire rivolta se la forza vuole soffocarla.

Nessuno ha potere maggiore su una persona libera, di chi non la obbliga a fare da schiavo.

Conosco i canoni ecclesiastici, ho ben presenti i ruoli di ciascuno; la lettura e gli esempi quotidiani mi hanno fatto imparare molte cose in tutti questi anni, e non sono poche le esperienze fatte.

Chi per picchiare usa gli scorpioni [ per scorpione s'intende una sferza munita di punte di ferro ] e si crede di avere le dita più grosse dei lombi paterni, non ci mette molto a dissipare il regno del mite Davide.

Sta di fatto che il popolo romano, la superbia non l'ha sopportata neppure in un re ( Tarquinio il Superbo ).

Quella grande guida dell'esercito d'Israele ( Mosè ), che aveva portato la disperazione in Egitto con le dieci piaghe e che dominava su cielo, terra e mare, è elogiato come l'uomo più mansueto fra tutti quelli del suo tempo che la terra avesse generato.

Fu proprio per questa qualità che tenne il comando per quarant'anni: per la sua dolcezza e mitezza mitigava l'orgoglio che porta con sé il potere.

Il popolo lo lapida, e lui prega per chi lo lapida ( Es 17,4 ); anzi, preferisce essere cancellato dal libro di Dio piuttosto che si danni il popolo che gli è stato affidato ( Es 32,31-32 ).

Non desiderava insomma che imitare quel Pastore che lui già sapeva che si sarebbe portato sulle spalle anche le pecorelle sviate.

Gesù dice: Il buon pastore è disposto a dare la vita per le sue pecore ( Gv 10,11 ).

Anche un discepolo del buon Pastore desidera essere anatema per il bene dei suoi fratelli, e anche per i loro parenti di sangue, vale a dire: anche per gli israeliti ( Rm 9,3-4 ).

Girolamo, Le Lettere, III, 82,3 ( a Teofilo )

12. - Governare con moderazione

Si deve temperare con grande moderazione il governo del regno, badando che il potere non trascini malamente l'animo.

Allora infatti si regge bene il regno, se la gloria di regnare non domina l'animo.

E si deve anche curare che non lo domini l'ira, perché non si faccia troppo presto ciò che non è lecito.

L'ira cioè, anche quando si puniscono le colpe dei delinquenti, non deve precedere come padrona, ma deve seguire come ancella al servizio della ragione e presentarsi solo se chiamata.

Se infatti anche una volta sola essa prende il dominio della mente, ritiene giusta anche ogni crudeltà che perpetra.

Per questo sta scritto: L'ira dell'uomo non opera la giustizia di Dio ( Gc 1,20 ), e sta scritto ancora: Ogni uomo sia veloce ad ascoltare, tardo invece a parlare, e tardo all'ira ( Gc 1,19 ).

Gregorio Magno, Lettera del 599 a Recaredo re dei Goti

13. - O re, onorate la vostra porpora!

O re, onorate la vostra porpora: la nostra parola è legge anche per i legislatori.

Riconoscete quanto vi è stato affidato, il grande mistero che su di voi si compie.

Il mondo intero è in vostra mano, dominato da un piccolo diadema e da un misero panno.

Le cose di lassù, sono solo di Dio; le cose di quaggiù, invece, anche vostre.

Siate dèi per i vostri sudditi, se devo usare un'espressione ardita.

Il cuore del re è nella mano di Dio ( Pr 21,1 ), come è detto e noi crediamo.

Da qui tragga origine il vostro potere, non dall'oro o dagli eserciti.

E voi che vivete a corte, che siete vicini al trono, non insuperbitevi troppo per il vostro potere, non ritenete immortali le realtà mortali.

Siate fedeli al re, ma soprattutto a Dio, e, in vista di lui, anche a coloro a cui siete stati affidati.

Voi che vi vantate per la vostra casata, siate nobili per i vostri costumi; altrimenti dirò qualcosa, poco piacevole certo, ma coraggioso: la vostra categoria sarebbe davvero nobile se lettere nobiliari non ascrivessero tra voi anche alcuni che nobili non sono affatto.

Gregorio di Nazianzo, Discorso su se stesso, 36,11

14. - Ai governatori e magistrati cristiani

Cosa dirò per voi, o governatori e magistrati?

Ecco che la mia parola si rivolge anche a voi, perché non vogliamo dar l'impressione di essere ingiusti esortando gli altri ai loro doveri, e a voi, per il vostro potere, lasciando passare tutto, rinunciando, quasi per rispetto o timore, alla nostra libertà in Cristo; di preoccuparci cioè degli altri, e trascurare voi, mentre prendersi cura di voi è tanto più importante, in quanto sia in un senso sia nell'altro il vostro orientamento è decisivo, e tanto maggiori sono i frutti se nel senso positivo; il senso contrario, invece, sia lontano da voi e dal nostro discorso.

Che dite voi, dunque? Che tipo di dialogo reciproco instaureremo?

Accetterete la mia libertà nel parlarvi?

La legge di Cristo vi ha assoggettati al mio potere, alla mia giurisdizione.

Anche noi comandiamo, anzi aggiungerò che la nostra autorità è maggiore e più perfetta, a meno che lo spirito non debba cedere alla carne e le realtà celesti a quelle terrene.

Ma tu accetterai la mia franchezza - lo so - perché sei una pecorella del mio gregge, pecora sacra di un gregge sacro, sei alunno del grande Pastore, rettamente guidato dall'alto, dallo Spirito, e come noi illuminato dalla luce della santa e beata Trinità.

Per questo il mio discorso a te sarà breve e conciso.

Insieme con Cristo hai il comando, insieme con Cristo hai il governo: da lui hai ricevuto la spada, non per adoperarla, ma per minacciare: custodiscila pura come sacra offerta a chi te l'ha data.

Sei immagine di Dio e comandi su chi sono sue immagini, che dimorano quaggiù, ma migrano poi all'altra vita, verso la quale tutti andremo dopo aver per poco tempo giocato in questa vita, come in un carcere o in uno stadio, quasi in abbozzo, in prefigurazione.

Onora quelli che hanno la tua stessa natura, abbi riguardo di colui che è il tuo esemplare: sta' insieme con Dio, non insieme col dominatore di questo mondo, con il tuo mite padrone, non col tuo crudele tiranno.

Quello fu omicida fin dall'inizio ( Gv 8,44 ), lui ferì il primo uomo con la disobbedienza, gli rese tanto faticosa la vita e, per mezzo del peccato, creò la legge di punire e di essere puniti.

Ma tu, uomo di Dio, ricorda chi ti ha plasmato, come ti chiami, cosa possiedi, quali sono i tuoi doveri, da chi hai ricevuto la ragione, la legge, i profeti, la conoscenza di Dio, la speranza nelle promesse.

Emula perciò la divina misericordia.

Ecco soprattutto cosa ha di divino l'uomo: il beneficare …

Unisci la mitezza al terrore, aggiungi alle minacce la speranza.

So che molto si ottiene con la benignità, la quale porta necessariamente alla riconoscenza; quando pur potremmo usare violenza, siamo indulgenti e costringiamo gli uomini alla rettitudine con la nostra misericordia.

Nulla ti spinga a ciò che è indegno della tua carica; nulla ti faccia rinunciare alla misericordia e alla dolcezza: nessuna circostanza, nessun timore, nessuna speranza di poteri maggiori, nessuna audacia per il proprio senso di superiorità.

Guadagnati la benevolenza dall'alto per i tempi difficili, fa' a Dio un prestito di misericordia.

Nessuno si è mai pentito di prestare a Dio, perché è grande nel ricompensare.

Gregorio di Nazianzo, Alla comunità angustiata, 17,8-10

15. - Il cristiano posto in autorità

Si possono considerare causa del male la debolezza della materia, gli impulsi sconsiderati dell'errore e la violenza irrazionale dell'ignoranza; con la sua dottrina il vero cristiano illuminato ha superato tutto ciò come fossero bestie feroci; imitando il piano divino con tutte le sue forze fa del bene agli uomini di buona volontà.

Se eventualmente sarà posto in autorità, la eserciterà, come Mosè, per la salvezza dei suoi sudditi e ammansirà chi è selvaggio e infedele, onorando i migliori e punendo i malvagi, dato che il castigo viene giustamente considerato mezzo educativo.

Più di tutto il resto, infatti, l'anima dell'uomo giusto è una immagine di Dio, veramente a lui simile; in essa, per la sua obbedienza ai comandamenti, veramente abita e di essa prende possesso il dominatore di tutti i mortali e gli immortali, il re e creatore di tutti i buoni, che è la vera legge, la vera prescrizione e il Verbo eterno; l'unico salvatore di ogni singolo e di tutti insieme.

Egli è il vero Unigenito, l'immagine della gloria del Padre, re di tutti e creatore di tutto, che imprime come un sigillo la perfetta rassomiglianza di sé nel vero cristiano illuminato.

Clemente Alessandrino, Stromata, 7, 16,2-5

16. - Dio ha parte nei pubblici impieghi

Con Cristo registri le tasse e con Cristo le determini; con il Capo giudichi e con il Verbo calcoli.

Ora per te Cristo nasce.

É Dio e diventa uomo e si intrattiene con gli uomini.

Che vuol dire questo discorso? Mi sembra che sia l'avvertimento, per coloro cui sono stati affidati questi uffici, che Dio prende parte ai loro gravi impegni.

Proprio per indurre a un sano pudore i funzionari del fisco, allora si fece carne e si intrattenne con gli uomini; e per alleviare la nostra situazione di sudditanza e imporre come legge la rettitudine d'animo, che non va certo trascurata, pagò anch'egli il didramma, e non solo per se stesso, ma anche per Pietro, il suo discepolo più quotato ( Mt 17,27 ).

Per noi, infatti, si era fatto uomo e aveva assunto lo stato di schiavo, e per le nostre iniquità fu condotto a morte.

E tutto questo fece il Salvatore che, come Dio, avrebbe potuto salvarci con un semplice atto di volontà, come all'inizio tutto ha fatto sussistere con un solo comando.

Ma qualcosa di più grande e toccante ci ha donato: aver assunto i nostri dolori ed essersi fatto nostro collega.

Che dobbiamo fare dunque noi, discepoli di Cristo, mite e misericordioso, che tanto ci ha elargito?

Non imiteremo dunque la bontà suprema del Padrone?

Non saremo buoni con i nostri fratelli di schiavitù, perché il Signore usi con noi la stessa misura con cui noi misureremo?

Non salveremo le nostre anime con la mitezza?

É abbastanza che i liberi debbano vivere da schiavi, è abbastanza che ci sia tanta differenza, che, tra uomini della stessa creta, uno domini e l'altro sia dominato, a uno siano imposte le tasse e l'altro le raccolga; che ad alcuni sia lecito compiere ogni male e ingiustizia e gli altri debbano pregare e lottare per evitare i guai; e ciò riguarda la stessa immagine [ di Dio ], individui della stessa dignità, eredi della stessa vita, per i quali Cristo è morto allo stesso modo.

É sufficiente questo per uomini liberi!

Non sia aggravato il loro giogo, né il castigo del nostro primo peccato!

Gregorio di Nazianzo, Le Lettere, 19,13 ( a Giuliano, funzionario del fisco )

17. - « Non vi è autorità se non da Dio »

Sta' certo: ogni cosa viene da Dio.

E invero senza Dio non c'è il mondo, perché il mondo è stato fatto per mezzo di lui ( Gv 1,10 ); ma, sebbene sia stato fatto da Dio, le opere del mondo sono malvagie, perché il mondo è in mano al Maligno: l'ordinamento del mondo proviene da Dio, le opere del mondo provengono dal Maligno.

Nello stesso modo il potere viene da Dio, ma l'ambizione del potere dal Maligno.

Così: Non vi è autorità - dice l'Apostolo - se non da Dio, e quelle che esistono sono ordinate da Dio: non date, ma ordinate; e ancora: Chi resiste all'autorità si oppone all'autorità di Dio ( Rm 13,1-2 ).

Anche qui, benché il diavolo dica che egli dà il potere ( Lc 4,6 ), non nega che questo gli è stato permesso temporaneamente.

Chi gliel'ha permesso l'ha ordinato, poiché non è malvagio il potere in sé, ma chi ne fa cattivo uso.

Dice l'Apostolo: Non volete temere l'autorità? Fate il bene e riceverete elogi ( Rm 13,3 ) …

Non c'è dunque alcuna colpa nel potere, ma in colui che lo esercita; e non può danneggiare la disposizione di Dio, ma la condotta di chi amministra.

Infatti, per scendere con un esempio dalle cose divine alle umane, ecco, l'imperatore conferisce degli incarichi e riceve lode: se qualcuno usa male dell'incarico, la colpa non è dell'imperatore, ma di chi ha quell'incarico.

I delitti hanno il loro autore, però non la potestà, ma la condotta di ciascuno è in causa.

Ambrogio, Commento al Vangelo di san Luca, 4,29

18. - Dio dà e toglie il potere

Attribuiamo solamente al Dio vero il potere di far regnare e imperare; egli dà la felicità nel regno dei cieli ai soli pii, ma dà invece il regno terreno ai pii e agli empi, come piace a lui, a cui nulla di ingiusto piace.

Sull'argomento abbiamo detto qualcosa: quanto egli volle ci fosse manifesto; tuttavia è troppo grave per noi, e supera di troppo le nostre forze, indagare sull'intimo dell'uomo e giudicare con evidenza i meriti di chi regna.

L'unico e vero Dio, dunque, che mai non abbandona con la sua giustizia e il suo aiuto il genere umano, quando volle e fin dove volle concedette di regnare ai romani.

Lo concedette anche agli assiri e anche ai persi che adorano due soli dèi, uno buono e l'altro cattivo, a quanto riferiscono i loro scritti.

Per tacere del popolo ebraico - di cui ho detto quanto mi è sembrato sufficiente - che adorò un solo Dio anche quando ebbe il potere.

Colui dunque che diede le messi ai persi, quantunque non adorassero la dea delle messi, e diede loro altri doni terreni senza che ne adorassero i corrispettivi dèi, fu proprio lui a concedere il regno ai romani, prescindendo dal culto di quegli idoli, per il cui culto essi credettero di aver ottenuto tanto dominio.

E così anche agli uomini: chi diede il potere a Mario, lo diede a Caio Cesare; chi lo diede ad Augusto, lo diede anche a Nerone, chi lo diede ai due Vespasiani, padre e figlio, imperatori mitissimi, lo diede anche a Domiziano, crudelissimo.

E per non passare in rassegna tutti, chi diede l'impero a Costantino cristiano, lo diede anche a Giuliano l'apostata; imperatore questi di indole egregia, ma fu travolto, nel suo amore di dominio, dalla sua curiosità sacrilega e detestabile, per cui si diede agli oracoli vani …

Ma tutto ciò dispone e governa l'unico e vero Dio come a lui piace; se i motivi sono per noi occulti, forse che sono ingiusti? …

Non diciamo felici alcuni imperatori cristiani per il fatto che governarono a lungo, oppure, morendo in pace, lasciarono i propri figli sul trono o perché domarono i nemici dello stato o poterono evitare o superare i nemici interni che contro di loro insorsero.

Questi altri doni o consolazioni di questa vita luttuosa li meritarono anche alcuni adoratori dei demoni, che certo non appartengono al regno di Dio a cui appartengono invece tali imperatori cristiani.

E ciò Dio ha voluto per sua misericordia, affinché coloro che in lui credono non desiderino questi doni come il sommo bene.

Diciamo invece che essi sono felici se imperano con giustizia,

se non si innalzano tra le voci prodighe di onori sublimi, tra gli ossequi di chi troppo umilmente li saluta, ma ricordano di essere uomini

se mettono il proprio potere al servizio della maestà divina per diffonderne ovunque il culto;

se temono, amano, adorano Dio;

se amano maggiormente quel regno ove non si temono pretendenti;

se sono tardi alla vendetta e facili al perdono;

se danno luogo alla vendetta solo per la necessità di difendere e governare lo stato, non per saziare gli odi personali;

se sono larghi nel perdono, non per lasciare impunita l'iniquità, ma nella speranza del ravvedimento;

se, quando si vedono costretti a prendere qualche decisione aspra, rimediano a ciò con soave misericordia e larga beneficenza;

se in loro la lussuria è tanto più frenata, quanto più potrebbe essere sbrigliata;

se preferiscono dominare le brame perverse piuttosto che i popoli tutti; e, infine,

se fanno tutto ciò non per l'ardore di una gloria vana, ma per l'amore della felicità eterna, e, inoltre,

se non trascurano di offrire al loro vero Dio vittime di umiltà, di misericordia e di preghiera.

Questi imperatori cristiani diciamo che sono felici: adesso nella speranza, in futuro nella realtà, quando sarà venuto ciò che aspettiamo.

Agostino, La città di Dio, 5,21.24

19. - L'autorità è al servizio di Dio

Non è il demonio che stabilisce i regni di questo mondo, ma è Dio: Il cuore del re è in mano di Dio ( Pr 21,1 ), dice il Verbo; e ancora, per bocca di Salomone: Per mia disposizione i re regnano e i potenti amministrano la giustizia ( Pr 8,15 ).

Anche l'apostolo Paolo parla di ciò, dicendo: Siate soggetti alle autorità costituite, perché non vi è autorità se non da Dio.

Quelle che esistono, infatti, esistono per disposizione di Dio ( Rm 13,1 ), e ancora, parlando sempre dell'autorità, dice: Non è senza motivo che porta la spada: è ministra di Dio, incaricata di castigare chiunque opera il male ( Rm 13,4 ).

Non ha detto ciò delle potestà angeliche, né dei dominatori invisibili, come osano interpretare alcuni; ma lo ha detto proprio delle autorità terrene, perché soggiunge: Per questo pagate i tributi, infatti sono ministri di Dio e, in ciò, compiono un servizio ( Rm 13,6 ).

Anche il Signore ha confermato tutto ciò: egli non obbedì alle imposizioni del diavolo, ma diede ordine ai suoi di pagare il tributo per lui e per Pietro, perché le autorità sono « ministri di Dio e, in ciò, compiono un servizio ».

Poiché l'uomo, lontano da Dio, è giunto a tal punto di efferatezza da considerare nemico anche il fratello, da abbandonarsi alle risse, all'avarizia, all'omicidio senza timore alcuno, Dio lo ha assoggettato al timore degli uomini - dato che non conosce timore di Dio -, dominato così da un'autorità umana, vincolato dalle sue leggi, segue in qualche modo la giustizia, si modera nei confronti degli altri uomini, per timore della spada pubblicamente ostentata, come dice l'Apostolo: « Non è senza motivo che porta la spada: è ministra di Dio, incaricata di castigare chiunque opera il male ».

Per questo ai magistrati, che amministrano la giustizia ammantati della legge, non verrà chiesto conto né verrà inflitta pena per ciò che fanno, se pur agiscono con giustizia e legalità; ma se danno disposizioni dannose alla giustizia, inique, empie, illegali, se si comportano da tiranni, troveranno la morte, perché il giusto giudizio di Dio giunge a tutti con somma imparzialità né mai viene meno.

Dio dunque costituisce i regni terreni per il bene delle genti, non certo il diavolo che non ha pace e non vuole che le genti vivano in pace.

Dio ha stabilito l'autorità perché gli uomini, temendo il potere terreno, non si divorino l'un l'altro come pesci, ma, stimolati dall'emanazione delle leggi, accantonino le molteplici espressioni di ingiustizia che vediamo tra le genti.

In questo senso sono « ministri di Dio » coloro che esigono da noi i tributi, e in questo senso « compiono un servizio ».

Dunque: le autorità costituite sono stabilite da Dio.

É chiaro perciò che il diavolo mentisce quando dice: Tutti i regni sono stati dati a me, e io li do a chi voglio ( Lc 4,6 ).

Per volere di colui, al cui cenno gli uomini nascono, vengono costituiti i re; ed essi sono adatti a coloro su cui devono regnare.

Alcuni di loro, infatti, vengono dati al loro popolo per il bene, per il progresso dei sudditi e perché tra di questi viga la giustizia; altri invece, per incutere loro timore, per castigarli e punirli; altri, infine, per deriderli, oltraggiarli, opprimerli: a tutti come ne sono degni.

Il giusto giudizio di Dio, come abbiamo detto, raggiunge tutti con somma imparzialità.

Ma il diavolo, che è un angelo apostata, può solo ciò che fece anche all'inizio [ in paradiso ]: sedurre l'uomo, inducendolo a trasgredire i precetti di Dio; accecare, a poco a poco, la mente di chi si sforza di servirlo, facendogli dimenticare il Dio vero e istigandolo ad adorare lui stesso come se fosse Dio.

Ireneo di Lione, Contro le eresie, 5, 29,1-3

20. - Dio concede il potere terreno ai buoni e ai cattivi

Dio, autore e distributore della felicità, poiché è l'unico e vero Dio, dà il potere terreno sia ai buoni sia ai cattivi.

E ciò, non alla leggera e quasi a caso, perché egli è Dio, e non è la fortuna; ma secondo un ordine di cose e di tempi che a noi è nascosto, a lui chiarissimo.

Ordine di cose e di tempi, a cui egli tuttavia non è soggetto, ma regge da padrone e dispone da dominatore.

Ma la felicità la dà solo ai buoni: possono averla e non averla gli schiavi, e possono averla e non averla i regnanti.

Tuttavia sarà piena solo in quella vita dove nessuno sarà più schiavo.

Per questo i regni terreni vengono da lui elargiti ai buoni e ai cattivi, perché in tal modo i suoi adoratori, ancora fanciulli nel progresso dello spirito, non desiderino da lui questi doni come fossero qualcosa di veramente grande.

E questo è il mistero dell'Antico Testamento - in cui si celava il Nuovo - che prometteva doni terreni; ma anche allora gli uomini spirituali comprendevano, quantunque non lo proclamassero ancora in pubblico, che quei beni temporali simboleggiavano l'eternità, e in quali doni di Dio consistesse la vera felicità.

Agostino, La città di Dio, 4,33

21. - Il peccato è la causa di distinzione tra dominatori e dominati

Uno fu l'uomo plasmato dalla terra, e la donna fu tratta dall'uomo; da ambedue poi tutto il genere umano.

All'inizio l'Artefice non attribuì agli uni la potestà padronale e ad altri la schiavitù, ma creò di tutti una sola stirpe.

Quando comandò a Noè di costruire l'arca, porgendogli la salvezza a ricompensa della sua giustizia, dispose che in quella entrassero lui e sua moglie con i figli e le loro mogli: non vi entrò nessuno schiavo, perché la stirpe umana non aveva ancora subito tale distinzione, ma vi erano solo quelli che sono veramente schiavi, cioè i bruti animali, che proprio a questo scopo l'Artefice di tutto aveva creato in questo mondo.

Ma quando vide che, in seguito, da quella libertà sorse molto disordine, che ci si diede impudentemente ad ogni illegalità, distinse il genere umano tra dominatori e dominati, affinché il timore delle autorità diminuisse la moltitudine dei delitti.

Il timore, infatti, sa frenare gli impeti delle passioni irrazionali, sa mitigare la propensione dell'anima al male, e spesso dove non poté la ragione ottenne il timore.

Dopo che la nostra natura ebbe cozzato contro il male e la mente, sommersa tra le onde delle passioni, minacciò di annegare lasciando che il corpo fosse portato qua e là come una nave senza zavorra, avemmo bisogno assoluto delle leggi che come un'ancora fermassero lo scafo, ne impedissero il movimento disordinato e permettessero al nocchiero di rialzarsi e di afferrare il timone.

Quando tutti avevano piena indipendenza e uguale autorità non erano possibili le leggi; ma, anche nelle città rette col sistema democratico, dove il popolo esercita tutto il potere, non tutti sono nella stessa condizione, ma alcuni sono magistrati, altri legislatori altri condottieri e altri ancora formano il gran numero dei sudditi; il demagogo poi domina sulle autorità e sui dignitari.

Invece, nelle città rette col sistema oligarchico, i più appartengono al numero dei sudditi, pochi invece, segnalatisi per la saggezza e insigni per virtù, amministrano il pubblico bene, sono insigniti del potere.

Essi sono efori [ ciascuno dei componenti l'antica magistratura spartana: erano cinque e duravano in carica un anno; il potere, prima limitato a compiti di polizia, si estese poi fino a superare lo stesso potere regio ], oppure navarchi [ nome dato al comandante di una flotta ], oppure governatori: reggono il popolo come a loro sembra meglio.

Dunque il peccato ha introdotto la necessità delle leggi; le leggi ebbero poi bisogno dei legislatori, e non solo di loro, ma anche di chi potesse punire la loro trasgressione.

Come il peccato introdusse il disordine, così il sommo Governatore impose ad esso un ordine, ponendo con le leggi quasi il morso all'impeto della malvagità; e le redini di questo morso le affidò ai capi, come ad aurighi.

Da questi vengono rette le città, i villaggi e gli eserciti.

Chi frenerebbe la mano dei facinorosi se il timore delle leggi non reprimesse la fiamma e l'impeto dell'avidità e avarizia di quelli?

Proprio come i pesci, il più grosso mangerebbe il più piccolo, se la legge non mostrasse la spada affilata, il rogo ardente e tutte le altre pene dei delitti escogitate dai magistrati.

Se, infatti, pur con la minaccia delle leggi e con la punizione inflitta dai capi vi sono alcuni che, più feroci di ogni belva, si scagliano contro il prossimo, lo attaccano come scorpioni, lo mordono come serpenti, lo aggrediscono come cani rabbiosi e ruggiscono contro i propri simili come i leoni contro gli altri animali, cosa non farebbero mai se non vi fossero leggi, se non vi fossero autorità che infliggono pene?

Ora, vi sono taluni che osano commettere iniquità, ma cercano di nasconderle per timore delle leggi e si sforzano di celare la loro ingiustizia con l'abilità nel parlare.

Chi ha subìto ingiustizia adisce impavido i giudici, intenta la causa senza temere la potenza di chi lo ha offeso, senza rabbrividire per lo splendore della sua ricchezza.

Si affretta al tribunale come a un porto, enumera le ingiustizie subite, chiede che vengano fatte valere le leggi e domanda al giudice di giudicare il caso.

Questi emette la sentenza e comanda di restituire la casa, il campo o la suppellettile sottratti; spesso, impone anche una multa pecuniaria a chi ha osato commettere ingiustizia.

Per timore di ciò, gli scassinatori e i ladri commettono i loro crimini non allo scoperto, ma di nascosto, e, proprio tentando di celarsi, manifestano la loro paura.

Se non fosse così, darebbero di mano ai pugnali, strozzerebbero tutti quelli che incontrano e rapirebbero i loro beni; ma siccome hanno paura, molti se ne astengono, mentre quelli che osano darsi al delitto, o insidiano le vie più remote, oppure nella città compiono i loro colpi di notte, usano quali complici delle loro ladronerie le tenebre, il sonno, il riposo di tutti.

Se due o tre vengono acciuffati e puniti secondo la legge, se ne ha un bell'esempio che giova agli altri: vedendo il supplizio dei loro simili, odiano la delinquenza che porta a una tale morte …

Unica è la natura umana, nei dominatori e nei dominati, nei re e nei sudditi, negli schiavi e nei padroni.

Ed essendo dunque unica, proclama la giustizia del Creatore; essendo stata distinta poi nel corso del tempo in schiavitù e dominio, pur mantenendo sia in questi sia in quelli il suo carattere, accusa il peccato che ha portato a tale necessità e mostra ancora una volta l'equità del Fattore.

Ne ha conservato infatti sino alla fine l'identica condizione, e il disordine subentrato col peccato lo ha tolto di mezzo istituendo le autorità e ha limitato l'avidità esagerata con la norma delle leggi, come il costruttore di barche che dispone le assi usando una funicella, e poi taglia via ciò che sopravvanza.

Non accusare dunque il Creatore vedendo la schiavitù, ma fuggi il peccato e la bestemmia, per cui colpa il genere umano è stato distinto fra schiavi e padroni.

Teodoreto di Ciro, La provvidenza divina, 7

22. - Per natura siamo tutti uguali

Bisogna guardare sempre a chi è sopra di noi, affinché il timore di chi sta sopra tutte le cose comprima il gonfiore che va crescendo nell'animo.

Mentre si guarda chi sta sotto, si deve considerare a chi si sta sotto, e riflettendo chi sia il vero padrone, diminuisca la pretesa del falso dominio … Giobbe, per tenere il cuore sempre umile, non guardava nei suoi servi l'inferiorità di condizione, ma l'uguaglianza di natura.

Per gli uomini potenti è gran virtù di umiltà il considerare la parità di condizione.

Infatti per natura siamo tutti eguali; e solo per disposizione provvidenziale sembriamo preposti ad alcuni altri uomini.

Perciò se prescindiamo da questa aggiunta temporanea, subito troviamo quel che siamo per natura.

Molte volte il potere che abbiamo ricevuto ci fa molta impressione e c'inganna con pensieri di superbia, bisogna quindi reagire e sgonfiarsi con riflessioni di grande umiltà …

La natura ha fatto tutti gli uomini uguali, ma per diversità di meriti, una misteriosa disposizione mette una graduatoria fra gli individui.

Questa diversità per sé è viziosa ma dal giudizio divino è sapientemente ordinata a far sì che un uomo sia governato da un altro, visto che non siamo tutti ugualmente dotati nel cammino della vita.

I santi quando sono incaricati di governare, non guardano in sé il potere di ordine, ma l'uguaglianza di condizione e non godono nel far da superiori, ma nel far del bene agli altri …

L'uomo per natura è fatto per dominare sugli animali e non sugli altri uomini …

Gregorio Magno, Commento a Giobbe, 21,21-23

Indice