Teologia dei Padri

Indice

Predicazione e cura delle anime

1. - Cura d'anime e cura medica

Mi sembra davvero l'arte delle arti e la scienza delle scienze reggere l'uomo, che è l'essere più vario e complesso.

Uno se ne può rendere conto confrontando la cura dei corpi con quella delle anime, riflettendo quanto questa sia più laboriosa, quanto maggiore impegno da noi richieda e quanto più importanti siano la materia da trattare, l'arte richiesta e il fine dell'opera.

La medicina si affatica sui corpi, una materia labile e inclinata al basso, destinata inesorabilmente a dissolversi e a subire la propria sorte, anche se, temporaneamente, lo sforzo dell'arte medica ne supera l'interna rovina: ma la malattia o il tempo la dissolvono, essa deve cedere alla propria natura e non può superare i propri limiti.

La cura pastorale, invece, si preoccupa dell'anima, che viene da Dio ed è divina, che partecipa alla nobiltà di lassù e ad essa tende, anche se legata all'elemento corporeo, deteriore …

Il medico deve badare ai luoghi, ai tempi, all'età, alla stagione e simili; deve prescrivere farmaci e diete, stare attento a ciò che danneggia, badare che i desideri dell'ammalato non ostacolino la sua arte.

A volte gli sarà necessario cauterizzare o amputare o applicare le cure più drastiche.

Per quanto ciò appaia faticoso e grave, non è certo come studiare e medicare i costumi, le passioni, la vita, le inclinazioni e tutto quello che c'è in noi, e da noi allontanare tutto ciò che è selvatico e animalesco, addurvi e rafforzare tutto ciò che dice mansuetudine e amore a Dio, far giustizia tra anima e corpo non ammettendo che l'elemento migliore sia dominato dal peggiore, il che sarebbe la somma ingiustizia, bensì sottomettendo all'elemento sovrano e dominatore quello che per natura è soggetto, secondo la legge di Dio, che regge in bellezza tutta la sua creazione, sia le cose visibili, sia quelle che superano i sensi.

Di questa arte medica siamo ministri ed esecutori noi, posti in autorità.

Grande cosa è già per noi riconoscere e curare le nostre passioni, i nostri malanni - o meglio, non sarebbe grande cosa, ma ci spinge a parlare così la cattiveria di molti che pur vivono in questo ordine -, ma molto più grande è poter medicare i mali degli altri e guarirli con intelligenza, e ne abbiano così utile sia quelli che abbisognano di cure, sia quelli che hanno avuto l'incarico di curarli …

Tutto il nostro impegno è la salvezza dell'anima, beata e immortale, che sarà punita o glorificata in eterno per il vizio o la virtù; quanto grande dobbiamo perciò ritenere che sia la nostra lotta, e di quanta arte abbiamo bisogno per medicare e farci medicare, per mutare la vita e per assoggettare il fango allo spirito!

Non hanno infatti la stessa intelligenza, non provano gli stessi moti dell'animo l'uomo e la donna, il vecchio e il giovane, il povero e il ricco, chi è triste e chi è lieto, chi è sano e chi è ammalato, i dominatori e i sudditi, gli eruditi e gli ignoranti, gli audaci e i timidi, gli iracondi e i mansueti, chi ha successo e chi cade.

Se si osserva con attenzione quale distanza vi è tra gli sposati e i celibi, e, restando fra questi ultimi, tra gli eremiti e i religiosi che conducono vita comune, tra quelli che si sono segnalati e hanno progredito nella vita contemplativa e quelli che seguono la via ordinaria; tra i cittadini e i campagnoli, tra i semplici e gli scaltri, tra chi ha mille affari e chi vive nella pace, tra chi è stato colpito dalla sventura e chi se la passa bene e non conosce disgrazie!

Tutti questi differiscono tra di loro assai più per sentimenti e inclinazioni d'animo che per fattezze corporee o, se vuoi, per mescolanza di elementi costituenti il nostro corpo.

Non è dunque facile curarli.

Come non per tutti i corpi si prescrive la stessa medicina e la stessa dieta, ma ora questa, ora quella, a seconda dello stato di malattia o di salute, così anche le anime si curano con trattamenti e metodi diversi.

Gli ammalati attestano la cura.

Alcuni si fanno guidare dalle parole, altri si decidono solo per gli esempi.

Alcuni hanno bisogno di stimolo, altri di freno: quelli infatti che sono pigri e lenti, bisogna eccitarli con il pungolo della parola; quelli invece che sono ferventi di spirito oltre misura e non sanno frenare i propri impeti, come cavalli focosi che corrono oltre il traguardo, bisogna correggerli con la parola moderatrice e frenante.

Ad alcuni è stata utile la lode e ad altri la riprensione usate a tempo giusto, usate invece fuori tempo e senza motivo sono state loro di danno.

Per alcuni serve il consiglio, per altri il rimprovero; e questo in qualche caso pubblico, e in qualche caso privato.

Taluni infatti non fanno conto alcuno degli ammonimenti fatti a tu per tu, mentre si correggono per i rimproveri pubblici; talaltri invece si mostrano insofferenti della riprensione aperta, mentre si lasciano guidare dall'ammonimento segreto e ricambiano la comprensione con l'obbedienza.

Per alcuni bisogna osservare tutto, anche le minuzie: essi credono che le loro colpe non siano conosciute e si gonfiano come fossero chissà chi, per altri è meglio non badare a molte cose, quasi non vedere vedendo e non udire udendo, come dice il proverbio, per non spingerli a disperazione, sommergendoli nei rimproveri, e renderli alla fine temerari, togliendo loro il pudore che è il farmaco della persuasione.

Per alcuni dobbiamo adirarci, ma senza ira, dobbiamo disprezzarli senza disprezzo, dobbiamo respingerli senza ripulsione, quanto almeno richiede il loro carattere.

Altri dobbiamo curarli con la dolcezza e l'umiltà sforzandoci di nutrire con loro le migliori speranze.

Per gli uni è utile per lo più vincere, per gli altri perdere; per gli uni la ricchezza e il potere, per gli altri la povertà e le disgrazie; e così essere lodati o maledetti.

Se la virtù è ottima e utilissima sempre e a tutti, e il vizio invece pessimo e dannoso - non così avviene riguardo al nostro metodo terapeutico, che cioè una stessa e identica medicina si mostri sempre utile o dannosa -: parlo del rigore o della dolcezza e di tutto ciò che abbiamo sopra menzionato.

Ma per alcuni è buono e utile un metodo, per altri tutto il contrario, secondo, credo, i tempi e le circostanze, e anche lo stato del paziente.

Distinguere tutto ciò esattamente ed esaminarlo con rigore tanto da ridurre a sommi capi tutto il metodo terapeutico è impossibile per quanta cura e intelligenza uno possieda.

Solo l'esperienza e la situazione concreta danno al medico le indicazioni terapeutiche.

In generale però questo è ovvio: come quelli che camminano su una fune tesa in alto non possono arrischiarsi di sporgersi un pochino da una parte o dall'altra, perché non piccolo è il pericolo cui li espone una inclinazione sia pur minima, ma tutta la loro sicurezza sta nel perfetto equilibrio, così chi si piega qua o là, sia per cattiveria che per imperizia, corre un pericolo non piccolo di precipitare in peccato, sia lui stesso che quelli che egli guida spiritualmente.

Perciò dobbiamo senz'altro camminare per la strada maestra, badando di non deviare né a destra né a sinistra, com'è detto nel libro dei Proverbi ( Pr 4,27 ).

Tale è la natura delle nostre passioni, tanto è il lavoro cui deve sobbarcarsi il buon pastore che vuole conoscere a fondo le anime del suo gregge e guidarle seconde le norme pastorali, rette, giuste e degne del nostro vero Pastore.

Gregorio di Nazianzo, Il sacerdozio, 16-18.26.28-34

2. - Esortazione allo zelo nel sacro ministero

Ben giustamente possiamo dire che le anime umane sono cibo del Signore, perché sono state create per entrare nel suo corpo, per servire cioè quali membra degne del suo corpo mistico all'aumento della Chiesa eterna.

Ma noi [ sacerdoti ] dobbiamo essere il condimento di questo cibo; infatti il Signore ai suoi discepoli, quando li mandò a predicare, disse: Voi siete il sale della terra ( Mt 5,13 ).

Come dunque il popolo è cibo di Dio, così i sacerdoti devono essere condimento di questo cibo.

Ma quando noi smettiamo di dedicarci alla preghiera e alla santa riflessione, il sale diventa scipito, non dà più sapore ai cibi di Dio, perciò il Creatore non lo usa, perché esso per la nostra fatuità, non condisce proprio più.

Ponderiamo dunque chi mai si è convertito per le nostre parole, chi si è corretto dalle sue azioni perverse per le nostre esortazioni, chi si è dato alla penitenza, chi ha abbandonato la lussuria per i nostri consigli, chi si è allontanato dall'avarizia o dalla superbia.

Ponderiamo che guadagno abbiamo ottenuto per Dio noi che, ricevuto il talento, siamo stati da lui incaricati di trafficarlo.

Egli dice infatti: Impiegateli fino a quando tornerò ( Lc 19,13 ).

Ecco che viene, ecco che chiede conto del nostro mercanteggiare.

Quale guadagno di anime gli possiamo mostrare?

Quanti manipoli di anime possiamo porre al suo cospetto, quale messe della nostra predicazione?

Poniamo davanti ai nostri occhi quel giorno tremendo, quando il giudice verrà a chiedere il rendiconto ai suoi servi a cui affidò i suoi talenti.

Ecco: apparirà in maestà terribile, tra i cori degli angeli e degli arcangeli.

A quel grande esame si presenterà la folla degli eletti e dei reprobi tutti, e ciascuno mostrerà le sue opere.

Ivi si presenterà Pietro, portando dietro a sé tutta la Giudea convertita.

Ivi Paolo, recando per così dire, tutto il mondo convertito.

Andrea condurrà dietro a sé, al cospetto del suo re, l'Acaia da lui convertita; Giovanni, l'Asia; Tommaso, l'India.

Ivi tutti i capi del gregge del Signore si presenteranno con le anime conquistate, che avranno tratto dietro a sé, con le loro sante prediche, quale gregge obbediente a Dio.

E quando dunque tanti pastori si porranno, con i loro greggi, davanti agli occhi del pastore eterno, che cosa diremo noi, miseri, che torniamo al nostro Signore a mani vuote, che pur abbiamo portato il nome di pastore e non abbiamo da mostrare pecore nutrite dalle nostre cure?

Qui siamo chiamati pastori, e là non condurremmo gregge!

Ma forse perché noi siamo negligenti, Dio onnipotente abbandonerà le sue pecore? Nient'affatto.

Egli, come ha promesso per bocca del profeta, le cura da se stesso, ammaestrando con lo stimolo del castigo e con lo spirito di compunzione coloro che ha predestinato alla vita.

Ed ecco che i fedeli ricevono da noi il santo battesimo, vengono benedetti dalle nostre preci e ricevono da Dio lo Spirito Santo per l'imposizione delle nostre mani; ed essi poi giungono al regno dei cieli mentre ecco noi, per negligenza nostra, tendiamo in basso.

Gli eletti, purificati dalle mani dei sacerdoti, entrano nella patria celeste; e i sacerdoti cattivi, per la loro vita reproba, si affrettano ai supplizi dell'inferno.

A che cosa mai paragonerò i sacerdoti cattivi, se non all'acqua del battesimo, che lava i peccati dei catecumeni trasferendo costoro nel regno celeste, ma essa poi discende nelle cloache?

Temiamo ciò, fratelli, e le nostre azioni si addicano al nostro ministero.

Pensiamo ogni giorno a riscattarci dai nostri peccati, e che non resti legata alla colpa la nostra vita, per opera della quale Dio onnipotente assolve ogni giorno gli altri.

Riflettiamo senza interruzione a ciò che siamo; ponderiamo il nostro ufficio, pesiamo l'onere che abbiamo abbracciato.

Facciamo ogni giorno, tra noi e noi, i conti che abbiamo aperti con il nostro giudice.

E dobbiamo in tal modo aver cura di noi, da non trascurare la cura del prossimo, tanto che chiunque si avvicina a noi rimanga condito con il sale dei nostri discorsi.

Se vediamo qualcuno scioperato e lubrico, dobbiamo ammonirlo che cerchi di frenare, sposandosi, la sua scostumatezza, imparando a vincere ciò che non è lecito con ciò che è lecito.

Se vediamo uno sposato, dobbiamo ammonirlo che si applichi agli affari del mondo in modo però di non posporvi l'amore di Dio; che cerchi di piacere alla moglie, in modo però di non dispiacere al Creatore.

Se vediamo un chierico, dobbiamo ammonirlo che si comporti in modo da essere un esempio di vita per i secolari, perché se in lui qualcosa fosse giustamente da biasimare, per sua colpa la stima della nostra stessa religione ne sarebbe oppressa.

Se vediamo un monaco, dobbiamo ammonirlo che mostri il rispetto per il suo abito nelle azioni, nelle parole e nello stesso pensiero abbandonando del tutto ciò che è del mondo, e mostrando agli occhi di Dio con santi costumi ciò che professa col suo abito davanti agli occhi degli uomini.

Chi è già santo, ammoniamolo che cresca in santità; chi invece è ancora peccatore, ammoniamolo che si corregga, in modo che chiunque si avvicina al sacerdote se ne vada condito dal sale della sua parola.

Tutto ciò, o fratelli, riflettete con cura tra voi stessi, e tutto ciò offrite al vostro prossimo e preparatevi a rendere a Dio onnipotente il frutto del ministero che avete ricevuto.

Gregorio Magno, Omelia per la festa di un santo evangelista

3. - Sopportate le debolezze altrui

Il pastore d'anime deve essere vicino a tutti per la comprensione, deve elevarsi al di sopra di tutti nella contemplazione, tanto da accogliere in sé, per l'intimo amore, la debolezza altrui, e trascendere se stesso, con l'altezza della contemplazione e il desiderio dei beni invisibili.

Anelando a tali altezze, non disprezzi la debolezza del prossimo o, viceversa, adattandosi a questa debolezza, non cessi di anelare a tali altezze.

É per questo che Paolo, pur rapito in paradiso, pur intravedendo i segreti del terzo cielo, tutto assorto in quella contemplazione di realtà invisibili, riconduce la sua mente al giaciglio degli uomini carnali, e li ammaestra come si debbano comportare nei loro rapporti più intimi e nascosti, dicendo: Per evitare la fornicazione, però, ognuno abbia la sua moglie e ogni donna il suo marito.

Il marito poi renda alla moglie quel che le deve, e similmente la moglie al marito ( 1 Cor 7,2-3 ).

E poco dopo: Non vi defraudate l'un l'altro, se non di comune accordo e per poco tempo, per attendere alla preghiera; e poi di nuovo state insieme, affinché satana non vi tenti ( 1 Cor 7,5 ).

Ecco: è già introdotto nei segreti celesti e tuttavia, per profondo altruismo, osserva il letto degli uomini carnali, e con compassione dirige l'occhio del suo cuore, che ha elevato a realtà invisibili, ai segreti dei poveri mortali.

Trapassa il cielo nella sua contemplazione, eppure la sua sollecitudine giunge fino al giaciglio degli uomini carnali, perché, unito dal legame dell'amore con i sommi e gli infimi, viene rapito dalla forza dello Spirito alle possenti realtà superne, e per bontà verso gli altri con loro è debole.

É per questo infatti che dice: Chi è debole, che anch'io non lo sia?

Chi riceve scandalo, che io non ne frema? ( 2 Cor 11,29 ) …

Il comportamento dei pastori deve essere tale, che i loro soggetti non temano di svelare ad essi i loro segreti; così quando i miseri vengono sbattuti dai flutti delle tentazioni ricorrono all'animo del pastore come i bimbi al seno della madre e, con l'aiuto delle loro esortazioni, e con le lacrime delle loro orazioni, possono venire lavati dalle macchie di colpa che si sentono addosso.

Per questo davanti alle porte del tempio vi era il mare bronzeo, cioè la vasca sorretta da dodici buoi, per lavarsi le mani prima di entrare nell'edificio sacro …

Ora, quelli che con la loro paziente accondiscendenza si dispongono a cancellare le confessioni del prossimo, quasi portano una vasca davanti alle porte del tempio: così chiunque cerca di entrare nella porta dell'eternità, sveli all'animo del pastore le sue tentazioni e lavi, quasi in una vasca idonea, le mani dei suoi pensieri e delle sue azioni.

Succede per lo più che quando l'animo del pastore viene a conoscere, nelle intime confidenze, le tentazioni altrui, anche egli ne è oppresso, perché certamente si sporca l'acqua con la quale viene lavata la moltitudine del popolo.

Infatti riceve in sé l'immondizia di chi si lava, e perde lo splendore della sua purezza.

Ma non tema ciò il pastore, perché Dio ha provveduto a tutto con intelligenza e tanto più facilmente libererà dalle sue tentazioni colui che tanto più misericordiosamente viene affranto dalle tentazioni altrui.

Gregorio Magno, Regola pastorale, 2,5

4. - Amore e fortezza nella guida delle anime

Quando considero tra me e me fino a che punto il pastore d'anime debba essere umile e debba essere sostenuto, ritengo necessario che egli sia vicino, con umiltà, a chi compie il bene, e si aderga, con zelo per la giustizia, contro i vizi dei peccatori; e tutto in modo che egli non si innalzi mai al di sopra dei buoni, ma che sappia ricordarsi dell'altezza del suo potere quando la colpa degli iniqui lo esige.

Eliminata la vanagloria, ritenga se stesso uguale ai suoi sudditi che vivono bene, e si innalzi contro le colpe degli uomini perversi, per zelo di giustizia.

É per questo che Pietro pur avendo per volontà di Dio il primato nella santa Chiesa, non permise che il giusto Cornelio [ centurione ], umilmente in ginocchio davanti a lui, lo venerasse smoderatamente, e si riconobbe simile a lui dicendo: Alzati, non far così: anch'io sono un uomo ( At 10,26 ).

Ma quando scoprì la colpa di Anania e Saffira, mostrò per quale potenza fosse al di sopra di tutti gli altri.

Con una sola parola, infatti, li percosse e li privò della vita; vita che, per la forza dello Spirito, aveva conosciuto indegna.

Contro il peccato, si ricordò di essere il primo nella Chiesa, mentre non lo volle ammettere davanti ai fratelli retti, che gli attribuivano con forza tale onore.

In questo caso, la santità delle opere meritò l'unione nell'uguaglianza; nell'altro caso, il santo zelo gli fece esercitare il suo giusto potere.

É per questo che Paolo non si voleva riconoscere superiore ai fratelli fedeli, dicendo loro: Non vogliamo dominare la vostra fede, ma cooperiamo alla vostra gioia ( 2 Cor 1,23 ).

E poi soggiunge subito: Nella fede infatti state saldi, quasi volendo spiegare le sue parole, quasi dicesse: noi non vogliamo spadroneggiare la vostra fede, perché in essa siete salvi.

Noi siamo uguali a voi, perché nella stessa fede vi vediamo saldi.

Non riteneva certo di essere superiore ai fratelli quando diceva: Ci siamo fatti come bimbi in mezzo a voi ( 1 Ts 2,7 ) e ancora: Ma noi siamo vostri servi per Cristo ( 2 Cor 4,5 ).

Ma quando trova una colpa che deve correggere, ecco subito si impone come maestro e dice: Cosa volete?

Che venga da voi con le verghe? ( 1 Cor 4,21 ).

Dunque, occupa bene il suo posto eccelso colui che soggioga i vizi, anziché dominare i fratelli.

Regge bene il potere ricevuto chi lo sa esercitare e non far pesare.

Regge bene il potere chi sa usarlo per elevarsi sopra la colpa, e sa ignorarlo ponendosi al pari degli altri.

Dunque la virtù dell'umiltà deve essere coltivata in modo che non si allenti la rettitudine nel governare: se chi è a capo si abbassa più di quanto è conveniente, non può più guidare ad osservanza la vita dei sudditi.

D'altra parte la severità e il rigore non devono essere tali che, per zelo eccessivo, vada del tutto persa la mansuetudine.

Spesso, infatti, i vizi contraffanno le virtù: così l'avarizia pretende di essere parsimonia; la prodigalità, munificenza; la crudeltà, zelo per la giustizia; la debolezza, indulgenza.

La fermezza e la misericordia, dunque, molto ne scapitano se sono una senza l'altra.

É necessario possedere l'arte di un grande discernimento: la misericordia va applicata in modo che si proceda con giustizia e la severità in modo che si punisca con mitezza …

Vi sia amore, ma niente lassezza; vi sia vigore, ma niente durezza!

Gregorio Magno, Lettera a Giovanni

5. - Esortazione alla pazienza

Non condannare il fratello, non chiamare empietà la sua viltà, non essere facile a incolparlo o a rigettarlo, tu che fai professione di mansuetudine!

Qui mostrati umile, fin dove è possibile; qui anteponi a te il fratello, senza tuo danno, perché qui condannarlo e disprezzarlo equivale ad allontanarlo da Cristo e dalla sola speranza, equivale a tagliare insieme con la zizzania anche il frumento nascosto, e forse un frumento più prezioso di te.

Al contrario, correggi insieme lui - e ciò con dolcezza e amore, non come un nemico, come un medico rigoroso che non sa far altro se non cauterizzare e tagliare -, e insieme riconosci te stesso, e la tua debolezza.

Che è infatti se, soffrendo tu di cispa o di qualche altro malanno alla vista, non vedi il sole chiaro?

E se vedi tutto girare perché tu hai le vertigini o sei ubriaco, attribuisci ad altri questo tuo stato?

Bisogna riflettere e soffrire molto prima di condannare d'empietà qualcuno!

Non è la stessa cosa recidere una pianta, un fiore caduco, o un uomo.

Sei immagine di Dio, e tratti con una immagine di Dio: giudichi e sarai giudicato: giudichi il servo altrui, su cui un Altro dà disposizioni.

Esamina dunque il fratello ricordandoti che anche tu sarai giudicato con lo stesso metro; perciò non amputare, non rigettare troppo presto un membro, non essendo chiaro che, per questo, anche la parte sana del corpo non ne abbia danno; invece ammonisci, correggi, esorta ( 2 Tm 4,2 ).

Hai le norme dell'arte medica.

Sei discepolo di Cristo, mite e pieno d'amore per gli uomini, che portò su di sé le nostre debolezze.

Se la prima volta recalcitra, sii paziente; se lo fa la seconda volta, non perdere la speranza: non è giunto ancora il momento buono per la cura; e se lo fa anche la terza volta, mostrati un agricoltore premuroso: prega cioè il Padrone di non recidere né odiare il fico infruttuoso ( Lc 13,8 ), ma di coltivarlo piuttosto e curarlo e gettarvi concime: parlo cioè della correzione che ha luogo per mezzo della confessione, dell'umiliazione in pubblico, del comportamento umile nella pubblica penitenza.

Chissà che non muti e porti frutto, e offra così cibo a Gesù che ritorna da Betania?

Sopporta il fetore, vero o presunto, del fratello, tu che sei stato cosperso del crisma spirituale, opera d'arte unguentaria; e così gli comunicherai il tuo profumo.

Il suo male non è un veleno di vipera che, appena morso, tu sia travolto dai dolori e distrutto e perciò ti si perdoni se fuggi la bestia per non morire.

Piuttosto, se ti è possibile, cura anche lui; e se non ti è possibile, tu sarai sicuro che non parteciperai alla sua malvagità.

La sua malattia è un odore ripugnante che forse sarà superato ed eliminato dal tuo profumo.

Dovresti accettare prontamente per un tuo conservo, per un tuo parente, ciò che Paolo, pieno di zelo, osò per compassione non solo pensare, ma anche dire: che Israele cioè subentrasse al suo posto nell'incontro a Cristo, se fosse stato possibile ( Rm 9,3 ); e invece, mosso per lo più da un semplice sospetto, tu tagli fuori il tuo fratello.

Forse con la tua bontà lo avresti guadagnato, e invece con la tua sfrontatezza lo perdi; ed è un membro tuo, per il quale Cristo ha sofferto!

Gregorio di Nazianzo, Discorso sulla moderazione nel disputare, 29-31

6. - La parola di Cristo, farmaco di salute

Non sai che questo corpo [ la Chiesa ] è soggetto a più malanni e insidie che la nostra carne, e che più facile gli è ammalarsi e più difficile guarire?

Quelli che si dedicano alla cura dei nostri corpi hanno escogitato molti farmaci, si sono fatti un complesso di strumenti e hanno determinato diete convenienti ai vari ammalati: spesso per la salute dei sofferenti basta semplicemente cambiare l'aria, e anche il sonno a tempo debito può evitare al medico tutta la fatica.

Ma nel nostro caso non si può pensare a nulla di simile: oltre alle opere, vi è un solo metodo e mezzo di cura, cioè l'insegnamento con la parola di Cristo.

Questo è lo strumento, questa è la dieta, questo è il clima migliore; sta al posto dei farmaci, sta al posto del fuoco, sta al posto dei ferri chirurgici: sia che si debba tagliare, sia che si debba cauterizzare, questo solo deve bastare, e se questo non è efficace, tutto il resto non serve.

Con esso eccitiamo l'anima giacente, ne plachiamo le smanie, le amputiamo il superfluo e le rimpiazziamo ciò che le manca, e facciamo tutto il resto che necessita per la salute dell'anima.

Per una buona impostazione della vita, l'esempio della vita altrui eccita all'imitazione; ma quando l'anima è malata per una dottrina bastarda.

allora grande è il bisogno della parola di Cristo, non solo per l'incolumità dei fratelli nella fede, ma anche per combattere gli attacchi esterni.

Se qualcuno avesse la spada dello spirito e lo scudo della fede in modo tale da compiere miracoli e chiudere, con i prodigi, la bocca degli impudenti, non avrebbe forse bisogno dell'aiuto di questa parola?

Anzi, gli sarebbe piuttosto sommamente necessaria.

Anche san Paolo se ne servì, quantunque stupisse tutti ovunque per i suoi miracoli.

E uno del suo gruppo ci ammonisce di prenderci gran cura di questo potere della parola, dicendo: Siate pronti a rispondere a tutti quelli che vi chiedono conto della speranza che è in voi ( 1 Pt 3,15 ).

Non per altro tutti gli apostoli affidarono a Stefano e ai suoi compagni la cura delle vedove, se non per potersi pienamente dedicare al ministero della parola ( At 6,1-2 ).

Veramente non avremmo bisogno di preoccuparcene tanto se potessimo operare con la forza dei miracoli, ma poiché di tale forza non ne è rimasta neppure un'impronta, mentre da tutte le parti i nemici ci assediano numerosi, ci è necessario armarci della parola di Dio per non essere colpiti dagli strali degli avversari, anzi piuttosto colpire loro.

Dobbiamo perciò darci gran cura affinché la parola di Cristo abiti in noi.

Giovanni Crisostomo, Il sacerdozio, 4,3

7. - Pastore e mercenario

Non si chiama pastore, ma mercenario colui che pascola le pecore del Signore non per intimo amore, ma per guadagno temporale.

É mercenario infatti colui che sta al posto del pastore, ma non cerca di guadagnare le anime, ambisce ai comodi mondani, gode per l'onore del suo stato, si pasce dei guadagni temporali, si allieta del rispetto che gli uomini gli portano.

Questa è la mercede del mercenario tanto che per la sua fatica di governo trova quaggiù quello che cerca, e in futuro sarà escluso dall'eredità del gregge.

Se poi si tratti di un vero pastore o di un mercenario, non lo si può conoscere con esattezza se manca qualche occasione dolorosa.

Nei tempi tranquilli, infatti, nella custodia del gregge anche il mercenario si comporta per lo più come il vero pastore; ma quando viene il lupo, si vede con che animo ciascuno custodiva il gregge.

E viene il lupo sul gregge, quando qualche ingiusto tiranno opprime i fedeli e gli umili.

Colui che sembrava pastore, e non lo era, abbandona le pecore e fugge, perché teme il proprio pericolo, e non presume di resistere all'ingiustizia.

E fugge non solo mutando luogo, ma privando il gregge di appoggio.

Fugge, perché vede l'ingiustizia e tace; fugge, perché si nasconde nel silenzio; e di costoro è stato detto bene, per voce del profeta: Non vi siete schierati contro, né avete opposto un muro per la difesa della casa d'Israele, scendendo in guerra nel giorno del Signore ( Ez 13,5 ).

Schierarsi contro significa opporsi con libera voce a qualsiasi potente che agisce male.

Scendiamo in guerra per la casa d'Israele nel giorno del Signore, e opponiamo un muro, se con l'autorità della giustizia proteggiamo i fedeli innocenti contro l'ingiustizia dei perversi.

Perché il mercenario non fa così, quando vede venire il lupo, fugge.

Gregorio Magno, Omelia per la seconda domenica dopo Pasqua

8. - Ammonimento contro la sovraoccupazione

Spesso per la cura pastorale che ci si è assunti il cuore viene lacerato in diverse direzioni, e ci si rende perfino impari ai singoli doveri quando la mente confusa deve dividersi in troppi impegni.

Perciò un sapiente ci dà un provvido ammonimento dicendoci: Figlio, la tua attività non si svolga in molte azioni ( Sir 11,10 ); infatti non è possibile che la mente si raccolga appieno nelle singole opere quando è dispersa in troppi impegni.

Quando per le cure impellenti viene tratta alle esteriorità, essa perde la saldezza del timore intimo: si preoccupa tutta delle realtà esterne e sa pensare a molte cose, ignara solo di sé, non conoscendo se stessa.

Infatti, quando si avvolge nei doveri esteriori più di quanto è necessario, è come se, in viaggio, dimenticasse la meta: estraniatasi così dallo studio di se stessa, non riesce più a considerare neppure il danno che ne soffre, e non si rende conto in quante azioni pecca.

Gregorio Magno, Regola pastorale, 1,4

9. - Dobbiamo subordinare i nostri piani al volere di Dio

Se sei di malumore perché qualcun altro ha trascurato un'opera che tu ti attendevi, perché strettamente necessaria, e di conseguenza sei triste e compi senza soavità il tuo dovere di catechizzare, pur prescindendo dal fatto che lo sappiamo, dobbiamo usare misericordia in tutto ciò che trattiamo con gli uomini, per questo nostro dovere di purissima carità; prescindendo dunque da questo, devi riflettere come sia incerto ciò che nella nostra attività è più utile e ciò che sarebbe più opportuno, o interrompere, o omettere del tutto.

Non conosciamo infatti quali siano presso Dio i veri meriti di coloro per i quali lavoriamo, perciò non comprendiamo veramente, ma solo andiamo supponendo, senza fondamento alcuno o per qualche congettura assai lieve e incerta, ciò che a loro convenga nei singoli casi.

Perciò dobbiamo certo ordinare la nostra attività quanto meglio ci è possibile: e se si compie ciò che in questo modo abbiamo stabilito, gioiamone, perché non a noi, ma a Dio è piaciuto che in questo modo si compia.

Ma se insorge qualche occorrenza a turbare questo ordine da noi fissato, pieghiamoci facilmente, per non essere spezzati; così l'ordine decretato da Dio sarà anche il nostro.

É più giusto infatti che noi seguiamo la sua volontà anziché egli segua la nostra.

Infatti l'ordine delle attività a cui, per nostro arbitrio, vogliamo attenerci, è da lodare se in esso precede ciò che è più importante.

Perché dunque noi, semplici uomini, ci affliggiamo che il Signore Iddio, tanto più importante, ci preceda?

E per il fatto stesso che siamo tanto legati al nostro ordine, amiamo vivere senza ordine?

Nessuno infatti ordina meglio le proprie azioni di colui che è più pronto a omettere ciò che gli viene impedito dalla divina potestà, piuttosto che bramare di compiere ciò che si propone nel suo pensiero umano.

Infatti molti sono i pensieri nell'intimo dell'uomo, ma solo la decisione del Signore resta in eterno ( Pr 19,21 ).

Agostino, Come catechizzare i principianti, 1,20

10. - La gioia di insegnare

Se ci dà noia ripetere nozioni tanto comuni e tanto infantili, avviciniamoci ai bimbi con amore fraterno, paterno e materno; così, uniti a loro di cuore, anche a noi tali nozioni sembreranno novità.

Tanto vale infatti l'affetto di un animo in intima sintonia con il loro, che essi vengono impressionati dalle nostre parole e noi dal loro avido apprendere, e tutti abitiamo quasi gli uni negli altri.

Così essi in un certo modo dicono in noi quello che odono, e noi apprendiamo in loro, in un certo senso, quello che insegniamo.

Quando mostriamo a qualcuno la vastità e la bellezza di città o di campagne, che non ha mai visto e che noi invece, spesso vedendo, attraversiamo ormai senza nessun diletto, non succede forse che per il suo piacere della novità anche la nostra gioia si rinnova?

E tanto più, quanto più è nostro amico, dato che per il legame dell'amore noi siamo in lui, e in questo senso si fa nuovo per noi ciò che era ormai vecchio.

E quando ci abbandoniamo un po' a contemplare le realtà terrene, non vogliamo solo che i nostri cari si allietino e si meraviglino contemplando le opere degli uomini, ma vogliamo elevarli al pensiero, all'arte di chi le ha fatte; e quindi sollevarli all'ammirazione e alla lode di Dio che tutto ha creato, nel che consiste il fine dell'amore più fruttuoso.

Quanto più dobbiamo perciò rallegrarci quando gli uomini giungono a conoscere lo stesso Iddio, per amore del quale noi dobbiamo conoscere tutto ciò che è da conoscere!

E quanto più dobbiamo rinnovarci in ciò che per loro è novità, tanto che, se la nostra predicazione è fredda e consuetudinaria, si accenda e si faccia nuova per il loro ascolto!

Si aggiunga, ad accrescere la nostra letizia, il pensiero e la considerazione da quale morte dell'errore l'uomo trapassa alla vita della fede.

E se attraversiamo con piacevole gioia le strade che ci sono arcinote, quando mostriamo la via a qualcuno che forse si era stancato di girar qua e là: con quanta più alacrità e gioia dobbiamo camminare nella dottrina della salvezza, anche in ciò che per noi non sarebbe necessario ripetere, quando conduciamo per la via della pace l'anima misera e affaticata dal vagabondare in questo mondo, per comando di colui che ce l'ha affidata?

Agostino, Come catechizzare i principianti, 1,17

11. - Esortazione all'attività ministeriale

Se l'Unigenito del Padre, per agire a vantaggio di tutti, uscì dal segreto di Dio e si mostrò in pubblico tra di noi, che cosa diremo noi se anteponiamo una nostra vita segreta all'utilità del prossimo?

Dobbiamo desiderare di cuore la quiete, e tuttavia talvolta dobbiamo posporla al vantaggio di molti.

Infatti, se dobbiamo fuggire di tutto cuore il sovraccarico di occupazioni, però, se manca chi predica, dobbiamo addossarci con gioia il peso del lavoro.

Ci ammaestra in ciò il modo di agire di due profeti, l'uno dei quali tentò di evitare il compito della predicazione, e l'altro cercò di ottenerlo: Geremia, al Signore che lo mandava a predicare, rispose dicendo: Ah, ah, ah, Signore Dio! Non so parlare, perché sono un fanciullo ( Ger 1,6 ); e quando invece Iddio onnipotente cercava qualcuno per predicare, dicendo: Chi manderò? e chi andrà per noi?, Isaia si offrì volontariamente esclamando: Eccomi, manda me! ( Is 6,8 ).

L'espressione esterna dei due fu diversa, ma emanò da una identica fonte di amore.

Due infatti sono i precetti della carità: amare Iddio e amare il prossimo.

Isaia perciò, bramando di giovare al prossimo con la vita attiva, richiese l'ufficio di predicare; Geremia invece, desiderando ardentemente di unirsi all'amore del suo Creatore, fece resistenza per non essere mandato a predicare.

Quello che uno lodevolmente bramò, l'altro lodevolmente paventò.

Questi non volle perdere il guadagno della tacita contemplazione, parlando; quegli non volle soffrire il danno dell'attività ardente, tacendo.

Ma questo in particolare dobbiamo attentamente considerare in tutti e due: colui che recusò l'incarico, non continuò nella sua resistenza, e colui che volle assumerlo, si sentì prima purificare con una brace dell'altare, affinché nessuno osi intraprendere, non purificato, i sacri ministeri, e perché colui che viene eletto dalla grazia superna, non le si opponga superbamente col pretesto dell'umiltà.

Vedo nelle vostre lettere che con grande desiderio cercate la serenità dello spirito e anelate alla tranquillità della meditazione, evitando ogni motivo di turbamento.

Ma in che modo la vostra fraternità possa raggiungere ciò, non lo comprendo.

Chi infatti si è assunto l'incarico di guidare la nave, tanto più è necessario che vigili, quanto più lontano ha lasciato il lido, per prevedere dai segni del tempo le procelle incombenti.

Quando arrivano, o le deve superare, se non sono gravi, a timone diritto, oppure, se si gonfiano tumescenti, le deve sfuggire con rotta obliqua; e spesso deve vegliare da solo, mentre tutti gli altri, a cui non è stato affidato il governo della nave, dormono.

Come è possibile che, assunto il grave dovere pastorale, possiate avere la serenità di meditare, dato che sta scritto: Ecco, i giganti gemono sotto le acque ( Gb 26,5 )?

Ora, stando alle parole di Giovanni: Le acque sono i popoli ( Ap 17,15 ).

I giganti gemono sotto le acque: chiunque in questo mondo per la sua posizione e il suo potere è cresciuto, quasi come ingigantito nel corpo, tanto più soffre il peso di una tribolazione maggiore, quanto più si è assunto l'incarico di governare i popoli.

Ma se la forza dello Spirito Santo inonda il nostro animo afflitto, subito avviene spiritualmente in noi ciò che accadde materialmente al popolo d'Israele.

Sta scritto infatti: Ma i figli d'Israele camminarono sul terreno asciutto, in mezzo al mare ( Es 15,19 ).

E per bocca del profeta il Signore ci promette: Quando passerai attraverso le acque, sarò con te, e i fiumi non ti opprimeranno ( Is 42,2 ).

Vengono oppressi dai fiumi coloro che l'attività di questo mondo sconvolge nell'animo e travolge.

Ma colui che per la grazia dello Spirito Santo resta saldo nel suo spirito, attraversa le acque, e i fiumi non l'opprimono, perché anche tra le folle di popolo avanza nella sua via in modo da non perdere nell'agire terreno la grandezza del suo spirito.

Gregorio Magno, Lettera al vescovo Ciriaco di Costantinopoli

12. - La ricchezza di doti, segno della vocazione alla predicazione

Vi sono non pochi che hanno ricevuto doni esimi di virtù e per i loro grandi doni eccellono nella guida degli altri: sono puri per la cura della castità, sono forti per l'impegno nell'astinenza, nutriti di dottrina spirituale, umili per pazienza longanime, elevati per forza di autorità, benigni per pietosa indulgenza, rigidi per giusta severità.

Se dunque costoro, chiamati ad assumersi il sommo governo pastorale, se ne sottraggono, privano per lo più se stessi di quei doni che hanno ricevuto non solo per sé, ma anche per gli altri.

Pensando al proprio guadagno e non al bene altrui, si privano dei beni che vogliono godere essi soli.

Per questo la Verità dice ai suoi discepoli: Non si può nascondere una città posta sul monte, né accendere la lucerna e porla sotto il moggio, ma sopra il candelabro, affinché risplenda a tutti coloro che sono nella casa ( Mt 5,14-15 ).

Per questo disse a Pietro: Simone di Giovanni, mi ami?

E questi, avendo subito risposto di amarlo, si senti dire: Se mi ami, pasci le mie pecore ( Gv 21,16 ).

Se dunque la cura pastorale è testimonianza di amore, chiunque, pur ricco di virtù, rifiuta di pascolare il gregge di Dio, mostra di non amare il suo pastore.

Per questo Paolo dice: Se Cristo è morto per tutti, sono dunque morti tutti; e se egli è morto per tutti, quelli che vivono non devono vivere più per loro stessi, ma per colui che è morto ed è risuscitato per loro ( 2 Cor 5,14-15 ) …

Vi sono dunque non pochi che, arricchiti di grandi doni, come abbiamo detto, ardendo solo di amore per la contemplazione, ricusano di procurare utilità al prossimo con la predicazione: preferiscono la quiete indisturbata, il ritiro in meditazione.

Se costoro vengono giudicati con rigore, senza dubbio sono tanto colpevoli, quanto avrebbero potuto giovare agendo in pubblico.

E con quale giustificazione colui che potrebbe segnalarsi per il bene al prossimo antepone il proprio ritiro all'utilità degli altri, quando lo stesso Unigenito del sommo Padre per giovare a molti uscì dal seno del Padre e venne in mezzo a noi?

E vi sono non pochi che se ne sottraggono solo per umiltà, perché non vogliono venire preposti a coloro di cui si stimano inferiori.

Certo la loro umiltà, se è circondata anche dalle altre virtù, è vera agli occhi di Dio, purché non sia pertinace nel rifiutare il peso cui viene loro comandato di sobbarcarsi per l'utilità altrui.

Non è infatti veramente umile chi comprende che la volontà di Dio gli impone di comandare, ed egli tuttavia si rifiuta.

Ma, soggetto alle divine disposizioni, libero dal male dell'ostinazione, quando gli viene imposto il governo pastorale supremo, se è stato già arricchito di doni con cui giovare agli altri, deve pur contro la sua volontà obbedire.

Gregorio Magno, Regola pastorale, 1,5-6

13. - Rispetto per la parola di Dio

É entrato in chiesa un ricco, oppure una donna ricca.

Non pensa affatto come ascoltare le parole di Dio, ma come mettersi in mostra, come assidersi con pompa, con grande gloria e come superare tutte le altre donne per lo sfarzo delle vesti, come mostrarsi imponente nell'aspetto, nello sguardo e nell'incedere.

Ecco ogni sua preoccupazione e cura.

La tale mi ha visto? É rimasta stupefatta? Mi sono truccata bene?

No, non solo di questo si dà cura, ma anche di non gualcire i vestiti e di non lacerarli: ogni suo pensiero è rivolto a ciò.

Così l'uomo ricco entra in chiesa per farsi ammirare dal povero, per incutergli timore con lo splendore delle sue vesti, con il corteo dei suoi schiavi, che sono là a fargli posto.

Neppure ciò, infatti, si degna di fare per la sua superbia, ma, considerandolo un'opera indegna di un uomo libero, non se ne vuole occupare, nella sua gran boria, e lo affida agli schiavi che lo accompagnano: è qualcosa di servile, di vergognoso.

E appena si siede, subito lo assediano i pensieri di casa sua e lo trascinano da ogni parte, mentre la boria, che domina la sua anima, lo circonda tutto.

Crede di usare degnazione verso di noi e verso il popolo e forse persino verso Dio, per essere entrato in casa sua.

Chi è preso da una tale febbre, come potrà essere curato?

Dimmi: se qualcuno va dal medico e non gli chiede aiuto, ma crede di usargli degnazione e non si fa dare qualche medicina per le ferite, ma si preoccupa solo di vestiti, credi che se ne torni avendone ottenuto qualche vantaggio? Io non lo credo davvero.

Vi dico il motivo di tutto ciò, se lo volete.

Essi credono di venire da noi quando entrano qui in chiesa, credono di udire da noi ciò che odono; non badano, non pensano che vengono da Dio, e che è lui a parlare loro quando il lettore si alza e dice: Questo dice il Signore, e quando il diacono sorge e ordina a tutti di tacere - fa ciò non per onorare chi legge, ma per onorare colui che per mezzo del lettore parla a tutti -.

Se avessero coscienza che è Dio a parlare per mezzo del profeta, allontanerebbero tutta la loro boria.

Quando infatti parla loro qualche autorità, non ammettono nessuna distrazione: e tanto più per Dio.

Noi siamo semplici ministri, o carissimi: non diciamo cose nostre, ma cose di Dio; ogni giorno giungono lettere dal cielo, che noi leggiamo.

Dimmi, ti prego: se quando siete tutti presenti entrasse un tale con una fascia d'oro, incedendo altero e a testa alta, e dichiarasse di essere stato mandato dal re della regione a tutta la città per recare una missiva di somma importanza, non vi rivolgereste tutti a lui?

Non fareste un gran silenzio anche se il diacono non ve lo comandasse?

Io ne sono certo, perché anche qui ho udito leggere le missive di imperatori.

Quando dunque viene un nunzio dell'imperatore, voi tutti ascoltate; quando viene invece un nunzio di Dio, quando un profeta parla dai cieli, allora nessuno ascolta.

Non credete dunque che le nostre parole vengano da Dio?

Eppure sono proprio lettere da lui inviate.

Entriamo perciò nelle chiese con il rispetto che a lui si addice e ascoltiamo con timore ciò che ci viene detto.

Giovanni Crisostomo, Omelie sulla seconda lettera ai Tessalonicesi, 3,3-4

14. - La diligenza è una premessa indispensabile

Quando uno ha una grande capacità oratoria - il che si trova in pochi - non è affatto liberato dalla fatica continua.

Il parlare infatti non è dono di natura, ma frutto di studio e se qualcuno ne ha raggiunto anche l'apice, ma non coltiva di continuo con diligenza ed esercizio questa sua capacità, finisce per restarne completamente privo.

Per questo i più dotati devono fare più fatica degli inesperti.

Non è uguale il danno che ne hanno se, sia questi, sia quelli, si mostrano trascurati: il danno è tanto maggiore, quanta è la differenza delle loro capacità.

Gli inesperti, nessuno li accusa se il loro discorso non offre nulla di particolare, ma i più dotati, se non dicono sempre qualcosa che superi la stima che tutti hanno di loro, devono aspettarsi molte critiche da tutti.

Inoltre, gli inesperti per discorsi anche da poco vengono molto lodati; i discorsi invece dei bravi predicatori, se non sono stupendi ed emozionanti, non solo non vengono encomiati, ma vengono da molti biasimati.

Gli ascoltatori si siedono, infatti, non tanto per udire ciò che viene detto, quanto per giudicare la bravura dell'esposizione.

Per questo se uno supera tutti gli altri per capacità oratoria, più degli altri gli è necessaria la diligenza e la fatica.

Giovanni Crisostomo, Il sacerdozio, 5,5

15. - Sapersi adattare alla capacità degli uditori

Se ci rattrista il fatto che chi ci ascolta non comprende il nostro pensiero, dalla cui altezza siamo costretti per così dire a discendere, se siamo pieni di cruccio perché, per lunghe e contorte vie, procede dalla bocca della carne ciò che la mente beve con sorso velocissimo, e se, dato che è molto dissimile dal pensiero ciò che ne esce, ci è di tedio parlare e preferiremmo tacere, pensiamo allora al comando di colui che ci ha dato l'esempio affinché seguiamo le sue orme ( 1 Pt 2,21 ).

Per quanto, infatti, differisca la nostra voce articolata dalla vivacità del nostro intelletto, infinitamente maggiore è la differenza fra la nostra carne mortale e Dio.

Eppure Cristo, pur essendo nella forma divina, annientò se stesso prendendo forma di schiavo … fino alla morte di croce ( Fil 2,6-8 ).

E per quale motivo, se non per farsi debole con i deboli, per conquistare i deboli? ( 1 Cor 9,22 ).

Ascolta cosa dice anche in un altro luogo questo suo imitatore [ Paolo ]: Se infatti andiamo fuori dei sensi, lo facciamo per Iddio; se stiamo nei limiti è per voi, perché la carità di Cristo ci stringe, persuasi come siamo che uno è morto per tutti ( 2 Cor 5,13-14 ).

Come avrebbe potuto essere pronto a consumarsi per le loro anime, se gli fosse rincresciuto adattarsi alle loro orecchie?

Per questo si fece piccolo tra di noi, come la mamma che si stringe al seno i figli.

É forse bello, se l'amore non invita, mormorare parole storpiate e mutilate?

E tuttavia gli uomini desiderano avere figli con i quali comportarsi così; è più soave per la madre porre in bocca al figlioletto piccoli bocconi da lei masticati, che mangiare e ingoiare bocconi più grandi.

Non dimentichiamo mai l'immagine della gallina che copre con le soffici piume i teneri nati e chiama con voce rotta i pulcini pigolanti; i superbetti che si rifiutano di rifugiarsi sotto le sue blande ali, cadono preda dei rapaci.

Se dunque il nostro intelletto è pieno di letizia nei penetrali della verità, ci diletta anche comprendere che la carità, quanto è più pronta a discendere in basso, tanto è più forte a raccogliersi nell'intimo, con la buona coscienza di non chiedere nulla a coloro a cui discende, fuorché la loro salute eterna.

Agostino, Come catechizzare i principianti, 1,15

16. - Effetti visibili e invisibili della predicazione

Volesse il cielo che le nostre parole avessero maggior effetto!

Tuttavia, se i nostri ascoltatori restano nei loro vizi anche dopo le nostre esortazioni, noi non cesseremo mai di dare loro buoni consigli: le fontane continuano a scorrere anche se nessuno va a prendere acqua, le sorgenti continuano a sgorgare anche se nessuno attinge, i fiumi scorrono anche se nessuno beve.

Anche il predicatore perciò, per quanto nessuno ascolti, deve porgere a tutti ciò di cui è pieno.

A noi, cui è stato affidato il ministero della parola, è stata data da Dio, amante degli uomini, la legge di non cessare mai nel nostro impegno e di non smettere di parlare, sia che qualcuno ci ascolti, sia che nessuno ci badi …

E io ho deciso nel mio animo che fino a quando respirerò, fino a quando piacerà a Dio farmi restare in questa vita, adempirò questo ministero, sia che qualcuno mi ascolti, sia che nessuno mi ascolti, e farò ciò che mi è stato prescritto.

Ma vi sono non pochi che infiacchiscono le mani di molti ( Is 35,3 ) e, oltre a non ricavare nessun utile dalla nostra vita, distolgono gli altri dal loro impegno dileggiandoli e motteggiandoli, dicendo: « Cessa di dare consigli, cessa di esortare: non ti vogliono ascoltare; taglia ogni rapporto con loro! ».

Proprio perché ci sono alcuni che parlano in questo modo e perché voglio allontanare dall'anima dei più questo pensiero perverso e disumano, questo consiglio diabolico, mi fermo un po' di più a parlare sull'argomento.

So infatti che proprio ieri molti hanno fatto discorsi simili e, vedendo alcuni perdere tempo in osteria tra le risa e i motteggi hanno detto: « Ecco che tutti si sono persuasi! Nessuno entra più in osteria! Tutti ormai sono sobri! ».

Ma che dici, o uomo? Abbiamo forse promesso di convertire tutti in un solo giorno?

Se dieci solo ci hanno dato retta, se cinque solo, anzi se uno solo, non basta ciò a consolarci?

Anzi, dirò qualcosa ancor più forte: supponi che nessuno si lasci persuadere dai nostri discorsi, per quanto sia impossibile che la parola disseminata in tante orecchie resti infruttuosa; tuttavia supponi proprio ciò: neppure così la predicazione sarà priva di profitto.

Sono entrati in osteria, ma non vi sono entrati con la stessa impudenza; anzi spesso a quella tavola hanno ricordato le nostre parole, la nostra esortazione, la nostra riprensione, e a quel ricordo hanno provato vergogna, sono arrossiti nel loro intimo: non hanno fatto col solito ardire quello che fanno.

Questo è il principio della salvezza, di un mutamento eccellente: vergognarsi cioè profondamente e profondamente condannare ciò che è avvenuto.

Oltre a questo, otteniamo anche un altro vantaggio.

Qual è? Sottolineiamo la dignità di coloro che sono sobri, perché dalle nostre parole risulta come più degli altri siano pieni di buona volontà, non lasciandosi trascinare dai più.

Non ho sollevato gli ammalati? Ma ho reso più forti i sani.

La nostra parola non ha allontanato nessuno dal vizio?

Ma ha reso più sicuri i fedeli che vivono nella virtù.

E aggiungerò un terzo motivo.

Non li ho persuasi oggi? Forse potrò persuaderli domani; e se neppure domani, forse dopodomani o il giorno seguente.

Chi oggi ascolta e rifiuta, forse domani ascolterà e accetterà; e chi oggi e domani disprezza la mia parola, tra qualche giorno forse darà retta a ciò che gli dico.

Spesso anche il pescatore che per tutto il giorno ha gettato invano la rete, alla sera, quando sta per ritirarsi, prende il pesce che tutto il giorno gli è sfuggito e se ne torna.

Se, per i continui insuccessi, stiamo in ozio e rinunciamo a ogni azione, tutta la nostra vita rovina: va in sfacelo non solo ciò che è spirituale, ma anche ciò che è necessario per la vita.

Se, perché una volta o due o spesso il clima è sfavorevole, l'agricoltore abbandonasse la coltura dei campi, presto moriremmo tutti di fame; così se il nocchiero, per essere incappato una volta o due o spesso nella tempesta, fuggisse il mare, nessuno più lo navigherebbe e finirebbero per la nostra vita tante utilità.

Se, passando in rassegna ogni mestiere, tu esortassi e consigliassi ciò che consigli a noi, tutto quanto se ne andrebbe in rovina e la terra resterebbe disabitata.

Tutti sanno ciò e, se una volta o due volte o spesso, non ottengono risultati dalle occupazioni in cui passano la loro vita, le riprendono ugualmente sempre con pari alacrità.

Giovanni Crisostomo, Omelie su Lazzaro, 1,1-4

17. - Parlare in virtù della grazia

Vi è una grande differenza fra chi parla in virtù della grazia e chi lo fa per umana sapienza.

Spesso si è sperimentato che uomini eloquenti ed eruditi, molto dotati non solo nel parlare, ma anche nel comprendere, pur avendo tenuto molti discorsi nelle chiese e aver goduto di grande successo, non sono riusciti a eccitare a compunzione con i loro discorsi nessuno degli ascoltatori, né a farli progredire nella fede o nel timore di Dio per il ricordo delle loro parole.

Ci si allontana da loro avendo goduto, con le orecchie, solo una sorta di diletto, di soavità.

Spesso invece uomini di minore eloquenza, per nulla preoccupati di fare un bel discorso, con parole semplici e disadorne hanno convertito molti alla fede, hanno indotto i superbi a umiltà, hanno conficcato nell'animo dei peccatori lo stimolo della conversione.

Ed è questo certamente un segno che parlavano in virtù della grazia loro data.

Origene, Commento alla lettera ai Romani, 9,2

18. - Rinunciare alla fama

Chi ha accettato la fatica di ammaestrare gli altri, non badi alle lodi altrui né si lasci abbattere d'animo se esse mancano, ma lavori ai suoi discorsi in modo da piacere a Dio: questo deve essere l'unica regola, l'unico limite nella loro elaborazione, non le lodi o il biasimo.

Se poi viene lodato anche dagli uomini, non rifiuti gli encomi; se non gliene vengono attribuiti dagli ascoltatori, non li cerchi e non ne soffra: è per lui una consolazione sufficiente, anzi maggiore di ogni altra, poter attestare a se stesso d'aver preparato ed esposto il proprio insegnamento in modo da piacere a Dio.

Invece, se si lascia vincere dal desiderio delle lodi, né le sue notevoli fatiche gli saranno di vantaggio alcuno, né i suoi discorsi saranno efficaci.

L'animo, infatti, che non sa sopportare i rimproveri sciocchi di molti, facilmente si abbatte e rinuncia all'impegno nel parlare.

Perciò bisogna soprattutto imparare questa lezione: disprezzare le lodi; non basta saper parlare per conservare l'efficacia dei propri discorsi, se non gli si aggiunge appunto il disprezzo delle lodi.

A un esame accurato, poi, risulta che chi non è affatto fornito di virtù oratoria ha bisogno di disprezzare le lodi non meno di chi è un bravo predicatore: se, infatti, si lascia vincere dall'opinione dei più, è trascinato di necessità a molte colpe: non riuscendo a imitare gli oratori più celebri nella virtù oratoria, non esiterà ad insidiarli, a invidiarli, a biasimarli senza motivo e a comportarsi vergognosamente con loro; tutto oserà, anche dovesse rimetterci l'anima, per ridurre la loro gloria alla piccolezza della propria condizione.

Inoltre cesserà di sudare e faticare, come se una specie di torpore si fosse diffuso nella sua anima.

Infatti, ottenere poche lodi nonostante una grande fatica è motivo sufficiente a gettare nell'indolenza colui che non è capace di disprezzare le lodi.

Anche il contadino, del resto, se fatica su un terreno sterile, se è costretto ad arare le pietre, ben presto smette di lavorare, a meno che non sia tutto preso dal suo lavoro o sia mosso dalla paura della fame.

Se coloro che sono dotati di grandi capacità oratorie hanno bisogno di tanto esercizio per conservare questa loro prerogativa, colui che non riesce a stringere nulla, che perfino mentre parla è costretto a pensarci sopra, quale travaglio, quale tumulto, quale turbamento deve sobbarcarsi per riuscire con gran fatica a mettere insieme qualcosa?

Se poi qualcuno a lui subordinato o di grado inferiore appare a lui superiore in questo campo, egli deve avere un animo addirittura divino per non farsi prendere dal malanimo, per non cadere nella tristezza.

Per chi è superiore in dignità essere superato dagli inferiori e sopportare ciò generosamente, richiede un animo non qualunque, non comune, ma addirittura adamantino.

Se poi chi più è stimato in questo campo è modesto e misurato, il male si può ancora sopportare; se invece è insolente, arrogante e vanitoso, gli fa desiderare ogni giorno la morte, tanto gli rende la vita amara, insultandolo apertamente e irridendolo sotto sotto, arrogandosi gran parte della sua autorità e volendo essere tutto.

In tutto ciò gli dà gran forza la sua sicurezza nel parlare, la simpatia della folla, l'amore di tutti i sudditi.

Non sai quanto al giorno d'oggi l'amore per i bei discorsi ha invaso l'animo dei cristiani e quanto sono stimati i bravi oratori non solo dagli estranei, ma anche dai fratelli nella fede?

Giovanni Crisostomo, Il sacerdozio, 5,7-8

19. - Il pericolo della vanità

Devi parlare in chiesa? Non provocarti un'acclamazione popolare, ma lacrime.

Le lacrime di chi ti ascolta sono l'elogio più bello.

E bada che un sacerdote deve dare sapore alla sua predica, leggendo la Scrittura.

Non ti voglio sentire declamare, abbaiare, cianciare a vuoto, ma devi essere profondo in teologia e bene aggiornato sui misteri del tuo Dio.

É proprio da ignoranti suscitare l'ammirazione verso di sé da parte del popolo incompetente, con artifici di parola e col parlare di corsa.

Solo una faccia di legno può mettersi a spiegare ciò che non sa, e avendo indotto gli altri a crederci, autoconvincersi poi di essere un pozzo di scienza …

Non c'è cosa più facile che incantare il basso popolino privo di istruzione, con un discorso retorico, dato che esso, quanto meno capisce, tanto più ne è ammirato.

Girolamo, Le Lettere, I, 52,8 ( a Nepoziano, sacerdote )

20. - L'intercessione della comunità

Per il resto, o fratelli, pregate per noi, affinché la parola del Signore corra e sia glorificata come presso di voi! ( 2 Ts 3,1 ) …

Erano grandi quei cristiani, se avevano tanta fiducia da poter liberare il loro maestro dai pericoli e rendergli facile la predicazione evangelica.

E anche noi diciamo lo stesso a voi: e nessuno mi accusi di essere temerario, nessuno mi privi, per troppa umiltà, di tale vostro aiuto.

Non lo diciamo con lo stesso animo con cui parlava Paolo: egli voleva consolare i discepoli quando parlava così, noi invece desideriamo di ricavarne un grande utile e crediamo vivamente che tutti ne ricaveremo un grande utile se vorremo innalzare tutti uniti le mani a Dio per la mia piccolezza.

In questo modo combatteremo i nemici; con le preghiere e le suppliche …

E voi non privateci della vostra alleanza: sostenete le nostre mani perché non vengano meno, aprite la nostra bocca perché non si chiuda: supplicate Dio, supplicatelo per questo!

Ciò che voi fate, è a nostro pro; ma tutto quanto nel suo complesso è a vostro pro: noi siamo al nostro posto per la vostra utilità; la nostra preoccupazione siete voi.

Supplicate tutti, in pubblico e in privato.

Vedi Paolo che dice: Affinché da tanti si ringrazi per il dono a noi dato ( 2 Cor 1,11 ), cioè affinché molti ringrazino.

Se tra gli uomini il popolo si raduna e intercede per rei condannati e già tradotti a morte e l'imperatore, rispettoso della folla, cambia la sentenza, tanto più Dio avrà riguardo per voi.

Non per il numero, ma per la virtù.

Abbiamo un avversario potente!

Ciascuno di voi si preoccupa e bada alle proprie cose, noi invece a quelle di tutti.

In battaglia siamo nel posto più faticoso e contro di noi il diavolo si arma con più potenza.

Nelle guerre infatti il nemico cerca prima degli altri di abbattere il capo.

Per questo tutti corrono a lui intorno e uniscono gli scudi.

Per questo è grande la zuffa fra quelli che cercano di toglierlo di mezzo e quelli che con gli scudi lo circondano d'ogni parte, volendo salvare così il proprio capo.

Ascoltate ciò che tutto il popolo dice a Davide - lo dico non per paragonarmi a Davide ( non sono così pazzo! ), ma per mostrarvi l'affetto del popolo verso il suo capo -: Non uscire in guerra con noi, perché non si estingua la fiaccola d'Israele ( 2 Re 21,17 ).

Vedi come volevano salvo il loro vecchio!

Ho grande bisogno delle vostre preghiere; nessuno, come ho detto, mi privi per troppa umiltà, di questa alleanza e di questo soccorso.

Se le nostre cose vanno bene, anche le vostre vanno splendidamente; se la nostra dottrina scorre, a voi ne viene la ricchezza.

Ascolta il profeta che dice: I pastori pascolano forse se stessi? ( Ez 34,2 ).

Vedi che Paolo chiede incessantemente queste preghiere?

Sai che Pietro fu liberato dal carcere quando si pregava incessantemente per lui ( At 12,5 )?

Ho la ferma fiducia che le vostre preghiere molto possano, perché innalzate con grande concordia.

Riflettete quanto superi la mia piccolezza il compito di avvicinarmi a Dio e pregarlo per tanto popolo.

Se non ho fiducia di pregare per me stesso, tanto meno per gli altri!

Solo chi è veramente qualificato è degno di pregare Dio di essere benevolo verso gli altri.

Solo chi lo ha reso benevolo verso se stesso; ma chi lo ha offeso, come può pregare per un altro?

Ma poiché vi abbraccio tutti con cuore di padre, poiché l'amore tutto osa, prego non solo in chiesa, ma anche a casa e in ogni altro luogo per la vostra salute, dell'anima e del corpo.

Nessun'altra preghiera si addice tanto al sacerdote, quanto accedere a Dio e supplicarlo per il bene del popolo, più che per il proprio.

Se Giobbe si alzava e tanto pregava per i suoi figli secondo la carne, quanto più dobbiamo farlo noi per i nostri figli secondo lo spirito!

Perché dico questo? Perché se noi innalziamo per voi tutti preghiere e suppliche - per quanto siamo lontani dalla grandezza del nostro compito -, tanto più è giusto che lo facciate voi.

Che uno preghi per molti richiede molto coraggio e necessita di molta fiducia; invece che molti, insieme radunati, preghino per uno solo, non è niente di presuntuoso; ciascuno lo fa non fidando sulla propria virtù, ma sulla moltitudine e sull'unione d'animi, per la quale Dio ha sempre tanto riguardo.

Giovanni Crisostomo, Omelie sulla seconda lettera ai Tessalonicesi, 4,3-4

21. - Prepararsi all'ascolto della parola di Dio

Anche lo spettatore deve in qualche modo partecipare allo sforzo degli atleti: può rendersene conto dalle regole sportive che impongono al pubblico di sedere nello stadio a capo scoperto, perché così, mi sembra, lo spettatore non solo contempli gli atleti, ma partecipi in parte alla loro competizione.

Così è bene che anche chi viene a contemplare spettacoli tanto alti e portentosi, chi viene ad ascoltare la sapienza somma e ineffabile, porti fin da casa lo stimolo a contemplare le realtà propostegli e prenda parte, con ogni suo potere, ai miei sforzi e resti qui non come un giudice, ma come un collaboratore, affinché non succeda che ci sfugga la scoperta della verità e il mio errore non diventi male comune dei miei ascoltatori.

Perché dico questo? Perché ci siamo proposti di studiare la costituzione del mondo e di contemplare l'universo, non fondandoci sui principi della sapienza mondana, ma su ciò che Dio ha insegnato al suo servo [ Mosè ] parlando a lui con tutta chiarezza, e non per semplici allusioni.

É assolutamente necessario perciò, che chi ama questi grandi spettacoli abbia l'animo preparato ad accogliere ciò che gli proponiamo.

Se tu, dunque, qualche volta nel sereno della notte hai fissato gli occhi sulla bellezza ineffabile delle stelle, pensando al creatore dell'universo, pensando a chi è colui che ha ornato il cielo con questi fiori, riflettendo come nelle realtà visibili le realtà necessarie sono intrise di diletto; e ancora se durante il giorno con attenta meditazione hai contemplato i prodigi del giorno risalendo dalle realtà visibili a quelle invisibili, allora tu vieni preparato ad ascoltare e sei degno di partecipare pienamente a questo spettacolo santo e beatificante.

Basilio il Grande, Esamerone, 6,1

22. - Occorre meditare a casa l'omelia della domenica

Sento dire a molti: quando siamo in chiesa, godiamo di ciò che ci viene insegnato e, colpiti dal pentimento, siamo attratti dalla parola di Dio, ma, non appena usciamo, la nostra disposizione d'animo cambia completamente e il fuoco del nostro fervore si spegne.

C'è un mezzo per far cessare questa instabilità?

Consideriamo quale ne è la causa.

Donde deriva un simile mutamento? Deriva dal fatto che frequentiamo luoghi sconvenienti e che abbiamo relazione con persone improbe.

Voi non dovreste, quando siete usciti dalla chiesa, gettarvi subito in attività che contraddicono tutto quanto avete ascoltato; non appena rientrati a casa vostra, dovreste prendere il Vangelo e, insieme a vostra moglie e ai vostri figli, rileggere e meditare quanto vi è stato detto e allora soltanto riprendere la cura dei vostri affari.

Voi, generalmente, state attenti a non buttarvi in piazza subito dopo il bagno, per non perdere il benefico effetto di là riportato in dannose occupazioni esterne: quanto vi è più necessaria questa precauzione quando uscite dalla chiesa!

Ma noi facciamo tutto il contrario di questo e perciò perdiamo tutti i frutti di questa seminagione: infatti, prima che essa abbia avuto il tempo di mettere radici ben salde nella nostra anima, un assalto impetuoso di preoccupazioni terrene la investe e, sradicandola del tutto, la trascina via dal nostro cuore.

Se volete che ciò non vi accada più, all'uscita da queste riunioni, pensate che non vi è altra cosa più necessaria della meditazione sugli insegnamenti ricevuti.

Sarebbe, infatti, una estrema ingratitudine e sconsideratezza dedicare cinque o sei giorni agli affari terreni e non dare un giorno, anzi neppure una piccola parte di un giorno, alle cose spirituali.

Non vedete che i vostri figli studiano e ripetono per tutto il giorno quelle cose che hanno ascoltato a scuola?

Imitiamoli, dunque, perché se ogni giorno noi versiamo l'acqua in un vaso bucato e non mettiamo, nel conservare la parola di Dio nel nostro cuore, la stessa cura che usiamo per custodire l'oro e l'argento, non ricaveremo alcun vantaggio da questi nostri incontri.

Quando un uomo riceve del denaro, lo ripone con cura dentro un sacchetto e lo chiude con il suo sigillo; noi invece, dopo aver ascoltato le parole di Dio, infinitamente più preziose dell'oro e delle gemme, dopo aver ricevuto i tesori dello Spirito Santo, non ci curiamo affatto di tenerli custoditi nell'intimo della nostra anima, ma lasciamo con indifferenza che sfuggano dal nostro spirito e si perdano.

Chi ormai avrà compassione di noi, se ci tendiamo insidie da noi stessi e ci riduciamo in uno stato di così grande miseria?

Per impedire che questo avvenga, imponete a voi stessi l'inviolabile legge di consacrare un solo giorno della settimana, ma questo totalmente, dapprima ad ascoltare e poi a meditare la parola di Dio.

Questa costante applicazione vi farà accorrere molto più docili e pronti a ricevere ciò che vi diremo successivamente: ci risparmierete così un grande lavoro e al tempo stesso trarrete maggiore profitto dalle nostre spiegazioni, se ascolterete ciò che seguirà portando ancora nella mente quanto avete udito la volta precedente.

É molto importante, infatti, per ben comprendere quanto noi diciamo, ricordare con esattezza lo sviluppo dei nostri discorsi.

Siccome è impossibile dire tutto in un giorno solo, la vostra memoria deve collegare quanto noi siamo costretti a proporvi in diversi giorni, facendone come una catena, in modo che possiate vedere con l'occhio dello spirito tutta la Scrittura riunita in un unico corpo.

Cercate, quindi, di ricordarvi quanto vi abbiamo già spiegato del Vangelo, in modo che si possa passare ad illustrare il seguito.

Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo di san Matteo, 5,1

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