Claudio Brusa

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La prova della sofferenza

È il 1968, Brusa è al culmine dell'attività professionale e d'apostolato.

La sua settimana lavorativa è piena come un uovo, ogni minuto del suo tempo libero è sistematicamente dedicato alla causa dell'Unione, la stanchezza comincia a far sentire il suo peso.

In questo periodo, come emergerà anche dalle lettere inviate a E. M., si profila all'interno dell'Unione Catechisti una nuova figura di militante: il Catechista Sacerdote.

Al di là dell'opportunità o meno di una simile presenza, ciò che importa notare è il fatto che Brusa, intravisto un nuovo terreno di vocazioni se ne fa subito carico, senza risparmiarsi.

Dall'Unione Catechisti di Spagna giungono in Piemonte le prime due giovani promesse di questo ramo associativo "sperimentale": sono Felix Garcia e Juan Alberto Garcia Castillo i quali, oltre a studiare presso il seminario di Torino, frequentano con una certa assiduità la Sede di Corso Brin.

In questa situazione di familiarità Brusa è il "factotum" che supporta, a nome dell'Unione di Torino, l'accoglienza e l'accompagnamento dei due seminaristi e, in questa veste, grazie all'esperienza di "cicerone" maturata durante le gite scolastiche, si occupa anche di guidare i due ospiti in giro per la città, così da rallegrare un poco la loro lunga permanenza in terra straniera.

Il 10 febbraio 1968, terminata un'intensa settimana di lavoro, Brusa, accompagnato dall'allievo Paolo Angius, propone agli spagnoli una gita in macchina fino a Porte Pinerolo.

I ragazzi accettano volentieri e la cosa viene organizzata per il dopocena.

Giunti a Porte, approfittando del plenilunio che illumina la serata, i quattro proseguono a piedi fino al ponte sul Chisone, situato nelle vicinanze.

Brusa conosce molto bene le bellezze naturali della zona avendo trascorso da quelle parti il periodo di naja; all'atmosfera chiusa e ovattata dei teatri e dei cinema, preferisce, da buon sportivo, una passeggiata panoramica fuori città, anche se, purtroppo per lui, lo spettacolo che offre il Chisone sotto i riflessi argentei della luna sarà solo il preludio di una tragedia.

La serata sembra scorrere lieta e serena, ma, sulla via del ritorno, a pochi metri dal parcheggio, il destino di Brusa cambia per sempre.

I tre ospiti hanno appena attraversato la strada statale, quando un'auto sbuca improvvisamente da una curva e travolge il povero Claudio.

"Chi era con lui mi ha raccontato questa versione: era sera, i ragazzi spagnoli avevano già attraversato la statale.

Dopo averli seguiti con la coda dell'occhio, restando aldiquà della strada, Brusa aveva fatto il primo passo verso il centro della carreggiata.

Ma qualcosa forse l'aveva distratto.

A quel punto, senza che se ne rendesse conto, è sbucata una macchina dal buio e l'ha investito in pieno.

Io l'ho vista quella zona: la curva cieca è stata modificata, ma ancora oggi è molto pericolosa " ( Luca Pacella ).

Forse la spossatezza e lo stress da lavoro accumulati in quei giorni hanno appannato i suoi riflessi, forse la penombra della sera gli impedisce di scorgere la vettura, comunque sia l'impatto è devastante.

Il paraurti dell'auto gli frantuma letteralmente le gambe, al di sotto del ginocchio.

I soccorsi, favoriti dall'intervento di un garagista del posto, giungono tempestivamente ed il Catechista viene ricoverato presso l'Ospedale Agnelli di Pinerolo: le sue condizioni sono gravissime.

Nonostante l'ottimo livello del reparto ortopedico, che si occupa dei traumatizzati della vicina stazione sciistica di Sestriere, vengono mobilitati alcuni specialisti residenti a Torino.

Nel frattempo Pietro Fonti, il primo ad accorrere sul posto, fa ancora in tempo a vedere il povero Brusa disteso sul lettino, semi-incosciente, coperto da un lenzuolo macchiato di sangue.

Finalmente inizia l'intervento: le ore passano e i medici stremati dalla fatica, a causa del grande sforzo ( anche manuale ) richiesto dall'operazione, a turno entrano ed escono dalla sala operatoria.

L'innesto delle protesi li costringe ad un enorme dispendio di energie e di sudore: durante le pause hanno solo il tempo di cambiarsi, bere un caffè e riposare qualche minuto.

I testimoni ricordano ancora oggi con sgomento i suoni metallici che provenivano dalla sala operatoria e i volti increduli dei poveri seminaristi, letteralmente stravolti dallo choc.

Durante le sei ore dell'intervento, i chirurghi, a forza di chiodi e placche di metallo, ricostruiscono letteralmente pezzo per pezzo le ossa lesionate.

La tibia ed il piede sinistri sono, però, ridotti in un tale stato che, ad un certo punto, quando le ferite e l'emorragia sembrano compromettere le funzioni vitali, viene perfino proposta l'amputazione dell'arto, ma una nuova complicazione rimanda la decisione.

Quindi Brusa viene trasferito nella camera di rianimazione e, qui, al suo risveglio, rivede il fratello Alfio e la nuora che, in preda all'angoscia, hanno vegliato per ore in attesa di notizie.

"Cercava in tutti i modi di sdrammatizzare la gravita dell'incidente.

Perciò, dopo il risveglio, quando mi ha visto, con quel tono un po' euforico procurato dagli antidolorifici, ha esclamato: "hai visto che cosa mi è successo? ".

I medici ci avevano ordinato di non farlo parlare, ma lui voleva in ogni modo rassicurarci. ( Signora Bruna Brusa ).

Il giorno seguente, prima di cedere alla stanchezza, Brusa, che anche in quei terribili momenti mantiene la massima lucidità, ha modo di parlare col Presidente Domenico Conti che lo invita a offrire al Signore le sue sofferenze per la buona riuscita del gruppo giovanile.

"È la prima cosa che ho fatto", risponde senza esitazione.

Dopo la somministrazione dei calmanti, per 19 lunghi giorni, Brusa cade in uno stato di profonda incoscienza, molto simile ad un coma artificiale.

I medici, infatti, sottopongono il paziente ad una forte dose di sedativi per consentirgli di superare la fase critica post-operatoria.

La ripresa sarà lunga e tormentata.

La solida tempra del suo fisico che gli permette di superare il trauma, non gli allieva certo le sofferenze, anzi, il dolore è sovente il sintomo della terribile lotta intrapresa dal suo organismo contro la degenerazione dei tessuti.

D'ora in poi, le fitte provocate dai problemi circolatori lo accompagneranno per tutta la vita.

Il ricovero a Pinerolo si protrae dal febbraio al settembre '68; segue un periodo di convalescenza presso un istituto di suore situato in riva al Lago Maggiore ed un altro di riabilitazione all'Ospedale Rizzoli di Bologna, specializzato in ricostruzioni ortopediche e fisioterapia.

Qui i medici riconoscono la qualità del lavoro fatto in Piemonte: "è un capolavoro" dicono ai familiari, dopo aver esaminato le radiografie.

In effetti, Brusa aveva subito la ricostruzione delle articolazioni di piede, anca e ginocchio, nonché l'asportazione del tallone sinistro sostituito, proprio a Bologna, da una protesi metallica: tuttavia, anche dopo le cure prestate dagli specialisti del Rizzoli, camminare in quelle condizioni continuava ad essere un vero calvario.

La lunga e penosa immobilità, per un uomo che brillava proprio in virtù del formidabile ritmo di lavoro, costituisce una prova tremenda, quella che gli antichi attribuivano alla "mano di Dio".

Ma in ospedale, come tanti santi che proprio nella malattia sperimentarono in prima persona il mistero della Croce, Brusa ha modo di riflettere sul senso della sua missione.

Quando i ragazzi vanno a trovarlo cerca di trasmettere un'immagine coerente con l'insegnamento impartito a scuola, sforzandosi di far apprezzare il senso recondito e provvidenziale del ricovero: "Se non avessi avuto l'incidente, un sacco di cose le avrei fatte io, mentre ora sono costretto a farle fare a voi"

Il primo ricovero durerà ben otto mesi ( febbraio-settembre 1968 ), poi comincerà la convalescenza che alternando ritorni a casa e nuove visite di controllo lo terrà lontano per circa due anni dalla Casa di Carità.

Dopo il rientro, Borghi ed alcuni dei giovani che lo seguono più da vicino, consci come sono della prostrazione psicologica che una convalescenza così prolungata può causare, lo convincono a farsi accompagnare alla Sorgente.

Qui lo accudiscono in tutti i modi arrivando a sfilargli le scarpe per il pediluvio, ma la parte lesionata ormai è ipersensibile, il più minimo tocco viene amplificato in maniera impressionante: una ciliegia cadendo sul piede può avere lo stesso effetto di un mattone.

"Non ha mai voluto esternare le sue sofferenze, si confidava solo con i più intimi.

Ad un giudizio esterno non dava affatto l'impressione di soffrire eppure ha patito molto.

Ma lui ci diceva sempre: "Ciò che Dio toglie da una parte, lo aggiunge dall'altra" ( Luca Pacella )

In questo senso il suo dolore è un investimento "mistico" che avrebbe dovuto portare frutto proprio nel cuore dell'Unione.

La gravita del male è esasperata dall'insistenza con la quale lo tormenta: sedendo con lui a tavola i commensali lo vedono talvolta irrigidirsi, come colpito a tradimento da improvvise fitte che letteralmente gli tolgono il respiro, stampando sul suo volto smorfie di dolore che invano cerca di dissimulare.

Finita la crisi lui sorride, quasi a voler tranquillizzare i presenti: "Non è niente - dice - è passato, non fateci caso" ( Leonardo Rollino ).

Ha, inoltre, enormi problemi di mobilità: per salire le scale della casa di Via le Chiuse è costretto a farsi portare a braccia.

Di qui la decisione di trasferirsi in via Campiglia, dove l'ascensore rende tutto più facile; nello stesso stabile, nel quale era stato allestito una specie di convitto per i Catechisti soli e/o anziani, abita anche Leonardo Rollino che, d'ora in poi, alla sera, si ritroverà sovente a cenare con lui.

Sono in molti a stargli vicino: Antonio Barello più volte lo accompagna in macchina presso una clinica di corso Matteotti, nel frattempo i medici lo convincono ad iniziare un periodo di recupero psico-fisico sotto la guida del dott. Dezzani.

Fece un grande lavoro su se stesso.

Domenico Dezzani e Franco Boschi lo aiutarono molto a riacquistare fiducia nelle proprie forze" ( Marino Renda )

A giudizio di molti l'incontro tra il medico ed il Catechista risulta decisivo per entrambi.

Dezzani confrontandosi giorno dopo giorno col suo nuovo paziente ha modo di completare un difficile percorso di conversione, mentre Brusa, familiarizzando col dottore scopre, dopo anni di lavoro dedicati al prossimo, una persona che finalmente si interessa al suo personale benessere, cosa nuova e del tutto inaspettata per un uomo educato fin da piccolo alla scuola del sacrificio: l'amicizia e le attenzioni di Dezzani, evidentemente, gli restituiscono una grande carica vitale.

Il medico, dal canto suo, prenderà a frequentare con una certa regolarità l'Unione Catechisti.

La vicinanza di Brusa gli ha indubbiamente "impressionato il cuore", per usare un'espressione cara a Fr. Teodoreto.

"Dopo il loro incontro, Dezzani si è accostato all'Unione Catechisti mettendo a disposizione la sua esperienza di medico-chirurgo e una notevole conoscenza della psiche umana affinata in anni di lavoro e di studio " ( Luca Pacella )

Brusa, a poco a poco, riprende le forze e, come si evince anche dalle lettere inviate agli ex allievi reagisce quasi con spavalderia al tragico incidente.

Col suo umorismo un po' grottesco ironizza sull'enorme quantità di ferro che si porta dietro quasi fosse un negozio di ferramenta, oppure sul fatto di essersi trasformato in una specie di barometro vivente, visto che le sue ossa cominciano a dolere con ore di anticipo rispetto ai cambiamenti atmosferici.

La vita gli sorride di nuovo o almeno questa è l'impressione che si fanno i suoi amici, specie quando lo vedono in compagnia del fratello Alfio.

Nonostante la trafila estenuante delle terapie mediche, testardamente Brusa trova il tempo per riottenere la patente, anche se le gare di velocità sono ormai un ricordo lontano.

Il suo cruccio principale è dato dall'articolazione del piede sinistro che continua a tormentarlo senza sosta.

Purtroppo, la convivenza forzata con grandi forme di afflizione è una condizione comune ai santi di tutti i tempi ( come non pensare al glaucoma di San Francesco? ): questo mezzo di santificazione, per quanto dissimulato, non sfugge all'attenzione delle persone più sensibili e, in prospettiva, assume il valore di un grave ammonimento a quanti pensano di conoscere Cristo senza sperimentare la Croce: "Secondo me ha sofferto molto.

Penso che abbia pregato parecchio per chiedere conforto.

Si è guadagnato la santità in quel periodo " ( Bruno Girando ).

Nel frattempo a dolore si aggiunge dolore: proprio nel momento più delicato della convalescenza, quando l'affetto dei familiari diventa essenziale al superamento della depressione che inevitabilmente colpisce i neo-invalidi, ecco che un nuovo colpo si abbatte sul Catechista:

"Nel settembre scorso, mentre ero a Bologna per uno dei tanti miei ricoveri in ospedale, è morto il mio papa: sono ritornato a casa e non c'era più.

Queste esperienze tanto dolorose devono aiutarci a cercare e a scoprire ciò che veramente vale … non siamo fatti per restare sempre quaggiù ma per conquistarci quella vita vera dove ogni nostra aspirazione di piena felicità sarà appagata" ( Torino, 16.04.1970, Brusa a Bruno Vacchieri ).

Diciamo pure che quel "sono tornato a casa e non c'era più" ha il tono burocratico e disumano di un anonimo referto, ma tale freddezza non deve trarre in inganno.

Brusa, grazie all'illuminazione che ottiene dalla "prevenzione" di Cristo,5 riesce a giudicare la sua situazione col distacco e la prospettiva ultraterrena degli anacoreti.

Nei mesi che seguono la stesura della lettera a Vacchieri, incomincia a elaborare i ricordi e, ripensando ai primi giorni del ricovero, sottolinea un aspetto molto importante della sua degenza: la solitudine.

Era solo come poteva esserlo Fra Leopoldo nel chiuso della sua cella.

"La primavera e l'estate del 1968 l'ho trascorsa in un letto dell'ospedale di Pinerolo.

Il mese di giugno l'ho passato con due polmoniti che mi hanno costretto all'immobilità per tutto il mese.

Sul materasso dovevano tenermi un foglio di gomma a causa delle ferite ancora aperte nelle gambe.

Nella camera con finestre chiuse per evitare correnti d'aria, ero solo. " ( La Sorgente, 08.08.1970, Brusa a Cesare Ruggeri di Settimo Torinese )

Quella solitudine,6 segnata dalla macerazione del dolore, lo introduce ad un lungo percorso spirituale.

Ecco cosa scrive nel giugno del 1970, ripensando al momento in cui aveva realizzato che il ricovero nell'Ospedale di Pinerolo non segnava il culmine, ma l'inizio della sua ascesi:

"Nella mia prova, durante la degenza in ospedale, mi pareva che ormai i miei problemi di donazione a Gesù fossero definitivamente risolti, ma ben presto mi sono dovuto ricredere, il combattimento spirituale è ricominciato e tutti i giorni devo ricominciare come se fosse il primo giorno" ( La Sorgente, 29 giugno 1970, al Fratello delle Scuole Cristiane Jaime Pujol di Parigi ).

La buona battaglia di San Paolo, il combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli, la perseveranza che Sant'Alfonso de Liguori attendeva dall'intercessione di Maria, sono tutti temi che in altre sedi abbiamo ampiamente trattato per meglio illuminare i carismi di Fra Leopoldo e Fr. Teodoreto.

Nello scritto di Brusa, però, questi concetti sono carne e sangue di vita vissuta e nella loro disarmante credibilità incutono un profondo rispetto in chi li legge, perfino un pizzico di timore.

Altro che dolorismo, altro che retorica: qui siamo di fronte ad un così grande esempio di coerenza, nel predicare e al tempo stesso praticare la sequela Christi, tale che deve per forza nascere da un modo eroico di incarnare le virtù cristiane.

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5 Il Diario di Fra Leopoldo: "Sia benedetto Iddio che mi ha prevenuto dicendomi che per l'amore che mi porta mi vorrebbe macinato (dal dolore)" (II, 425).
Nella lettera a Vacchieri, Brusa espone una "teologia del dolore", se così possiamo chiamarla, che rivela la grandissima lucidità con la quale inquadra ogni evento negativo, proprio e altrui: "Se in questi momenti stai vicino a Gesù sulla Croce il tuo dolore acquista significato e diviene prezioso per tè, per i tuoi cari e per tanti altri nostri fratelli che hanno bisogno di essere salvati".
6 Illuminanti in proposito le riflessioni confidate ad un giovane Catechista: "Per tè adesso si pone ancora una volta il problema della solitudine …
Non temere questa è un po' la nostra condizione di consacrati chiamati ad una vita non di comunità ma autonoma, ove ogni momento dobbiamo prendere le nostre decisioni senza avere il conforto di un consiglio …
Alimenta perciò la tua vita interiore perché cresca veramente in tè il desiderio di rimanere unito a Gesù" ( Lettera a Elso Massalin, Pinerolo, 5.7.1968 )