Gli Istituti secolari

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16. Separazione dall'Istituto

Una legislazione in questa materia è necessaria: per ogni forma di istituzione o di associazione occorre prevedere una uscita libera prima dell'impegno o, se questo è temporaneo, durante questo o alla fine della sua durata.

Può accadere che i responsabili ritengano un rinnovamento dell'impegno non opportuno per il bene della persona o per quello del gruppo, o per il bene di entrambe le parti; questa decisione può essere considerata come una esclusione ed è auspicabile che essa sia presa, se possibile, di comune accordo.

Se gli impegni sono definitivi o perpetui, possono di nuovo presentarsi due possibilità: la persona così impegnata pensa di dover lasciare il gruppo per motivi superiori e seri, o l'istituto può, per gravi ragioni e dopo avvertimenti debitamente espressi, decidere di non tenere più questo membro tra il gruppo; in questo caso, la partenza per motivi gravi è una dimissione, una uscita imposta.

In ogni diritto associativo si devono prevedere situazioni simili e prevenire le ingiustizie; i diritti delle persone devono essere salvaguardati, come quelli dell'associazione.

Di qui la necessità di norme generali in proposito nel diritto ecclesiale; norme che vanno riprese negli statuti, ma in maniera tale da essere applicate secondo lo spirito proprio dell'associazione o dell'istituto.

Una semplice ripresa testuale dei canoni è segno di debolezza.

Si possono presentare tre situazioni: la prima riguarda il passaggio da un istituto a un altro; e fu sempre trattata in primo luogo.

In tale caso si conservava la vita consacrata, ma cambiava l'appartenenza all'istituto.

Questa visione delle cose sembra oggi troppo formale, se si riflette all'importanza del carisma proprio di ciascun istituto.

Casi simili devono essere trattati con estrema prudenza.

Il secondo punto riguarda un tempo di riflessione e la possibilità di una presa di distanza, in vista di un migliore discernimento.

In una vita di clausura si parla di " esclaustrazione "; sarebbe più opportuno parlare di " esonero temporaneo "; alcuni preferiscono parlare di " liberazione dagli oneri ".

Questa situazione deve essere prevista in tutti gli istituti.

Infine, un terzo punto è la dimissione diretta per causa di scandalo, senza che si debba conservare un legame con la persona che è veramente colpevole dei fatti o di atteggiamenti scandalosi.

Questa norma deve essere prevista: la sua applicazione potrebbe facilmente essere ingiusta.

Ogni legislazione particolare considererà necessariamente la situazione della persona separata dall'istituto o dall'associazione.

Visto l'aspetto comune di una tale legislazione, si sarebbe potuto trattare tali questioni tra le norme comuni a istituti, società o associazioni.

La legislazione degli istituti secolari e delle società di vita comune nel Codice attuale rimanda ai canoni che trattano queste materie nella parte che riguarda i religiosi.

È ovvio che tali norme sono valide per ogni associazione, e più specialmente per quelle che desiderano essere riconosciute come istituti di vita consacrata.

Quanto alle nuove forme di vita consacrata, anch'esse dovrebbero ispirarsi a queste norme comuni, frutto dell'esperienza della Chiesa.

a. Passaggio a un altro istituto

Il passaggio da un istituto secolare a un altro, previsto nel c. 730, si fa secondo le norme date per i religiosi nei cc. 684 S§ 1, 2 e 4, e 685.

Il passaggio si fa con il consenso dei due responsabili generali e con il consenso del loro consiglio; ciò vuol dire che questo permesso non può essere dato da altri superiori, essendo qui determinanti i consigli.

Quanto al tempo di prova prima dell'impegno perpetuo nel nuovo istituto, esso è obbligatoriamente di tre anni; può però essere di una durata più lunga - il che è da consigliare per gli istituti secolari - considerati i termini del canone che parlano dei tre anni come di un minimo.

Che fare se colui che chiede questo passaggio è considerato come impegnato definitivamente nell'istituto che vuol lasciare?

La prova sarà della stessa durata; ma l'impegno preso, se è annuale, è definitivo?

La risposta affermativa può essere sostenuta, ma fa comprendere tutto ciò che vi è di aleatorio in queste specie di passaggi.

In effetti, il canone suggerisce una decisione importante: se la persona non decide di integrarsi nel nuovo istituto, deve rientrare in quello che ha lasciato, a meno che non ottenga « indulto di secolarizzazione », dice il c. 684 § 2; indulto che dispensa da ogni impegno.

Esso non può, in un istituto secolare, essere detto " indulto di secolarizzazione "; questa terminologia è propria dei religiosi; sarebbe meglio parlare di " dispensa dagli impegni ".

Come prevede il c. 684 § 3, la durata e la natura del periodo di prova da fare prima di ogni impegno in un nuovo istituto devono essere determinate dal diritto proprio.

Gli istituti secolari prolungheranno normalmente questo tempo di prova, anche al di là di cinque anni, durata minima secondo il c. 732 § 2 prima dell'impegno perpetuo nel nuovo istituto o dell'impegno definitivo, che, per prudenza, esige una durata più lunga di rinnovamento di impegno, prima che questo diventi definitivo.

Si dovrà esigere una durata maggiore del periodo di prova, se il nuovo istituto non ha impegno perpetuo?

Sembra che una risposta affermativa sia la migliore.

Non si può dire che la norma di diritto, quale si esprime concretamente nel c. 684 § 4, sia applicabile agli istituti secolari; tale norma fu concepita per istituti religiosi che abitualmente dopo tre anni di voti temporanei possono ammettere alla professione perpetua.

L'applicazione del c. 685 non presenta difficoltà.

Durante la prova nel nuovo istituto, sono sospesi i diritti e doveri che il religioso aveva nel precedente istituto; questi sono soppressi dall'impegno nel nuovo istituto, impegno che si esprime in una consacrazione nuova a Dio e agli uomini e con l'incorporazione piena nel nuovo istituto.

Per dire il vero, ogni passaggio pone dei problemi.

Si comprende che certi istituti, solleciti del proprio spirito, vi si oppongano, e rifiutino nel loro diritto proprio ogni passaggio; è norma di saggezza.

Che fare in questo caso delle persone che lasciano l'istituto e desiderano una vera consacrazione a Dio nel mondo?

Il c. 604 permette loro una simile consacrazione, tanto pia adattata al loro caso in quanto è individuale.

Rimane da segnalare la norma in materia di passaggio da un istituto secolare a un istituto religioso o a una società di vita apostolica.

Questi passaggi sono riservati alla Santa Sede, restrizione che però non era necessaria.

Agli istituti considerare il da farsi.

Del resto, un ricorso imposto alla Santa Sede non è sempre una buona soluzione; in effetti la persona di cui si tratta rimane sconosciuta a quelli che devono decidere tale passaggio.

Un contatto personale è sempre importante, e comporta talvolta diversi incontri.

Perché questa restrizione? Essa risponde a una difficoltà reale, cioè che quelli che passano da un istituto religioso a un istituto secolare, dopo un certo tempo, desiderano vivere nell'istituto secolare ciò che costituiva elemento significativo della loro vita religiosa, la vita comunitaria.

Il loro influsso può essere deleterio per la secolarità di un istituto secolare.

È vero che la difficoltà è la stessa, se si tratta di una persona che passa da un istituto secolare che aveva una vita fraterna in coabitazione a un istituto di stretta secolarità: il che dimostra la debolezza di questa riserva fatta alla Santa Sede.

Come dicevamo, questi passaggi da una vita comunitaria a una vita necessariamente individuale in piena secolarità sono sempre da sconsigliare; essi comportano difficoltà che neppure un intervento della Santa Sede può eliminare.

Ovviamente, un passaggio non potrebbe essere concesso, neppure dall'autorità superiore, contro le norme del diritto proprio di un istituto che vi si oppongano per principio, e facciano dell'appartenenza precedente di un tale candidato un impedimento insormontabile che invalida l'ammissione.

b. Uscita dall'istituto

Il c. 726 prevede tre forme di uscita per i membri, impegnati temporaneamente: il c. 727 prevede l'uscita di un membro impegnato da vincoli perpetui.

Dobbiamo inoltre esaminare come applicare questa legislazione al caso in cui il membro è impegnato da vincoli temporanei considerati come definitivi.

Il primo caso è quello della uscita libera alla scadenza degli impegni temporanei.

A una lettura del canone, la cosa appare facile, accettabile; il c. 688 § 1 è dello stesso tenore.

Nel diritto proprio, bisognerebbe far rilevare il pericolo di illusione, tanto più frequente in quanto all'inizio, dopo un periodo di prova senza grandi difficoltà, la vita reale comporta delle crisi da superare, ma che non sono segni di non-vocazione; anzi, spesso si deve costatare il contrario.

Un discernimento è normalmente necessario e obbligatorio; è consigliabile che sia fatto con l'aiuto di persona di esperienza, che sia membro dell'istituto, o lo conosca bene e gli sia favorevole.

L'uscita può essere resa obbligatoria, se non viene concesso il rinnovamento degli impegni temporanei: questo rifiuto è praticamente una esclusione.

Sarebbe opportuno che avvenisse di comune accordo; il che non accade sempre.

Perché la decisione sia più motivata, è utile che gli statuti determinino certi motivi di rifiuto, come l'assenza regolare e non sufficientemente motivata dalle riunioni, specialmente da quelle destinate alla formazione dei membri con vincoli temporanei; o la mancanza di riserbo nella maniera di vivere la secolarità consacrata, e in rapporto alla appartenenza all'istituto; o una cattiva scelta professionale, o attività apostoliche nocive alla secolarità consacrata, non solo personale, ma dell'intero gruppo.

Altri motivi specifici possono essere indicati, se l'esperienza dell'istituto ne dimostra la gravita e l'influsso negativo sulla vita dei membri.

La terza forma di uscita suppone una decisione del responsabile generale dell'istituto, per rispondere al desiderio di lasciare l'istituto, espresso da un membro impegnato con vincoli temporanei.

Per concedere l'indulto di uscita, occorre il consenso del consiglio generale.

Il Codice mette in rilievo la gravita della causa di questa domanda.

Questi motivi dovranno essere, sembra, altrettanto gravi di quelli che può avere un membro impegnato per non rinnovare il proprio impegno temporaneo: questo nel caso di uscita libera, considerato sopra come primo caso di uscita.

Che dire, se un membro non rinnova i suoi impegni temporanei, mentre questi sono considerati " definitivi "?

Non si dovrebbe prevedere che una simile decisione sia presa soltanto dopo aver consultato il responsabile generale?

È necessario, nel diritto proprio, prevedere il consenso o almeno il parere del consiglio generale?

Se gli impegni sono " definitivi ", sembra che queste condizioni possano essere poste dal diritto proprio.

Sono esse efficaci? Sì, nel senso che pongono l'accento sulla decisione da prendere e sull'importanza delle sue conseguenze; no, in effetti, in quanto non possono impedire che il membro non rinnovi i suoi impegni temporanei.

Questi impegni " definitivi " restano d'altra parte temporanei, per salvaguardare tale libertà dei membri, che deve essere tanto più rispettata quanto più l'istituto non sia ancora riuscito a esprimere chiaramente il proprio carisma, e l'autorità competente, particolarmente quella diocesana, non si mostri abbastanza rispettosa dell'identità di questi istituti di fondazione recente.

Vista l'importanza della secolarità e del riserbo, anzi del segreto che essa comporta, è utile che un responsabile generale possa agire da solo, in tutta coscienza, per approvare o permettere una simile uscita dall'istituto, che include la dispensa dagli impegni e sopprime questo vincolo con l'istituto, considerato come definitivo.

L'uscita di un membro che abbia assunto impegni perpetui, anche dietro sua richiesta, è più grave.

Il Codice mette in rilievo tale gravita chiedendo che la cosa sia seriamente considerata davanti al Signore, nella preghiera e in un discernimento spirituale serio, fatto chiedendo consiglio a persone competenti, nell'istituto o fuori di esso.

Una simile consultazione può essere consigliata dal diritto proprio; può anche essere imposta?

Sì, ma questo obbligo è efficace solo se la persona interessata è di buona volontà e vuole veramente restare fedele a Dio; ciò che non si verifica sempre.

Vista la gravita dell'indulto di uscita, che comporta la piena dispensa dagli impegni spirituali e la perdita di tutti i diritti nell'istituto, come recita il c. 728, questo indulto di uscita è riservato alla Santa Sede, se l'istituto è di diritto pontificio; esso può essere ottenuto anche dal vescovo diocesano, se l'istituto è di diritto diocesano.

L'etiam del testo latino è importante: per motivo di discrezione, questo indulto può anche essere ottenuto dalla Santa Sede.

Tale ricorso deve essere consigliato, se si vuole salvaguardare il pieno riserbo.

Non si vede veramente perché si dovrebbe far conoscere il nome di una persona che lascia l'istituto, se la sua partecipazione all'istituto è normalmente sconosciuta al vescovo, per conservare una piena secolarità.

Come abbiamo detto sopra, sarebbe comprensibile che questi indulti fossero dati in ogni caso dal responsabile generale; in caso di vincoli perpetui, sarebbero da dispensare dallo stesso responsabile generale con il consenso del suo consiglio.

E anche quest'ultima restrizione può essere messa in discussione: tutti i membri sono veramente conosciuti dal consiglio, se l'istituto è numeroso ed esteso in parecchie nazioni o continenti?

Si comprende che certi istituti abbiano ottenuto su questo punto una autonomia assai estesa.

Se vi è abuso, è sempre possibile un ricorso.

Riservare la concessione dell'indulto all'autorità ecclesiale non è, come si vede, la soluzione migliore.

In sintesi, secondo il diritto attuale l'indulto è concesso dalla Santa Sede se l'istituto è di diritto pontificio, a meno che gli statuti approvati abbiano ottenuto una maggiore autonomia.

Se l'istituto è di diritto diocesano, l'indulto può essere concesso dal vescovo del luogo dove risiede la persona che lo domanda; il diritto proprio potrebbe riservare questi indulti al vescovo di fondazione o della sede principale dell'istituto.

Per sollecitudine di riserbo, il Codice prevede tuttavia che questo indulto possa ugualmente essere ottenuto dalla Santa Sede.

Questa determinazione era necessaria per mantenere la discrezione richiesta dalla secolarità consacrata.

A nostro avviso, è sempre più riservato rivolgersi alla Santa Sede.

c. Dimissione

La legislazione riguardante gli istituti secolari segue da vicino ciò che è stato determinato per gli istituti religiosi nei cc. 694-695; rimandiamo perciò al commento che ne abbiamo fatto a suo luogo.

Il c. 696 richiedeva un adattamento alla secolarità consacrata.

Parecchi motivi di dimissione sono propri degli istituti religiosi, come l'assenza illegittima dalla casa religiosa prolungata per sei mesi.

Le altre cause di dimissione si applicano ugualmente ai religiosi e agli istituti secolari.

Cause meno gravi possono motivare la dimissione di un membro legato da impegni temporanei, a meno che questi non siano " definitivi " e pongano il membro definitivamente incorporato nella posizione di un membro di consacrazione perpetua.

Questi motivi devono essere stabiliti dal diritto proprio, dunque non necessariamente dagli statuti o dalle costituzioni.

Quanto alla maniera di procedere in caso di dimissione, il Codice applica agli istituti secolari la stessa procedura prevista per gli istituti religiosi.

Tale procedura è nuova, e ha certo il vantaggio di rispettare al meglio i diritti delle persone, come quelli dell'istituto.

Bisogna tuttavia considerare se tali procedure sono facilmente applicabili agli istituti secolari.

Alcuni punti dovranno essere attentamente vagliati, per es. se il superiore maggiore di cui parla il c. 697 non sarebbe piuttosto il responsabile generale; quest'ultimo sarà il solo competente, se l'istituto non è strutturato in province come previsto nel c. 581.

Tali strutture inferiori sono più flessibili in certi istituti secolari, e per questo fatto i loro responsabili non possono essere considerati come equivalenti del superiore maggiore di un istituto religioso.

La conferma del decreto di dimissione da parte della Santa Sede è una esigenza che non era prevista nel progetto del 1980.

La procedura è tanto più difficile, per un istituto secolare, quando questo non abbia un membro residente a Roma, e non preveda un procuratore presso la Congregazione competente.

Quanto alla conferma prevista da parte del vescovo diocesano del domicilio della persona da dimettere, bisognerà applicare, a nostro avviso, la stessa riserva che comporta il c. 727, che permette, per motivi di riserbo, di trattare direttamente con la Congregazione romana competente.

L'applicazione del c. 701 è un principio generale; sarebbe stato più opportuno porlo come norma comune a tutti gli istituti: chi lascia un istituto per indulto di uscita e per decreto di dimissione è dispensato dai vincoli che lo obbligano in coscienza, e perde ogni dipendenza in rapporto all'istituto che lascia.

I cc. 692 e 701 sono da raffrontare con i cc, 726 e 727, che non fanno menzione di questa norma; essa è certamente valida per questi casi.

Invece il c. 743 ne fa menzione.

Rimane ancora un'ultima osservazione: la dimissione di un chierico membro impegnato definitivamente o in perpetuo non pone alcun problema, se il chierico è incardinato nella sua diocesi.

Il caso è più difficile, se è incardinato nell'istituto: egli è obbligato a cercarsi una diocesi il cui vescovo consenta di incardinarlo.

Si deve notare la differenza tra il c. 693 e il 701

In caso di indulto di uscita, tale indulto viene concesso solo se un vescovo accetti di incardinare il chierico così liberato dai suoi obblighi nell'istituto; al contrario, quando si tratta di una dimissione, il chierico non può esercitare ministeri finché non trova un vescovo che voglia ammetterlo nella sua diocesi, o almeno permettergli di fare del ministero.

Una volta ritirato tale permesso, rivive la proibizione di cui fa menzione il c. 701.

Appare da tutto questo che l'incardinazione di un chierico nell'istituto lo sottopone a procedure proprie dei religiosi; il che è certamente da evitare per ogni istituto che vuol essere veramente secolare.

Resta qui da trattare un'ultima questione.

Molti istituti, soprattutto di chierici, non hanno previsto alcuna norma di dimissione dei loro membri.

Dopo la promulgazione del Codice, questa situazione è insostenibile; anzi, per stretta giustizia, bisogna esigere che queste norme e procedure siano conosciute dai membri dell'istituto.

Che cosa pensare allora, se un medesimo delitto deve essere oggetto di intervento dell'autorità diocesana, sia contro il chierico, sia contro un membro laico di istituto secolare?

Su questo punto certi istituti lasciano al vescovo ogni responsabilità di agire.

Non dicono però chiaramente se un intervento diocesano, e anche una condanna, comportano ipso iure la dimissione dall'istituto.

Su questo punto il Codice non da alcuna precisazione.

Bisogna in ogni caso che questa situazione sia prevista chiaramente dal diritto proprio degli istituti secolari, nei loro statuti o costituzioni, o in altri codici o testi dell'istituto.

Con il tempo, una giurisprudenza permetterà di situare meglio questi problemi e darà loro una soluzione di equità, forse anche più adattata, se non più discreta.

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