10 Luglio 1968
Diletti Figli e Figlie!
Cha cosa attendere oggi dalla Nostra parola?
Voi sapete che dopo avere proclamata la nostra fede cattolica, antica e sempre nuova, perché sempre vera e sempre viva, Noi andiamo cercando il rapporto ch'essa deve avere col nostro pensiero e con la nostra condotta; cerchiamo cioè quale sia l'influsso ch'essa deve avere sulla nostra vita, quali esigenze essa reclami, quali impulsi essa ci offra, quale stile essa imprima alla nostra personalità.
Studiamo ora la questione nel suo aspetto individuale.
E abbiamo già ricordato la grande legge, che stabilisce essere la fede un principio di vita, sia nel senso trascendente e misterioso della iniziale inserzione soprannaturale della presenza e dell'azione di Dio in noi, sia nel senso della ispirazione morale derivante dalle verità della fede, e sia del modo di giudicare, suggerito dalla fede, l'enorme e complessa varietà di valori, tanto del nostro mondo interiore, quanto di quello esteriore.
Un uomo moderno, un cristiano del nostro tempo, un fedele sensibile alle voci del Concilio quale conto deve fare della propria fede?
Il noto binomio « fede e vita » come si pone oggi alla nostra coscienza, supposto un desiderio di fondamentale sincerità personale, un desiderio, diciamo pure, di perfezione?
La risposta esigerebbe la soluzione d'un'altra fondamentale questione: come si fa oggi a credere?
Ma non trattiamo ora della genesi della fede, problema immenso, che tuttavia per voi credenti supponiamo in qualche modo risolto.
Limitiamo la Nostra indagine a più semplice, ma sempre grave domanda: È la fede un possesso di Dio, ovvero una ricerca di Dio?
È dapprima un possesso: il credente è già in possesso di alcune supreme verità, derivate dalla Parola di Dio; è già custode di alcune rivelazioni, che lo invadono e lo dominano; è già felice di alcune certezze che danno al suo spirito una pienezza, una fortezza, una gioia, una voglia di esprimerle e di celebrarle, che alimentano in lui un'interiorità meravigliosa; per il credente è come se nell'oscurità e nella confusione della sua stanza interiore si fosse accesa una luce; egli vede la luce, cioè le realtà divine entrate nel suo spirito, e vede, in virtù di quella luce, se stesso, la sua coscienza; e non solo: vede quanto lo circonda, il suo posto nel mondo, e il mondo stesso.
Tutto acquista un senso.
Tutto appare per quello che è; e non si può negare che questa prima visione sia magnifica, anche se svela altezze irraggiungibili, profondità tenebrose, ampiezze abissali, ed anche umili cose concrete già conosciute, ma ora riconosciute in perimetri reali nuovi; anche se cioè il senso del mistero si accresca proprio mediante la scoperta iniziale delle realtà di cui viviamo, e in mezzo a cui si trova la nostra esterrefatta esistenza.
Ma facciamo attenzione: questo possesso della fede non esclude, bensì reclama un'ulteriore ricerca.
Il nostro possesso di Dio, in questa vita, non è mai completo, non è che un inizio, una prima scintilla che invita a maggiore conquista d'una luce più piena.
È questa una norma conosciutissima del nostro tirocinio religioso, anche per noi cattolici che abbiamo la fortuna di riposare su formule della fede fisse e sicure; esse non ci dispensano dallo sforzo d'una sempre progressiva ricerca e da una sempre migliore cognizione delle cose divine.
Bene lo sanno le anime che della religione e della contemplazione fanno alimento dolce e forte.
È un pensiero su cui S. Agostino ritorna sovente; per esempio: « Amore crescente inquisitio crescat inventi », con amore crescente cresca la ricerca di Colui che abbiamo trovato ( Enarr. in Ps. 105 ); ed anche: « Invenitur ut quaeratur avidius », troviamo Dio per cercarlo più avidamente ( De Trin. XV, 1 ).
La fede non è una stasi, è un cammino verso le divine verità.
Il credente è un pellegrino, che cammina sulla buona strada, verso Dio.
Ma oggi dobbiamo tener conto d'un duplice fenomeno, che interrompe questa nostra serena visione del campo religioso e spirituale; fenomeno l'uno e l'altro molto grave e diffuso.
Il primo è l'ateismo, che pretende affrancare l'uomo dalla così detta alienazione religiosa.
« Negare Dio, dice il Concilio, … viene presentato come esigenza del progresso scientifico o di un nuovo tipo di umanesimo » ( Gaudium et Spes, n. 7 ).
Qui ora Noi non parliamo di questo triste e impressionante fenomeno; chi ne volesse conoscere le sue molteplici espressioni può consultare un'opera poderosa, di cui sono usciti i primi due grossi volumi: « L'ateismo contemporaneo » ( S.E.I. 1967 e 1968 ); altri due volumi sono in preparazione, per iniziativa principale dei bravi e dotti Salesiani, D. Girardi e D. Miano, con altri valenti studiosi.
Qui ci basta osservare che l'ateismo non è ammissibile nella configurazione dell'uomo vero, completo e buono, che andiamo delineando, sebbene anche l'ateismo pretende di fondare una sua moralità meritevole di qualche approfondita analisi ( cfr. Fabro, Introd. all'ateismo moderno, Ed. Studium, 1964 ).
Diciamo piuttosto una parola, una sola e fugace, sull'altro fenomeno, che si verifica anche negli ambienti, che si qualificano come religiosi e come cristiani: il fenomeno della religione antropocentrica, cioè orientata verso l'uomo come suo principale oggetto d'interesse, mentre la religione deve essere, di natura sua, teocentrica, cioè orientata verso Dio, come a suo primo principio e a suo fine ultimo ( cfr. S. Th. II-II, 82 ) e poi verso l'uomo considerato, cercato, amato in funzione della sua derivazione divina e dei rapporti e dei doveri che da essa scaturiscono.
Si è parlato di religione verticale e di religione orizzontale; ed è questa seconda, filantropica e sociale, che oggi prevale in chi non abbia la visione sovrana dell'ordine ontologico, cioè reale e obbiettivo, della religione.
Vogliamo forse negare l'importanza e l'impegno che la fede cattolica attribuisce all'interesse dovuto all'uomo? Non sia mai!
E nemmeno vogliamo temperare questo interesse, che per noi cristiani dev'essere estremamente e continuamente obbligante: ben ricordiamo che saremo giudicati sull'amore effettivo, che avremo consacrato al nostro prossimo, specialmente a quello indigente, sofferente, decaduto ( cfr. Mt 25,31ss ).
Non mettiamo indebite riserve su questo punto.
Ma dobbiamo sempre ricordare che il principio dell'amore verso il prossimo è l'amore verso Dio.
Chi dimenticasse la ragione, per cui dobbiamo dirci fratelli degli uomini, e cioè la comune paternità di Dio, potrebbe, ad un dato momento, non più ricordarsi degli oneri gravissimi di tale fratellanza, e potrebbe scorgere nel proprio simile, non più un fratello, ma un estraneo, un concorrente, un nemico.
Dare nella religione il primato alla tendenza umanitaria induce nel pericolo di trasformare la teologia in sociologia, e di dimenticare la fondamentale gerarchia degli esseri e dei valori: « Io sono il Signore Dio tuo … non avrai altro Dio fuori che me » ( cfr. Es 20,1ss ); così nell'antico Testamento; e, nel nuovo, Cristo c'insegna: « Ama Dio, … questo è il più grande e il primo comandamento.
Il secondo poi è simile a questo: amerai il tuo prossimo come te stesso » ( Mt 22,37-39 ).
E non è da dimenticare che la prevalenza data all'interesse sociologico su quello teologico propriamente detto può generare un altro inconveniente pericoloso, quello di adattare la dottrina della Chiesa a criteri umani, posponendo quelli intangibili della rivelazione e del magistero ufficiale ecclesiastico.
Che lo zelo pastorale attribuisca preferenza pratica alla considerazione dei bisogni umani, spesso tanto gravi e tanto urgenti, si può ammettere e incoraggiare, sempre che tale considerazione non comporti una svalutazione e una degradazione della preminenza e dell'autenticità dell'ortodossia teologica.
La fede, accettata e praticata, non è un'evasione dai doveri della carità e dalle grandi e impellenti necessità d'ordine sociale; ne è piuttosto l'ispiratrice e la forza.
Ne è altresì la salvaguardia dalla tentazione di ricadere nel temporalismo, cioè nella prevalenza degli interessi temporali, da cui oggi più che mai si vorrebbe immune la religione; e da quella più grave di voler instaurare un nuovo ordine sociale, senza la carità, ma con la violenza e con la sostituzione d'un dominio prepotente ed egoistico ad un altro giudicato improvvido o ingiusto.
Una morale senza Dio, un cristianesimo senza Cristo e senza la sua Chiesa, un umanesimo senza l'autentico concetto dell'uomo, non ci conducono a buon fine.
Che la nostra fede ci preservi da simili, fatali errori; e ci sia, nella ricerca della perfezione personale e sociale, luce e maestra.
Così vi augura la Nostra Benedizione.