17 Luglio 1968
Diletti Figli e Figlie!
A coloro che si pongono la questione, che ora guida il Nostro pensiero, circa la perfezione umana, circa l'ideale a cui l'uomo moderno deve orientare se stesso, vengono alla mente molti pensieri, che costituiscono una delle caratteristiche della mentalità degli uomini del nostro tempo.
In genere questi pensieri partono da una valutazione negativa dei tipi umani, ai quali ci ha educati la pedagogia delle precedenti generazioni;
una critica audace e spesso acerba demolisce gli uomini esemplari che ci hanno preceduto;
la statura degli eroi dei tempi passati si abbassa e si riduce a livelli spesso meno che normali;
i rappresentanti specialmente delle generazioni prossime alla nostra sono senz'altro rigettati come inadatti ad insegnare qualche cosa alle classi giovanili, anzi spesso sono accusati d'essere colpevoli delle situazioni inaccettabili dalla gioventù odierna e da lei ereditate;
di ciò che di bene i vecchi, o appena gli anziani, hanno fatto o cercato di fare ci si dimentica volentieri;
tutto deve essere nuovamente concepito e intrapreso senza riguardo, anzi in opposizione al dato tradizionale, che il corso del tempo e la maturità civile ci prospettano come frutto d'immense fatiche e degno di onorevole riconoscimento.
Tutto è sbagliato, si dice, o almeno tutto è da abbandonare e da rifare rispetto alla figura dell'uomo, che fino a ieri era ritenuta esemplare.
Si vuole un umanesimo nuovo.
Così nuovo che continuamente si stanno rigettando le formule umanistiche prospettate fino ad ieri, fino ad oggi dalle varie scuole di pensiero, o dai vari movimenti sociali.
Nella ricerca d'una sempre nuova originalità si cade poi facilmente in un conformismo a qualche autore discutibile di moda, purché di moda.
Ma nella ricerca d'un'umanità tipica e ideale vi sono anche pensieri positivi, specialmente nell'àmbito fortunato della nostra comunità ecclesiale.
Tutta la dottrina sulla perfezione della vita religiosa, la destinazione alla santità emergente dalla stessa vocazione cristiana, l'affermazione dei valori non solo della sfera soprannaturale della grazia, ma altresì dell'ordine temporale e dell'attività naturale, che il Concilio ha disseminato nei suoi documenti, ci confortano a credere che il seguace di Cristo può e deve avere ancor oggi una sua grandezza morale, ereditata sì, ma viva e da riviversi, della quale, se egli non ha sempre la più alta prerogativa, pur troppo, nella vita vissuta, ha tuttavia il segreto, la formula giusta nel campo dottrinale.
Il cristiano, se tale veramente è, è l'uomo vero, è l'uomo che realizza pienamente e liberamente se stesso; e ciò ispirandosi ad un modello d'infinita perfezione e d'insuperabile umanità, Cristo Signore, imitabile in alcune forme necessarie, quelle reclamate dalla fede e dalla grazia, e in moltissime altre, suggerite dal suo proprio genio di cristiano e dalla sua cosciente elezione ( cfr. S. Th. I-II, 108, 1 ).
Qui incontriamo un'obbiezione diffusa e ricorrente nella storia e nella letteratura, quella diventata classica per l'eco che trovò in autori celebri, come il Machiavelli ed il Pascal ( cfr. Papini, Scrittori ed Artisti, 1959, p. 443 ), e che, formulata dal Sismondi nell'ultimo volume della sua storia delle repubbliche italiane nel medio evo, ebbe l'onore d'una confutazione, altrettanto sagace quanto rispettosa in un'opera, troppo anche in Italia svalutata ( cfr. Croce ), e troppo anche da noi cattolici dimenticata, vogliamo dire quelle « Osservazioni sulla Morale cattolica », di Alessandro Manzoni, che meritano tuttora, a Nostro avviso, lo studio e l'ammirazione non solo dei cultori dell'opera letteraria del grande scrittore, ma dei credenti, e non tanto di ieri, ma anche di oggi ( cfr. il pregevole studio di Umberto Colombo, nel vol. III delle Opera omnia del Manzoni ).
L'obbiezione, cioè, che la religione cattolica, specialmente nella sua presentazione delle dottrine morali, avvilisca il vero senso morale, anteponga gli insegnamenti dogmatici ai dettami della coscienza, preferisca il pietismo e le virtù teologali ai principi della giustizia propria della moralità naturale.
Lasciamo lo studio della questione ai volonterosi.
Per quanto interessa questo Nostro umile dialogo Ci limitiamo ad alcune ovvie, ma importanti osservazioni.
La prima è quella che difende il rapporto tra religione e morale:
Noi affermiamo, con tutta la tradizione teologica e pedagogica del cristianesimo, che la grazia perfeziona la natura;
cioè la fede, la vita religiosa, il riferimento del nostro agire a Dio, come a suo principio e a suo fine, l'esempio e la virtù che derivano dal Vangelo, la scuola che la Chiesa imparte ai fedeli circa la scienza dei loro doveri e del modo di concepire la vita singola e la vita sociale, la pratica della preghiera e del timor di Dio, eccetera,
non deformano il carattere dell'uomo,
non avviliscono la sua libertà,
non sostituiscono l'intimo processo della sua coscienza,
né tanto meno autorizzano il fedele ad eludere i suoi impegni nel contesto naturale e civile,
non ne fanno un fariseo bigotto ed ipocrita,
sì bene avvalorano nell'uomo il senso vero dell'uomo,
svegliano in lui non solo la consapevolezza del bene e del male, e
lo affrancano dall'indifferentismo morale verso cui scivola quella diffusa mentalità nella quale, spento il senso di Dio, si oscura il come ed il perché dell'onesto operare,
ma gli conferiscono altresì l'energia sua propria per essere forte e retto, e altra misteriosa, la grazia, vi aggiungono, che avviano l'uomo al superamento di sé, a quel vero superuomo, ch'è il giusto secondo la fede,
l'eroe semplice e costante per le grandi e per le quotidiane prove della vita,
il santo perfino, sia nel senso primitivo della comunità cristiana e sia nel senso, in alcuni casi singolari, dell'agiografia moderna.
Non tema il credente d'essere ultimo e, nemmeno secondo al traguardo dell'ideale umano, a cui è interessata la mentalità contemporanea.
E ciò in vista d'una seconda osservazione.
La concezione del perfetto cristiano deve fare molto caso delle virtù morali proprie della natura umana, integralmente considerata ( cfr. Decr. De instit. sacerdotali, n. 11 ).
Citiamo la prima di queste virtù: la sincerità, la veracità.
« Sia il vostro linguaggio, c'insegna il Signore, sì, sì; no, no » ( Mt 5,37; Gc 5,12 ).
Dobbiamo redimere il cristiano dalla falsa e disonorante opinione che a lui sia lecito il giocare sulla parola, che in lui vi sia doppiezza fra pensiero e discorso, che egli possa a fin di bene ingannare il prossimo.
L'ipocrisia non è protetta dal mantello della religione ( cfr. Bernanos, L'imposture ).
Lo stesso si dica sul senso della giustizia.
Della giustizia commutativa dapprima, quella che riguarda il mio e il tuo, cioè sull'onestà nei rapporti economici, negli affari, nella rettitudine amministrativa, specialmente nei pubblici uffici; e poi sulla giustizia sociale ( legale, la dicevano gli antichi, « nel senso che per essa l'uomo si conforma alla legge che ordina gli atti di tutto l'operare umano al bene comune » - cfr. S. Th. II-II, 58, 6; S. Tommaso la chiama perciò una « virtù architettonica » - cfr. ibid. 60, 1 ad 4 ).
E così diciamo del senso del dovere, del coraggio, della magnanimità, dell'onestà dei costumi; e così via ( cfr. Gillet, La valeur éducative de la morale catholique ).
Grande apprezzamento dobbiamo fare di queste virtù naturali, anche se non dimentichiamo come esse, fuori dell'ordine della grazia, siano incomplete, e spesso si associno a debolezze umane molto deplorevoli ( cfr. S. Ag., De civ. Dei, V, 19 ); e ricordiamo come siano, di per sé, sterili di valore soprannaturale ( ibid. XX, 25; e XXI, 16 ).
Insegnamenti vecchi?
No, ce li ricorda il Concilio, dove dice, ad esempio: « Molti nostri contemporanei … sembrano temere che, se si stabiliscono troppo stretti legami tra l'attività umana e la religione, sia impedita l'attività degli uomini, della società, della scienza ».
E difende così la legittima autonomia nella questione delle realtà terrene ( Gaudium et Spes, n. 36 ).
Così altrove.
Ad esempio: « Sacro sia per tutti includere tra i doveri principali dell'uomo moderno e osservare gli obblighi sociali » ( ibid. n. 30 ).
E dappertutto il Concilio propone al cristiano un umanesimo sapiente, che, senza dimenticare le grandi leggi della perfezione evangelica, come le rinunce che ci fanno più buoni e più spirituali, il sacrificio, che imprime il segno redentore della Croce nella nostra vita, solleva il cristiano stesso alla statura dell'uomo integrale, alla pienezza dei doni ricevuti da Dio con la vita, all'equilibrio gerarchico delle sue facoltà, all'impiego indefesso ed armonioso delle sue forze, al senso comunitario delle sue concrete relazioni umane, alla dignità della sua propria coscienza, e questa non già come criterio di verità obbiettiva, ma come principio di libera e responsabile condotta morale.
È bello che proprio nel nostro tempo, tanto turbato dalle confusioni ideologiche e sociali, la Chiesa di Dio parli a tutti e a ciascuno di perfezione umana, morale e vissuta.
Ascoltiamola; e conforti la Nostra Apostolica Benedizione l'invito paterno e generoso.