La vita come vocazione oggi

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Pubblichiamo la seconda riflessione svolta dal rev. don Giuseppe Pollano, nel ritiro dell' Unione dell'11.10.1992, a « La Sorgente », sul tema « La vocazione ».

La prima relazione, « La vita come vocazione », è stata pubblicata sul precedente bollettino di gennaio-marzo.

Anche questo testo, ricavato come il precedente dalla registrazione al magnetofono, non è stato rivisto dall'Autore.

Sintesi della conferenza. Come vocazione oggi

Perché « oggi »? Che cosa c'è di particolare « oggi »?

Oggi nell'economia del « silenzio di Dio » la « chiamata » non fa parte del modo che l'uomo ha di interpretarsi e valorizzarsi socialmente ( = cultura ).

Esiste tuttavia un insieme vorticoso di « chiamate » ( professionali, economiche, politiche, ecc. ) che sembrano infondere alle civiltà occidentali uno straordinario dinamismo.

E tuttavia bisogna affermare l'entropia implicita in questo dinamismo perché la civiltà strumentale ( non più veritativa, e tanto meno religiosa ), tende a ridurre sempre più l'uomo alle sue intrinseche esigenze che non sono umanizzanti.

In questa situazione la chiamata divina continua a farsi sentire e lo Spirito tende a costruire un mondo santo.

All'umanesimo agnostico intende rispondere con l'umanesimo santo.

Il rapporto fra vangelo e cultura si tende.

Il discernimento si fa sempre più necessario.

L'inculturazione del vangelo è necessaria.

La consacrazione dell'esistenza è nuova norma.

1. Il « silenzio di Dio » nella cultura contemporanea

Dobbiamo dire che la situazione culturale, almeno per quanto riguarda l'area delle nostre culture occidentali, che tra l'altro a tutt'oggi rimangono dominanti, planetariamente parlando, non è favorevole alla questione della chiamata di Dio.

Da alcuni secoli ormai noi viviamo in una civiltà che non è più una civiltà religiosa, ossia che non chiede più nulla alla teologia.

E al più, o forse era, una civiltà filosofica, che si avvia rapidamente ad essere una civiltà dominata dalla cosiddetta intelligenza strumentale, dove il futuro dovrebbe soprattutto essere figlio del laboratorio: la scienza della tecnica.

In questa situazione si è venuto a verificare, sempre dal punto di vista culturale, quindi dell'insieme di noi, quello che si è anche chiamato il silenzio di Dio.

Pare che Dio taccia.

Dopo Auschwitz, dopo l'olocausto, non si può più parlare come prima.

Ma io non mi fermerei su questo pur tragico evento del XX° secolo, perché lo ritengo un effetto di premesse storiche più ampie, anche se più subdole e quindi meno clamorose.

Sta di fatto che pare che Dio sia diventato il Dio che tace.

Dico « pare », perché la natura di Dio, che è il Verbo fin dal principio, è evidentemente inalterabile.

Questo silenzio di Dio comunque si verifica in alcune circostanze, ad esempio il concetto stesso di chiamata da parte di Dio credo si debba dire che è molto estraneo all'attuale cultura.

Se con il termine cultura qui intendiamo il modo che l'uomo ha di interpretare e di valorizzare se stesso, a livello non solo individuale, ma sociale, quello insomma che gli da la sua legittimità, allora l'essere chiamati da Dio non fa parte di ciò che ci mette all'onore del mondo.

Questo si verifica proprio come mentalità diffusa.

Un aspetto della crisi vocazionale sicuramente nasce anche da questa mentalità che precede la questione stessa.

Uno dei problemi fondamentali per noi, al di là del pochissimo numero di bimbi per le note ragioni demografiche, è che, in ogni caso, i padri e le madri resistono fortemente all'ipotesi che i loro figli siano staccati dalla famiglia per dare veramente attenzione al fatto che Dio li chiama.

Questo è rifiutato in gran parte dei casi, anche da genitori credenti.

E una difficoltà culturale di cui siamo tutti in qualche modo vittime, e riguardo alla quale il discorso è ampio, anche perché sovente non ce ne rendiamo conto, ossia non prendiamo una distanza critica da questo problema e non esercitiamo, come vedremo, il discernimento su questo tema.

In questo silenzio il dichiarare « io sono chiamato da Dio », richiede coraggio sociale, perché ci può anche esporre al ridicolo ( si è parlato a proposito del « martirio del ridicolo », che non è cruento, ma è molto pesante ).

2. Insieme vorticoso di chiamate

In questo silenzio non è però che il mondo giaccia tranquillo.

Il vero contrasto della nostra epoca è che, all'essere scomparsa in apparenza la chiamata di Dio, è seguito un vorticoso insieme di chiamate.

Continuamente chiamato da molti impegni, molti doveri, molte cose, l'uomo d'oggi porrebbe anche illudersi di vivere una esistenza che ne ha persino troppe di chiamate.

Recentemente è stato premiato un giovane scienziato, il quale, tra le altre cose, sta studiando il modo di evitare le interferenze, per cui si potrà usare anche mentre si vola il proprio piccolo telefono a orecchio, cosa che adesso non può avvenire.

In questi termini ecco che nasce una icona, a modo suo, quasi caricaturale eppure così realistica: occorre essere sempre pronti a qualsiasi piccola chiamata, occorre lanciare sempre la piccola chiamata, come quando si è alla stazione e si segnala ad una persona cara che il treno sta partendo.

Tutto questo può essere molto commovente, ma in effetti ci segnala il rischio dell'uomo che si da un'enorme importanza, che si sente tenuto su da questa rete continua di interessi dati e ricevuti, nessuno dei quali però, e neppure la somma dei quali, realizza il suo essenziale.

Le chiamate a cui siamo oggi noi sottoposti sono in genere eccedenti le nostre possibilità: il nostro taccuino trabocca, cerchiamo di fuggire la chiamata.

Non a caso uno dei discorsi che tornano di più è che dobbiamo essere disponibili, il che vuoi dire che siamo in genere braccati da questi appelli.

Ma è Dio che ci chiama attraverso queste voci?

E se è Dio, come distinguere tra voce e voce, essendo chiaro che non possiamo rispondere a tutte le voci?

Sono voci di carattere storico, che non hanno più nulla di escatologico, sono voci di carattere professionale, economico, politico, ecc.

Dico ciò per affermare che questo affaccendatissimo, chiamatissimo uomo europeo e, ovviamente, uomo statunitense, in realtà è dentro un sistema che, credo, si debba dichiarare apparentemente dinamico in modo frenetico.

Se buttassimo un occhio sul Giappone ci renderemmo conto di come sia frenetica quella attività, ma dietro questo straordinario dinamismo ci stia una atrofia, una degradazione lenta lenta dell'uomo, per una ragione che a me pare molto chiara, molto probante: questo insieme di energie che si scatenano e ci fanno vivere, sono energie di una civiltà che, come dicevo, è soprattutto strumentale, produce strumenti « per », chiede dunque all'uomo una certa attenzione, ma lo esime da altre attenzioni.

3. Civiltà strumentale, non più veritativa

Se oggi esista bisogno di intelligenza strumentale o di intelligenza veritativa, cioè che cerca la verità in modo gratuito, è questione a cui si risponde: certamente strumentale.

La verità, pare, non interessa più a nessuno, e in questi termini è proprio l'uomo che, se produce tali effetti, lentamente si degrada e si annulla.

Questo è molto pratico.

Quando un tecnico dal mattino alla sera, e questo è importante, anche per le questioni formative ed educative, è impegnato a tu per tu con i problemi di una tecnica sofisticata e ammirevole, ma naturalmente anche limitata, quando insomma rischia il cosiddetto « macchinismo », viene da pensare a cosa gli serva avere un supplemento di anima.

La mentalità odierna afferma che non gli serve assolutamente a nulla, anzi richiede che nessun supplemento di anima interferisca su quella che è la sua attività diretta con lo strumento.

E questo il rischio implicito in civiltà come le nostre, che non richiedono l'uomo trascendente, anzi gli chiedono di non porsi problemi trascendenti quando deve badare alla praticità delle cose evidenti.

Per lavorare coi computer, per entrare nell'informatica, di anima non ce ne sarebbe bisogno.

Se sembra una affermazione un poco paradossale, non è però una affermazione che voglia far colpo.

Tant'è vero che, sempre secondo questa mentalità, persino il mondo dei nostri affetti di per sé deve essere escluso dalla rigidità dell'efficacia tecnica.

Possiamo permetterci fino a un certo punto di aver dei dolori personali quando siamo sul lavoro, oltre un certo punto dobbiamo tenerceli per noi perché disturbano.

E questo è un clima molto rigoroso, che può diventare addirittura spiccato.

4. Indifferenza per la trascendenza

Quando poi si tratta di problemi trascendenti, come è detto sopra, allora la cosa è completamente fuori margine.

E perciò questo sistema va visto da noi non con diffidenza, demonizzandolo, però con molta attenzione, stando bene attenti a non lasciarci implicare.

Ci sono forse troppi cristiani che continuano ad essere cristiani, il loro cristianesimo conserva una dottrina creduta ineccepibilmente e una ritualità vissuta fedelmente, ma che, malgrado questo, sono cristiani soprattutto coinvolti per la loro vita su altri piani.

E allora cadono in quel difetto, che fu segnalato così bene al convegno ecclesiale di Loreto, della coscienza spaccata, divisa, che non si riesce più a mettere insieme.

Questo non deve accaderci, perché in tal caso, oggi saremmo falliti come chiamati.

Non riusciremmo più a legare creazione e redenzione, per cadere in quella specie di pessimismo luterano che partendo dal principio che è la grazia che ci salva, sostiene che quanto al mondo dobbiamo tirarcene fuori.

Ciò vorrebbe dire tirarci fuori dalla storia, che è proprio il contrario della interpretazione cattolica della salvezza, la quale non accetta di spaccare la Trinità.

C'è la creazione, c'è la redenzione, c'è la pentecoste, e tutto ciò deve fare un tutt'uno, che è la storia rinnovata.

Però il rischio senza dubbio c'è.

I nostri giovani pagano, a mio giudizio, un prezzo carissimo a questa mentalità.

Noi continuiamo a educarli, a cresimarli, a lanciarli nell'esistenza, sperando che lo Spirito tenga in loro, ma poi spesso, senza loro volontà, e prima ancora dei loro peccati personali, oserei dire, essi scivolano in questa maniera di dover essere, la quale lentamente li annulla.

Lo strutturalismo, non di carattere filosofico, ma di carattere sociotecnico, che cosa dice?

Che il soggetto umano deve scomparire, perché non serve a nulla, serve quell'uomo che fa quel lavoro, anche se tale mentalità frantuma la persona; ma non possiamo negare che la vita del lavoro sociale spesso è stata pensata e strutturata così.

D'altronde, il risvolto appena appena filosofico, ma molto pratico, è il cosiddetto nichilismo dell'interpretazione della vita: se le cose stanno così, allora veramente non c'è più nulla che non sia il momento che si vive.

Ed ecco allora i grandi discorsi che si fanno sull'effimero, sul piccolo cabotaggio della vita, sulle minute cose, sull'assenza totale di riferimenti ideali: eventi reali perché accadono, ma non sono tali che i giovani ne siano felici.

5. Reagire a questa mentalità senza cadere nel pessimismo

Questo è l'aspetto negativo e da non ignorare, ma di fronte al quale guai se ci dessimo per vinti.

Senza però cadere nel grave errore di produrre un personaggio sbagliatissimo, che è il profeta di sventura.

Ci sono dei cristiani che sono profeti di sventura.

Non c'è bisogno di essere Avventisti per atteggiarci a profeti di sventura, basta lasciarsi coinvolgere dalla convinzione che il futuro scivola, che noi non abbiamo possibilità di porvi rimedio, che le cose stanno andando sempre peggio.

Ora questa mentalità è sbagliata, perché noi non controlliamo l'andamento del mondo, il quale non dipende dall'uomo, né tanto meno dalle sue follie, ma dipende da un Dio che ci ha già salvati.

Certo, se noi manchiamo di speranza, o poca ne abbiamo, allora avendo una consapevolezza morale, non possiamo non farci prendere dal pessimismo, però dobbiamo reagire.

Troppi discorsi intristiscono l'anima, poveri di speranza, spesso anche le omelie: quando non siano un po' fumose, vaganti, talora sono di questo genere, di un moralismo alquanto negativo, neanche più fustigatore ( perché ormai chi dobbiamo fustigare? ), ma semplicemente di giudizio.

E questo sfiora pericolosamente i pessimismi acuti, tipo quelli dei testimoni di Geova, per fare un esempio noto, che aspettano soltanto la fine, l'Apocalisse interpretata non come la rivelazione della gloria di Dio, ma semplicemente un caotico disastro finale.

E questo non è bene: la tristezza cristiana pesa sul mondo, per cui noi dobbiamo diventare più ricchi di speranza.

Più ricchi di speranza, e la Chiesa ci mette chiaramente su questa strada.

Come si vede che la Chiesa non è semplicemente umana.

Come si vede che la Chiesa è mossa dallo Spirito proprio in tempi come questi.

Pare di rivivere nella storia, per quanto ne sappiamo, i tempi che furono terribilmente drammatici, di quando crollò l'Impero Romano sotto la prima venuta dei popoli dell'est, i barbari li chiamavano, perché allora fu molto facile dire: crolla l'impero, crolla la Chiesa, e non pochi cristiani pensarono proprio così.

Fu un'epoca di grande tristezza.

Ma la Chiesa invece, ormai lo sappiamo, ebbe i suoi profeti e la sua forza.

6. Nuova evangelizzazione

Oggi la Chiesa, di fronte a questo sfascio, parla di nuova evangelizzazione, parla di santità, parla di formazione permanente del suo popolo, ossia reagisce con un'impennata di speranza che è qualcosa di stupendo.

Al di là dei frutti che matureranno nelle coscienze, il solo fatto stesso che la Chiesa in questa civiltà che sembra putrescente, in stato comatoso, faccia questi discorsi, è la meraviglia dello Spirito Santo.

Ed è meraviglia il fatto che non pochi cristiani e cristiane questi discorsi non solo li capiscono, ma li stanno realizzando.

Però va affermato che tutto questo richiede un rinforzo di fede.

É vera la tesi che il cristiano medio, e quindi un po' mediocre, che andava avanti puntellato anche dalla buona pressione sociale, aiutato di qua e di là, è finito.

I Vescovi l'hanno detto: il Cristianesimo della tradizione rapidamente è franato.

Non facciamoci illusioni, ce ne accorgiamo: basta che un emigrante, non dico che arrivi dall'Africa, ma che arrivi dal Veneto, si trapianti qui, senza più tutti quei puntelli e quei controlli che aveva nel paese di origine, diventa uno che sta un anno intero senza trovare la sua chiesa.

Il che vuoi dire che di interiorizzato c'era poco.

Tutto questo lasciamo pure che vada, non stiamo a piangere su macerie, non stiamo a dire « questo è il frammento di quelle macerie », abbiamo di meglio da fare.

Abbiamo da ricostruire, se vogliamo dire così, o da continuare la grande tradizione dei santi soltanto armandoci meglio.

Allora, consapevoli che il rapporto tra Vangelo e cultura è tesissimo, mai teso come adesso - ricordiamo quanto Paolo VI ci disse nella Evangelii nuntiandi, che c'è una frattura tra Vangelo e cultura e bisogna accettarla - non dobbiamo illuderci.

Lo sforzo che era stato fatto in precedenza è stato grandissimo: tutto riassumere e instaurare in Cristo, cioè rifare una società cristiana, e ciò produsse l'Azione Cattolica, i Movimenti, e più in generale il ricchissimo Ottocento e il primo Novecento, di cui non dobbiamo per nulla disistimare le ricchezze.

Ma tutto questo ha subito una caduta, quasi in verticale, che ci ha impressionato molto.

Ci siamo accorti come la cultura fosse davvero lontanissima dal Vangelo, ci siamo accorti che i grandi fenomeni che avrebbero prodotto poi le politiche eversive e distruttive, che i vari, che so, futurismi, dadaismi - cose che sembravano non c'entrare nulla in apparenza, che potevamo giudicare follie marginali - avevano minato tutto e al momento buono è bastata una piccola spinta.

7. Non subire passivamente la frattura tra Vangelo e cultura

Allora è vero che c'è frattura tra Vangelo e cultura, ma ciò non significa che noi stiamo a subirla.

Stiamo attenti perché i cristiani sono troppo rassegnati al supposto che chi crede creda e chi non crede pensi.

E questo è assurdo, chi mai ce l'ha detto?

Eppure vi siamo rassegnati.

Il pensiero sarebbe il monopolio di altri.

Le grandi idee, sbagliate o giuste, non saremmo mai noi a proporle al mondo.

E chi ci ha detto questo? Chi ci ha esentato dall'essere intelligenti in nome del Vangelo?

Il quale Vangelo è la forma più intelligente della lettura della vita, perché viene dal « Logos ».

Eppure questa specie di pessimismo, questo senso leggero di inferiorità c'è ancora tra noi.

Le nostre stesse scuole cattoliche a stento alzano il capo e non sanno opporsi più che tanto alla cultura comune.

E tutto ciò è qualcosa che si può benissimo scuotere di dosso: perché non lo dobbiamo fare?

Il Signore non ci incita all'audacia? La profezia cos'è? È questa la profezia.

Occorre rendersi conto che la cultura non è l'elemento determinante, ma neppure va trascurata.

Non siamo puri se ci stacchiamo dalle cose, con questa intenzione profonda di non sporcarcene.

Il Signore si è incarnato dentro le cose.

Lavorare nella carpenteria credo che sia stata una bella compromissione, onesta, pulita finché si vuole, ma insomma, quella con l'uomo come è.

E cosa vuoi dire questo? Vuol dire che dobbiamo essere attenti.

Pensiamo quanta contaminazione invece c'è tra un po' di Vangelo e un po' di cultura.

Pensiamo alla questione della demografia, tanto per dirne una.

La nostra cultura è decisamente antidemografica, su questo non c'è dubbio, l'Italia è la nazione che in tutto il mondo è la più povera, è la più morente, e in quest'Italia, a Genova, a Torino e a Bologna vi sono le punte forti della crisi.

E una cultura, è un modo che l'uomo ha di interpretarsi e di valorizzarsi.

Come il popolo di Dio emerge rispetto a questa cultura, pur nelle note difficoltà socioeconomiche?

Un poco emerge, siamo giusti, ma credo che emerga più come famiglie coraggiose che come popolo.

La mia impressione è che come popolo emerga poco e non costituisca un fenomeno diverso.

E faccio questo esempio perché è il più clamoroso, perché ormai se ne preoccupano tutti, perché l'Italia invecchia.

Ma la questione non è tutta qua.

C'è una cultura che ci ha in qualche modo contaminati: pensiamo alla cultura del denaro, la cui impostazione economicistica in realtà ci condiziona.

Consapevoli o no, sta di fatto che se non rispondiamo ad una certa immagine, ad un certo tenore di vita, noi non ci riteniamo all'onore del mondo e non osiamo affrontare lo sguardo critico, e spesso sprezzante, di chi non ci vede ai suoi livelli di vita.

Questa è cultura antievangelica.

8. Il « discernimento » cristiano

Non abbiamo forse preso abbastanza consapevolezza che c'è stata una rottura e che, in senso evangelico, bisogna viverla con coraggio profetico.

Questa rottura richiede il discernimento come vera intelligenza critica delle cose.

Questa parola « discernimento » è tornata di moda da dieci anni in qua.

Si è usata anche questa a Loreto ed è stata usata anche nel Concilio.

Bisogna continuare a usarla: è l'uso critico della nostra intelligenza, illuminata dalla fede riguardo a tutte le situazioni.

Delle varie definizioni che si potrebbero dare a discernimento non ne ho trovata una migliore di quella che appartiene a Paolo VI ed e ancora nella Evangelii Nuntiandi: « Bisogna raggiungere e sconvolgere, mediante la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti d'interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell'umanità ».

Questa realtà che è il mondo, va raggiunta e quasi sconvolta mediante la forza del Vangelo.

Perché? Perché è in contrasto con la parola di Dio, con il disegno di salvezza, e dunque con il bene dell'uomo.

Questo discernimento pertanto non deve essere solo un'operazione mentale sulla nostra valutazione della realtà nell'affermare che questo mondo va male.

Effettivamente il discernimento comincia nella comunità, ma poi bisogna che in qualche modo di là esca e diventi una voce; forse non sarà ascoltata ma è meglio una voce non ascoltata che nessuna voce, anche perché non è mica detto che resti sempre inascoltata.

Se parliamo con coraggio in nome di Dio, Dio che è fedele ci sosterrà.

E questa è l'operazione probabilmente più importante, quella che fa da cerniera a tutto: operare il discernimento, a livello educativo in una famiglia e in una scuola, a livello di testimonianza nella vita personale, in gruppo.

Bisogna temere di essere troppo acquiescenti ai modelli, ai valori del mondo.

Quanti cristiani, per fare un esempio quotidiano, sono veramente liberi davanti al loro televisore?

E quanti piano piano sono diventati dei teledipendenti?

Siamo consapevoli del servizio che la televisione ci apporta, anche sul piano scolastico, ma occorre serbarsi liberi da essa.

Ma quante famiglie di credenti domenicali hanno quattro televisori in casa: altro che liberi dal televisore!

Ci siamo adattati con estrema duttilità alla mentalità del secolo, forse in nome del non essere diversi dal mondo, o di altre ragioni.

Ma quando paghiamo in denaro di libertà sonante questo adattamento, allora c'è uno sbaglio di fondo.

Invece nell'adattarci a tutto, dobbiamo essere sempre capaci di fare liberamente il contrario, altrimenti non ci siamo « adattati », ma semplicemente schiavizzati.

Che poi diamo dei bei nomi a questo atteggiamento, è un altro discorso, ma sotto sotto c'è una ipocrisia o quanto meno una debolezza.

Può capitare a tutti, non siamo certo qui per giudicarci, però dobbiamo assumere questa dignità del coraggio cristiano.

L'esempio addotto magari sfiora la banalità, ma si tratta di riferirsi ai modelli di vita e di umanità.

Un altro settore eloquente è quello della moda, specie femminile.

In questo campo c'è un adattamento che sovente prescinde dalle motivazioni di vanità, se non proprio di seduzione, che stanno a fondamento di certi abbigliamenti.

Si è però parimenti perso il concetto che una donna deve essere una ispiratrice di castità, altrimenti cosa altro deve prospettare sotto questo profilo?

Da questi esempi emerge come appaiano sovente incerte le frontiere tra i valori oggettivi e la nostra mentalità.

E non sempre si parla a sufficienza dei limiti autentici.

Noi stessi, pastori d'anime, quando non richiamiamo abbastanza questi valori, somigliamo un po' ai cani muti di Isaia.

Insomma, si dà per scontato che i valori se ne vanno e se ne vengono.

E difficile il discorso morale.

Stiamo aspettando da un anno o due l'enciclica sulla morale, e penso che Giovanni Paolo II stia affrontando con questo lavoro l'impegno più grosso di tutto il suo pur enorme ministero pastorale, perché qui si tratta di ridare una coscienza, non dico a un'epoca, ma a una Chiesa, che l'ha molto indebolita.

E ci vuole coraggio, non solo il coraggio di parlare, ma il coraggio di credere.

Perché? Perché potrebbero anche provocarsi ribellioni.

La vocazione di Levi. Quadro di Caravaggio, in S. Luigi dei Francesi a Roma.

9. La santità come risposta all'umanesimo ateo

I modelli che il mondo ci da sono tutti negativi, non c'è da farsi molte illusioni.

Noi dobbiamo aggrapparci a Gesù Cristo Crocifisso.

Come? Col coraggio di trame tutte le conseguenze.

Questo perché? Perché vogliamo che la cultura si salvi, appunto perché non siamo affatto nemici di questa cultura e amiamo tutti i nostri fratelli e le nostre sorelle.

Vogliamo la cosiddetta inculturazione del Vangelo.

Questo Vangelo non se ne deve stare in aria come un aereo che non atterra mai: deve atterrare nelle culture, se no a che cosa serve?

E se deve atterrare, c'è tantissimo spazio possibile, nel quale realizzare questa alleanza tra Dio e gli uomini, che oggi tocca a noi annunziare.

Ed è a questo riguardo che bisogna dire forte che la consacrazione, cioè la vita intesa come una santità grazie alla Spirito, è l'unica risposta proporzionata.

Questo va detto forte.

Il nostro umanesimo è stato chiamato ateo.

Non è un umanesimo filosofico, ma è ateo perché ha detto no alla grazia: è pertanto un ateismo consapevole e completo.

Jacques Bernanos diceva: « A un umanismo ateo si deve rispondere con un umanesimo di grazia, altrimenti la risposta non è proporzionata ».

Non basta che i filosofi cristiani discutano su Dio, anche se serve.

Se si è atei perché si è detto no alla grazia, la risposta è dire sì alla grazia.

Cioè la risposta è accettare che la santificazione sia la norma della vita.

E qui ci rendiamo conto di come siamo ancora una volta sbalzati fuori dalla cultura.

Che la parola santità non appartenga alla cultura, questo è noto.

Un giornalista alla parola « santità » probabilmente penserebbe immediatamente a Giovanni Paolo II, perché santità vuol dire Papa.

Poi riflettendoci un poco penserebbe che è una categoria della ideologia cristiana, ma non credo che tutti ci arriverebbero; neppure le grandi firme.

E ciò perché si tratta di un concetto di quelli che sono sommersi sotto l'orizzonte.

Non solo a pochi interessa essere santi ma neppure interessa che i cristiani siano santi.

Certamente nessuno chiede conto di questo.

Basterà che siamo onesti, che ci atteniamo ai buoni valori umani, ma quanto alla santità, è completamente fuori da ogni aspirazione, e rimane la grande chiamata di Dio.

É proprio vero che storicamente siamo spiazzati.

Ma noi accettiamo la sfida, perché nessuno fu più spiazzato dei primi membri di quella Chiesa apostolica, che è rimasta poi in qualche modo l'immagine emblema di tutta la Chiesa.

Pur spiazzati accettiamo la sfida, senza peraltro diminuire l'interpretazione della vita.

Noi abbiamo fatto una distinzione di concetti che ci ha molto danneggiati, quando abbiamo separato il cristiano dal santo.

Chi ce l'ha mai insegnata questa distinzione? Nessuno.

Ce l'ha insegnata la nostra furbesca maniera di evitare la verità.

Ci siamo acquietati nell'idea che si può essere cristiani e che, nel cristianesimo, esiste quella razza superiore di campioni fatti da Dio uno per uno, che sono i santi.

E ci siamo anche esentati dal santificarci con questa abile mossa di concedere ai santi ammirazione e preghiera.

Ma questo è veramente grave a pensarci, come fatto culturale cristiano: forse che il linguaggio della Chiesa apostolica non denominava « santi » i suoi membri?

Così noi saremmo i santi della Chiesa di Torino.

Ne siamo convinti, ma lo diciamo con un tantino di remora, perché subito facciamo un raffronto morale.

Non siamo più abbastanza attaccati all'essere, ci è sfuggita la realtà della grazia.

Perciò siamo dei riduttivi della nostra potenzialità cristiana.

Quante volte il cristiano dice: « Io santo? Eh no, non esageriamo! »

E lo dice ritenendo anche di fare un atto di umiltà, e forse soggettivamente compie un atto di umiltà: si confronta con i modelli altissimi, si ritiene incapace e umilmente dice: « Io santo? »

Solo che è una umiltà soggettivamente vera, ma oggettivamente insostenibile.

Sì, tu sei santo. Sai che lo Spirito Santo abita in te?

Come te lo immagini se non come la divina Persona che ha fatto Gesù Cristo, che ha fatto Maria, che fa la Chiesa santa?

Egli appunto sta facendo te santo.

Ah, se fossimo capaci di avere questa semplificazione teologica personalizzata su di noi!

Perché è vero, perché questa è la verità.

Allora diventeremmo molto più ricchi di fiducia: lo Spirito, dice Paolo, compie la sua potenza nella tua fragilità, la quale dunque è stata ampiamente prevista da Dio.

Abbiamo un tesoro in vasi di creta.

Lo sa Dio che siamo di creta, ci ha fatto Lui di creta, nella nostra creta gli è piaciuto calare il suo Spirito.

Noi abbiamo tutti esperienza che lo Spirito è capace di farci compiere opere sante.

E vero, possiamo peccare, ma siamo capaci anche di opere sante, e più assecondiamo lo Spirito, più le opere sante, nella umiltà della vita quotidiana, vengono, provengono da noi: questa è la nostra ricchezza.

Però bisogna essere più convinti, decidersi che questo è vivere, e comunicarlo agli altri.

Quello che ci è suggerito nell'orecchio bisogna davvero gridarlo dai tetti in questo caso.

L'umanesimo santo è l'unica autentica speranza di questa nostra storia umana.

Senza umanesimo santo possiamo aspettarci la continuazione delle catastrofi.

C'è un libro intitolato « I grandi disastri della storia », e il nostro secolo, per quel che riguarda i disastri provocati dalla volontà dell'uomo, è il peggiore.

Le catastrofi ci sono, qualche volta esplodono e portano le calamità che ben conosciamo; spesso serpeggiano, ma ci sono.

Ma il Signore ha deciso di salvarci, allora l'umanesimo santo è ciò che verrà fuori da questa Chiesa.

E l'umanesimo santo proprio la congiunzione di un concetto che era stato totalmente laicizzato: « umanesimo », e un aggettivo che era stato totalmente sacralizzato: « santo ».

Li rimettiamo insieme, perché c'è un popolo di Dio, e l'umanesimo santo investe la storia.

10. Umanesimo santo e laicalità

Questo umanesimo santo è l'umanesimo della laicalità, poiché non penseremo mica che si facciano santi pochi preti o poche suore: questo sarebbe totalmente sbagliato, teologicamente sbagliato, e insostenibile.

Anche a questo riguardo c'è chi fa notare che i cristiani hanno rimosso da sé l'impegno della santificazione buttandolo sui monaci.

Sono questi che si fanno santi, formulando i tre voti di povertà, di castità e di obbedienza, vivendo in comunità, conducendo una vita di penitenza: volendo vedere dei veri cristiani, occorre andare nei monasteri.

Ma questa osservazione non è decisiva.

Andiamo pure nei monasteri, parliamo con le monache e i frati, saremo edificati ma non pensiamo di andare lì a vedere dei veri cristiani, commetteremmo un grosso errore.

Troveremmo dei veri cristiani nella misura in cui quelli chiamati a essere frati e monache lo sono, ma non più cristiani di quelli che, chiamati a essere laici, sono laici.

Non a caso la Chiesa, dal Concilio in qua, parla di laicalità a tutto spiano, sempre, in ogni occasione, perché sa benissimo che lo Spirito si effonde attraverso un popolo.

E non a caso direi che si è accentuata la tensione tra la laicità, o laicismo, cioè tra l'appartenere al « laos » umano, che si fa da sé, che non parla più a Dio, e la laicalità, cioè l'appartenere a quel popolo che in Dio riconosce la propria anima e la propria forza.

Laicalità e laicità, per dire così, sono la tipica e significativa tensione della nostra epoca.

Il laicismo ha avuto i suoi valori, che sono poi i valori del galantomismo del 1800: la coscienza, la rettitudine, l'onestà, il rispetto del pensiero degli altri, ideali tutti più che ammirevoli.

Orbene la laicalità è l'unico modo di porsi nelle medesime situazioni in maniera profetica evangelica.

E dovunque ci siano dei laici con tali disposizioni, e grazie a Dio ce ne sono non pochi, qualche cosa accade.

Per esemplificare, non è possibile trovarsi in un mondo dove la regola è l'adulterio ed apparire interessanti, intelligenti, capaci, senza tradire il marito o la moglie.

Se accade il contrario, e la persona che si comporta in tal modo è serena, allora ciò risulta come uno scandalo, ma un positivo scandalo.

Parimenti non è possibile essere negli affari, risultare abili e capaci, e restare onesto.

Eppure ciò qualche volta accade, ed è un altro scandalo.

Così come può accadere in effetti che il laico porti anche la croce del proprio martirio e sia estromesso, allontanato proprio perché è cristiano: può accadere di tutto, no?

E in questo ci rimettiamo alla volontà di Dio.

Risulta chiaro pertanto che la vocazione oggi è stupendamente stimolante.

Mai come oggi siamo provocati: o santi o niente.

É questo radicale dilemma fino a ieri poteva anche essere preso un po' più alla buona, anche perché si viveva in una cultura cristiana, che induceva ad un certo orientamento.

Ma oggi non è più così.

Bisogna tornare alle origini: testimonianza è martirio.

Prima è stata martirio, poi è diventata anche martirio incruento, senza sangue, ma è sempre una testimonianza eroica: o santi o nulla.

E forte la cosa. E occorre pure avere il coraggio di dirlo agli altri o tanto vale tacere.

11. Valore educativo della testimonianza laicale

Dal punto di vista educativo questi sono i discorsi da fare a tutti, in un modo o nell'altro, con garbo, con gradualità, ma senza mai negare, soprattutto ai giovani, questo genere di cose.

Essi sono distanti, sembrano su un altro pianeta, eppure pensiamo che il Signore, quando è sceso su questo mondo ci ha trovati molto lontani da lui, ma c'erano dei cuori disponibili.

Vogliamo che tra i giovani d'oggi non ce ne siano?

Perché non ce ne devono essere? Non sono creature di Dio come noi?

Riflettiamo piuttosto sulla nostra audacia propositiva.

Un po' di parola sarà sprecata ( ricordiamo la parabola del seme che cade sulla strada ), ma dobbiamo gettarne tanta che, se anche se ne sprechi, ne resti sempre a sufficienza.

Non diventiamo quegli economi che Dio non ci ha insegnato ad essere, che vogliono buttare il seme soltanto sulla terra buona, sicché prima cercherebbero la terra buona, e poi getterebbero il seme.

Ciò è totalmente contrario alla dizione della parabola.

É dunque bello e stimolante essere cristiani oggi, non ci lascia perdere tempo, manca un po' il fiato, però è una grande chiamata.

E di cristiani autentici che Dio ha bisogno, colmi d'amore, perché senza amore è chiaro che questo discorso si affloscia come un castello di carte.

Ma la carità è tutto.

Bellissimo il richiamo della Conferenza Episcopale Italiana nel piano pastorale per gli anni '90: Qui bisogna mettere in atto la carità.

Con un richiamo niente meno che al mistero trinitario, che cala dentro la vita di tutti nella quotidianità umile umile e diventa l'Epifania di Dio.

( Dalla registrazione della conferenza di don Giuseppe Pollano, dell'11.10.92, non rivista dall'Autore )