Sermoni sul Cantico dei Cantici

Indice

Sermone XXVI

I. In che senso si è detta bruna come le tende di Cedar

1. Come le tende di Cedar, come le pelli di Salomone ( Ct 1,4 ).

Dobbiamo cominciare da qui, perché qui ebbe fine il sermone precedente.

Voi aspettate di sentire che cosa significhino queste parole e come si adattino al capitolo che abbiamo trattato poco fa, poiché esprimono un paragone.

Può darsi che questa frase sia stata aggiunta in modo che entrambe le parti della similitudine rispondano alle parole precedenti: Sono bruna.

Può anche darsi che le due parti del paragone si riferiscano rispettivamente alle due affermazioni precedenti.

Il primo senso è più semplice, il secondo più oscuro.

Ma esaminiamoli entrambi, e per primo quello che sembra più difficile.

La difficoltà non sta nelle prime due parole ma nelle due ultime.

Infatti Cedar, che viene interpretato come tenebre, chiaramente si vede come convenga al colore oscuro; ma non così delle pelli di Salomone rispetto alla bellezza.

In quanto alle parole: tende, pelli, è facile vedere come siano appropriate entrambe.

Che cosa sono, infatti, le tende se non i corpi nei quali compiamo il nostro pellegrinaggio?

Non abbiamo infatti quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura ( Eb 13,14 ).

Ma militiamo in essi, come sotto le tende, come per conquistare con la violenza il regno.

E infatti la vita dell’uomo sulla terra è una milizia ( Gb 7,1 ), e fino a quando militiamo in questo corpo, siamo in esilio, lontani dal Signore, cioè dalla luce.

Perché il Signore è luce, e in quanto uno non è con lui, in tanto è nelle tenebre, vale a dire in Cedar.

Riconosca pertanto la sua in quella flebile voce: Me infelice!

Abito straniero in Mosoch, dimoro fra le tende di Cedar!

Troppo io ho dimorato ( con chi detesta la pace ) ( Sal 120,5-6 ).

L’abitacolo del nostro corpo è dunque non un’abitazione di un cittadino o la casa di un indigeno, ma o la tenda di un militare, o la capanna di un viaggiatore.

È, dico, questo corpo una tenda, e una tenda di Cedar che, quasi come uno schermo, impedisce per ora all’anima la visione della luce incircoscritta e non le permette di contemplarla se non come attraverso uno specchio e nel mistero, ma non faccia a faccia.

2. Vedi donde proviene il colore oscuro della Chiesa, donde quella certa ruggine che aderisce anche ad anime bellissime?

Deriva certamente dalla tenda di Cedar, dall’esercizio di una milizia faticosa, dal protrarsi della misera vita presente, dalle angustie e dai travagli dell’esilio, e infine, dal corpo fragile e pesante: perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima, e la tenda d’argilla grava l’anima dai molti pensieri ( Sap 9,15 ).

Per questo bramano di essere sciolte dal corpo, onde, libere dai suo peso, possano volarsene agli amplessi di Cristo.

Per questo anche una di queste anime gridava dalla sua miseria: Me infelice!

Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? ( Rm 7,24 ).

Quella che parla così sa infatti che nella tenda di Cedar non potrà andare esente del tutto da macchia o ruga o da un certo colore oscuro, e desidera uscire per potersene spogliare.

E questa è la ragione per cui la sposa si è detta scura come le tende di Cedar.

Ma come mai si dice poi bella come le pelli di Salomone?

Sento che in queste pelli è nascosto un non so che di sublime e sacro, che non oserei affatto toccare, se non al cenno di colui che ve lo ha riposto e sigillato.

Ho letto infatti: Chi si fa scrutatore della maestà di Dio, sarà oppresso dalla sua gloria ( Pr 25,27 ).

Mi fermo qui pertanto e rimando questo argomento a più tardi.

Sarà intanto vostra cura, come al solito, impetrare con le vostre preghiere il favore celeste, affinché torniamo tanto più fervorosi, quanto più fiduciosi a un argomento che richiede animi molto attenti.

E forse l’anima pia che bussa troverà quello che uno scrutatore temerario non riuscirebbe a trovare.

Ma è il dolore che mi costringe a mettere fine, e la sventura che si è abbattuta su di me.

II. Lamento per la morte del fratello Gerardo

3. Fino a quando, infatti, dissimulo e il fuoco che nascondo dentro me stesso brucia il mio cuore immerso nella tristezza e mi divora le viscere?

Rinchiuso esso divampa maggiormente e incrudelisce più atrocemente.

Come posso intrattenermi in questo cantico, io che sono nell’amarezza?

La veemenza del dolore mi toglie la capacità di applicarmi, e lo sdegno del Signore assorbe il mio spirito.

Mi è stato tolto colui per il quale mi era consentito di applicarmi liberamente ai miei studi sulle cose di Dio, e il mio cuore è venuto meno.

Ma ho fatto forza al mio animo e ho dissimulato fino a ora, onde non sembrasse che l’affetto avesse il sopravvento sopra la fede.

Gli altri piangevano; io, come avete potuto notare, ho seguito con occhi asciutti la triste sepoltura, con occhi asciutti stetti davanti alla fossa, fino al termine delle esequie.

Vestito degli abiti sacerdotali, ho recitato con la mia bocca le solite orazioni, con le mie mani ho gettato, come è usanza, una manciata di terra sul corpo dell’amato fratello, che diventerà presto anch’esso terra.

Quelli che mi guardavano piangevano e si meravigliavano che non piangessi anch’io; non avevano infatti pietà di lui, ma piuttosto di me che lo avevo perduto.

Anche un cuore di ferro si sarebbe commosso vedendomi là, superstite a Gerardo.

La sua morte è stato un danno per tutti; ma di fronte al mio, quello degli altri sembrava trascurabile.

Tuttavia, io, con tutte le forze della fede resistevo all’affetto, come potevo, sforzandomi, sia pure contro voglia, di non mostrarmi commosso per quella morte che, invano, cercavo di rappresentarmi come condizione della natura, debito universale, esigenza della condizione umana, ordinata dal potente, dal giusto giudice, castigo del terribile, come volontà di Dio.

Per queste ragioni sempre, da allora e in seguito, ho imposto a me stesso di non indulgere a molto pianto, pur sentendomi molto turbato e afflitto.

Non potevo comandare alla tristezza come facevo alle lacrime, ma, come sta scritto: Sono stato turbato e senza parole ( Sal 77,5 ).

Ma il dolore compresso si è radicato più profondamente al di dentro, diventando tanto più atroce, lo sento, quanto meno aveva potuto sfogarsi al di fuori.

Sono vinto, lo confesso. Deve per forza uscire, uscire fuori quel che soffro dentro.

Trovi sfogo agli occhi dei figli, i quali, conoscendo le mie angustie, stimino più umanamente le mie lacrime e più dolcemente le consolino.

4. Sapete, o figli, quanto profondo sia il mio dolore, quanto dolorosa la mia piaga.

Vedete, infatti, quale fido compagno di viaggio mi ha lasciato solo nella via che percorrevo, quanto vigilante nella cura, come solerte al lavoro, quanto dolce nei costumi.

Chi mi era come lui strettamente necessario? A chi io ero ugualmente caro?

Mi era fratello per sangue, ma più fratello ancora per religione.

Rimpiangete, vi prego, la mia sorte, voi che conoscete queste cose.

Ero infermo di corpo, ed egli mi portava; ero pusillanime di cuore, e mi confortava; pigro e negligente, ed egli mi scuoteva; trascurato e smemorato, ed egli mi avvertiva.

Perché mi sei stato tolto? Perché sei stato strappato dalle mie mani o uomo unanime, uomo secondo il mio cuore?

Ci siamo amati durante la vita: come mai siamo separati nella morte?

Amarissima separazione, e che solo la morte è capace di effettuare!

Quando mai, infatti, tu vivo avresti abbandonato me vivo?

Veramente opera questa della morte, orrendo divorzio.

Chi non avrebbe risparmiato il così dolce vincolo del nostro amore, se non la morte, nemica di ogni dolcezza?

Morte veramente, che, cogliendo uno, ha ucciso rabbiosamente due.

Non è stata forse morte anche per me?

Anzi, più per me, al quale è riservata una vita più infelice che ogni morte.

Vivo per morire vivendo: e questa chiamerò vita?

Saresti più mite, o morte, nel privarmi dell’uso della vita che del suo frutto!

Poiché è più gravosa morte una vita senza frutto.

Un duplice male è riservato all’albero infruttuoso: la scure e il fuoco.

Tu dunque, invidiosa dei miei lavori, hai allontanato da me l’amico e il conoscente, per opera del quale soprattutto essi erano fruttuosi, se lo erano.

Avrei dunque preferito mettere in pericolo la mia vita, o Gerardo, piuttosto che essere privato della tua presenza, tu che eri sollecito nell’incoraggiarmi nei miei studi sacri, fedele nel prestarmi aiuto riguardo a essi, cauto nel valutarli.

Perché, dico, ci siamo amati, o perché ci siamo lasciati?

Dura condizione, ma miseranda la mia, non la sua morte!

III. Si addolora con se stesso per aver non perduto ma cambiato i suoi cari

Tu infatti, caro fratello, se hai perso persone care, ne hai trovate altre più care.

Ma a me misero, quale consolazione rimane ormai dopo di te, unico mio conforto?

Lo stare corporalmente insieme era cosa gradita a entrambi, poiché vi era la concordia dei costumi; ma la divisione ha ferito soltanto me.

Quello che piaceva era comune; resta unicamente mio quello che è triste e lugubre: su di me si è abbattuta l’ira, contro di me si è sfogato il furore.

Era dolce all’uno la presenza dell’altro, soave il nostro colloquio; ora quelle grandi delizie sono perdute per me, mentre invece tu le hai mutate con altre, e in questo scambio c’è stato per te un grande guadagno.

5. Con quale soprappiù di gioia e cumulo di benedizioni hai ora in cambio di me la presenza di Cristo, e associato ai cori degli angeli, non senti il distacco da noi.

Non hai perciò motivo di lamentarti perché ti sia stata sottratta la nostra presenza, dal momento che il Signore della maestà ti ha concesso di godere della sua e di quella dei suoi.

Ma io che cosa ho in cambio di te?

Come vorrei sapere che cosa tu pensi ora di me, immerso nelle preoccupazioni e nelle pene, privo di te che eri il bastone della mia debolezza!

Se tuttavia è ancora possibile pensare ai miseri per te che sei entrato nell’abisso della luce e sei assorto nell’oceano dell’eterna felicità.

Forse, infatti, anche se ci hai conosciuti secondo la carne, oggi non ci conosci più così, e poiché sei entrato nel possesso di Dio, ti ricordi soltanto più della sua giustizia scordandoti di noi.

Del resto, chi si unisce a Dio forma con lui un solo spirito e viene trasformato in un certo qual divino affetto; né ormai può più sentire o gustare altro che Dio e ciò che Dio sente e a lui piace, essendo pieno di Dio.

Ora, Dio è amore, e quanto più uno è unito a Dio, tanto più è pieno di carità.

Dio è anche impassibile, ma non privo di compassione, essendo proprio di lui aver sempre pietà e perdonare.

Perciò anche tu sei necessariamente misericordioso, essendo unito con Dio misericordioso, anche se ormai non sei più affatto misero e, pur se non patisci, tuttavia compatisci.

Così il tuo affetto non è diminuito, ma mutato; né per il fatto che ti sei rivestito di Dio, hai deposto il pensiero di noi: anche lui, infatti, ha cura di noi.

Hai rigettato le infermità, non la pietà.

E poi, la carità non viene mai meno: non ti dimenticare mai di me.

6. Mi sembra quasi di sentire il mio fratello dire: Può forse una madre dimenticare il frutto delle sue viscere?

E anche se quella se ne dimenticasse, io però non mi dimenticherò di te ( Is 49,15 ).

Non occorre affatto ( che me lo dica ).

Sai in quale stato mi trovo, dove giaccio, dove mi hai lasciato: non c’è chi mi dia una mano.

IV. Come Gerardo si offriva in ogni necessità per la tranquillità dell’abate

A ogni cosa che mi capita, cerco con gli occhi Gerardo, come era mia abitudine, e Gerardo non c’è.

Ahimè! Allora gemo miseramente, come un uomo privo di sostegno.

Chi consulterò nelle cose dubbie? Di chi mi fiderò nelle avversità?

Chi porterà i miei pesi? Chi terrà lontani i pericoli?

Non erano sempre gli occhi di Gerardo che precorrevano i miei passi?

Non è forse vero che il tuo cuore, più che il mio, conosceva le mie sollecitudini, e tu con maggiore facilità te le assumevi, portandone più di me il peso?

Non era forse la tua lingua, arrendevole e forte, che mi dispensava spessissimo dal parlare delle cose di questo mondo, e mi permetteva di starmene nell’amato silenzio?

Il Signore gli aveva dato una lingua erudita, perché sapesse quando doveva parlare.

E così, con la prudenza delle sue risposte e con la grazia che gli era data dall’alto dava soddisfazione alle persone dell’interno e a quelle di fuori, di modo che quasi nessuno che avesse per caso incontrato Gerardo aveva ancora bisogno di cercare me.

Ed egli andava incontro a chi veniva, impedendo che disturbassero direttamente la mia quiete.

Se non poteva da sé dare ad alcuni soddisfazione, li conduceva da me, mandando via gli altri.

O uomo saggio! O amico fedele!

Da una parte cercava di compiacere all’amico, e dall’altra badava a non venir meno al dovere della carità.

Chi andò via da lui con le mani vuote?

Se si trattava di un ricco, ne riportava un buon consiglio, se era un povero, un aiuto.

Non cercava il suo interesse lui che si accollava il lavoro perché io ne fossi sollevato.

Sperava infatti, poiché era umilissimo, di trarre maggior vantaggio dalla mia quiete che dal suo riposo.

Ogni tanto, tuttavia, chiedeva di essere dispensato da qualche compito perché ne fosse incaricato un altro che facesse meglio di lui.

Ma dove trovarlo? Né restava in quell’ufficio per un certo qual affetto disordinato, come capita spesso, ma solo per motivo di carità, in realtà egli lavorava più di tutti e riceveva meno di tutti, fino al punto che spesso, procurando agli altri il necessario, in molte cose egli ne restava privo, come, per esempio, quanto al cibo e al vestito.

E quando sentì avvicinarsi, la morte, « Dio – disse – tu sai che per quanto è dipeso da me, ho sempre desiderato cercare la quiete e occuparmi di te.

Ma ero costretto dal tuo timore, dalla volontà dei fratelli, dalla preoccupazione di obbedire e soprattutto dall’amore del mio abate e fratello ».

È così. Grazie a te, fratello, per tutto il frutto, se ce n’è stato, dei miei studi nel Signore!

A te devo il mio profitto, se ho profittato.

Tu ti sobbarcavi gli affari esterni, e io, reso libero per il tuo servizio, sedevo per pensare alle cose mie, o mi occupavo più liberamente nella lode divina, ovvero mi occupavo con maggiore utilità a preparare le istruzioni per i figli.

Come non sarei stato interiormente tranquillo, sapendo che tu badavi all’esterno, tu, mio braccio destro, luce dei miei occhi, mio cuore e mia lingua?

E il tuo era un braccio instancabile, il tuo occhio semplice, il tuo petto capace di consiglio, e la tua lingua proferiva la giustizia, come è scritto: La bocca del giusto esprime la sapienza e la sua lingua proclama la giustizia ( Sal 37,30 ).

V. Fervente nello spirito, industrioso nella vita pratica ha condiviso il peso dell’abate

7. Ma che ho detto circa l’attività esterna di Gerardo, quasi che egli ignorasse le cose interne e fosse privo dei doni spirituali?

Lo sanno le persone spirituali che lo conobbero quanto le sue parole sapessero di spirito.

Lo sanno i confratelli come la sua condotta e i suoi sentimenti non fossero secondo la carne, ma ferventi di spirito.

Chi più rigido di lui nell’osservanza della disciplina?

Chi più duro nel castigare il corpo, più elevato nella contemplazione, più sottile nella discussione?

Quante volte, ragionando con lui, ho imparato quello che non conoscevo, e io che ero venuto per insegnare, me ne tornavo maggiormente istruito!

E non fa meraviglia che ciò sia capitato a me, mentre uomini grandi e sapienti attestano che la stessa cosa hanno sperimentato con lui.

Non conosceva la letteratura, ma ebbe il senso che ha inventato le lettere, ebbe anche lo Spirito illuminante.

E non solo nelle grandi cose, ma anche nelle minime egli era massimo.

La sua perizia, per esempio, si estendeva dagli edifici ai campi, agli orti, alle acque, insomma a tutte le arti od opere agresti.

Era facilmente maestro ai muratori, ai fabbri, agli agricoltori, agli ortolani, ai calzolai, ai tessitori.

E mentre a giudizio di tutti era il più sapiente, egli solo ai suoi occhi non era sapiente.

Dio volesse che a molti, anche meno sapienti, non convenisse quella maledizione: Guai a voi che siete sapienti ai vostri occhi ( Is 5,21 )!

Parlo a voi che conoscete queste cose, e ne sapete di lui anche molte di maggiori.

Ma non vado oltre, perché è mia carne e mio fratello.

Aggiungo tuttavia questo con sicurezza: mi fu utile in tutto e più di tutti: utile nelle piccole cose e nelle grandi, nelle private e nelle pubbliche, al di fuori e dentro.

Giustamente dipendevo tutto da lui che era per me tutto.

A me lasciava quasi solo il nome e l’onore di provveditore, poiché tutto il lavoro lo faceva lui.

Io ero chiamato abate, ma egli presiedeva con sollecitudine.

A ragione riposava in lui il mio spirito, poiché, grazie a lui, mi era consentito di gustare le dolcezze del Signore, predicare più liberamente, pregare più sicuramente.

Grazie a te, dico, caro fratello; avevo la mente libera e una gradita tranquillità, era più efficace il mio discorso, più intensa la mia orazione, più frequente la lettura, più fervido l’affetto.

8. Ahimè! Tu mi sei stato tolto, e con te ho perduto tutte queste cose.

Con te sono sparite le mie delizie e la mia letizia.

Già irrompono le preoccupazioni, le molestie degli affari premono di qua e di là, e le angustie da ogni parte mi trovano solo, sono rimaste solo per me con la tua dipartita; e solo gemo sotto il grave peso.

Tu hai sottratto le tue spalle, non resta che ritirarmi, o essere oppresso.

Chi mi darà di morire presto dopo di te?

Non dico: invece di te, perché non vorrei privarti della tua gloria.

Ma sopravvivere a te è fatica e dolore.

Vivrò, finché vivrò, nell’amarezza, vivrò nella tristezza: e questa sia la mia consolazione, che sia afflitto nel dolore.

Non mi risparmierò, aiuterò la mano del Signore, perché la mano del Signore mi ha percosso ( Gb 19,21 ).

Ha toccato e percosso me, non lui che ha chiamato al riposo: ha ucciso me portando via lui.

Si potrebbe chiamare forse ucciso lui che è stato trapiantato nella vita?

Ma quella che per lui è stata la porta della vita, per me è davvero morte, e di questa morte direi morto me stesso, non lui che si è addormentato nel Signore.

Piangete, occhi miei, uscite, lacrime già da tempo desiderose di sgorgare; uscite, perché colui che ve lo aveva impedito è andato via.

Si aprano le cateratte del misero mio capo ed erompano le fonti delle acque, perché lavino, se bastano, le macchie delle colpe, per cui ho meritato l’ira ( divina ).

Quando il Signore si sarà consolato per me, allora forse anch’io meriterò di essere consolato, se tuttavia non cesserò di affliggermi: poiché sono quelli che piangono che saranno consolati.

VI. Come sia da giudicare questo suo lamento sul fratello

Per questo mi scusino i santi, e in spirito di compassione, quelli che sono spirituali sopportino il mio lamento.

Il mio lutto venga valutato, di grazia, non come espressione di un’usanza, ma di affetto umano.

Vediamo infatti ogni giorno dei morti, che piangono i morti: molte lacrime e nessun frutto.

Non rimproveriamo l’affetto, tranne quando eccede la misura, ma la causa.

L’affetto infatti è della natura e il suo turbamento è pena del peccato.

La causa invece sovente è vanità e peccato, quando cioè si piangono solamente i danni della gloria della carne e gli incomodi della vita presente.

Quelli che piangono così sono veramente da compiangere.

Piango anch’io così? Simile è il mio affetto, ma diversa e dissimile l’intenzione.

Non mi lamento affatto di tutte le cose del mondo.

Ma riguardo alle cose di Dio, soffro perché mi fu tolto un fedele aiutante, un saggio consigliere.

Piango Gerardo: si tratta di Gerardo, mio fratello per la carne, ma legato a me per lo spirito, compagno di ideali.

9. L’anima mia aderiva all’anima di lui e di due ne aveva fatta una sola, non la consanguineità, ma la concordia.

Non mancò il legame della carne, ma ci unì maggiormente la società dello spirito, il consenso degli animi, la conformità dei sentimenti.

Mentre eravamo un cuor solo e un’anima sola, una spada trapassò la mia e la sua anima, e dividendo il tutto in due parti, ne collocò una metà in cielo, e abbandonò l’altra parte nel pantano.

Io, sono io quella misera parte che giace nel fango, troncata della parte di sé, la parte migliore, e mi si dice: « Non piangere »?

Mi sono state strappate le viscere, e mi si dice: « Sii insensibile »?

Sento, sento, anche se non voglio, perché il mio cuore non è duro come la pietra, né la mia carne è di bronzo; sento e soffro grandemente e il mio dolore mi sta sempre davanti.

Non mi potrà rimproverare di durezza e di insensibilità colui che mi percuote, come coloro di cui è detto: Li ho percossi, e non hanno sentito dolore ( Ger 5,3 ).

Ho confessato il mio affetto e non l’ho negato.

Si dirà che è carnale? Io non nego di essere umano, né di essere uomo.

Se non basta, non negherò neppure di essere carnale.

Anch’io sono tale, venduto sotto il peccato, destinato alla morte, soggetto alle sofferenze e alle pene.

Non sono insensibile, lo confesso, al dolore: ho orrore della mia morte e di quella dei miei.

E il mio Gerardo era veramente mio.

Non era forse mio fratello per il sangue, figlio per la professione, padre per la sua sollecitudine, consorte per lo spirito, amico intimo per l’affetto?

Egli è partito da me, lo sento, ne sono ferito e gravemente.

10. Perdonate, o figli, anzi, se siete figli compatite la sorte del vostro padre.

Abbiate pietà di me, almeno voi, miei amici, che considerate quale grave punizione ho ricevuto dalla mano del Signore per i miei peccati.

Mi ha percosso con la verga del suo sdegno, degnamente, secondo come meritavo, ma duramente per le mie forze.

Chi potrà dire che non è gran cosa per me vivere senza Gerardo se non chi ignora che cosa era per me Gerardo?

Tuttavia non contraddico alle parole del Santo, né critico il giudizio per il quale ognuno di noi due ha ricevuto quello di cui era degno: egli la corona che ha meritato, e io la debita pena.

Forse per il fatto che sento la pena non approvo la sentenza?

Umano è il sentire, criticare sarebbe empio.

È umano, dico, essere sensibili rispetto alle persone care e godere quando sono presenti e soffrire per la loro assenza.

Non lascia indifferenti il vivere familiarmente insieme, specialmente tra amici, e come fosse forte il mutuo affetto quando si era insieme, lo indica lo strazio della separazione e il dolore che, una volta separati, si sente vicendevolmente.

VII. La sua morte

Piango su di te, o carissimo Gerardo, non perché sei da rimpiangere, ma perché mi sei stato tolto.

E perciò dovrei piuttosto piangere su di me che bevo il calice dell’amarezza: tu invece no.

Solo io soffro quello che sogliono patire parimente quelli che si amano quando si lasciano.

11. Dio voglia che non ti abbia perduto, ma che ti abbia mandato innanzi.

Dio voglia che, anche se tardi, un giorno ti segua dovunque sarai andato!

Non vi è dubbio infatti che tu sei andato tra coloro che, verso la metà dell’ultima notte, tu invitavi alla lode, quando, con il volto e la voce esultanti, hai intonato quel versetto di Davide tra lo stupore degli astanti: Lodate il Signore dai cieli, lodatelo dall’alto dei cieli ( Sal 148,1 ).

Già per te, fratello mio, pur essendo ancora mezzanotte, si faceva giorno, e la notte si rischiarava come giorno.

Davvero quella notte ti illuminava nelle tue delizie.

Fui chiamato per vedere questo miracolo: un uomo che, stando per morire, esultava e insultava la morte.

Dov’è o morte la tua vittoria? Dov’è o morte il tuo pungiglione? ( 1 Cor 15,55 ).

Non più pungiglione, ma giubilo.

Ormai l’uomo muore cantando, e morendo canta.

Servi ora a dare gioia, o madre della tristezza, servi alla gloria, o nemica della gloria; servi all’ingresso nel regno, o porta degli inferi, e fai trovare la salvezza o fossa di perdizione, e questo a un uomo peccatore.

Ed è giusto, perché tu hai temerariamente usurpato il potere su di un uomo innocente e giusto.

Sei morta, o morte, e perforata dall’amo che incauta hai abboccato, del quale sono riferite nel Profeta queste parole: O morte, io sarò la tua morte, sarò il tuo sterminio o inferno ( Os 13,14 ).

Perforata, dicevo, da quell’amo, offri un largo e lieto passaggio alla vita ai fedeli che passano attraverso di te.

Gerardo non ha paura di te, figura spettrale.

Gerardo attraverso le tue fauci passa alla vita, non solo sicuro, ma lieto e con il canto di lode sulle labbra.

Quando arrivai, lo udii che terminava con chiara voce le ultime parole del salmo, sospirando verso il cielo, e disse: « Padre, nelle tue mani affido il mio spirito » ( Lc 23,46 ).

E ripetendo le stesse parole e dicendo frequentemente: « Padre, Padre », rivolto a me con faccia sorridente: « Quanta degnazione da parte di Dio », disse, « di essere Padre degli uomini!

Quanta gloria per gli uomini essere figli di Dio, essere eredi di Dio! Poiché, se figli si è anche eredi ».

Così cantava colui che noi piangiamo: e in questo, lo confesso, poco è mancato che mutasse in canto anche il mio lutto, mentre, intento alla sua gloria, quasi dimentico la mia miseria.

12. Ma mi richiama a me stesso il dolore pungente e la stringente ansietà mi scuote facilmente da quel sereno sguardo, come se mi risvegliasse da un sonno leggero.

Piangerò pertanto su di me, perché la ragione vieta di piangere su di lui.

Penso che se ne avesse il modo, ci direbbe adesso: Non piangete su di me, ma su di voi stessi ( Lc 23,28 ).

VIII. Sull’esempio di Davide, di Samuele, di Cristo Signore scusa il suo affetto

Pianse giustamente Davide sul figlio parricida, al quale, per l’enorme delitto sapeva essere preclusa in eterno l’uscita dal ventre della morte.

Giustamente pianse su Saul e sopra Gionata, per i quali, una volta assorbiti dalla morte, non si sperava più in un ritorno.

Risorgeranno, ma non per la vita, anzi, alla vita, ma per morire più infelicemente, vivi nella morte, sebbene per Gionata ci possano essere dubbi.

Io non ho un tale motivo di piangere, quantunque un motivo ci sia anche per me.

Piango prima per la mia ferita e per la perdita della nostra casa; piango poi sulle necessità dei poveri, per i quali Gerardo era un padre; piango anche su tutto lo stato del nostro Ordine e della nostra professione che dal tuo zelo, o Gerardo, dal tuo consiglio ed esempio prendeva notevole forza; piango infine, anche se non su di te, ma tuttavia per te.

La causa profonda del mio grande dolore è perché grande è il mio amore per te.

E nessuno mi molesti col dire che non bisogna affliggersi tanto, mentre il benigno Samuele e il pio Davide hanno pagato il tributo del loro affetto, per il re riprovato e per il figlio parricida senza far torto alla fede, né recare insulto al superno giudizio.

Assalonne figlio mio, mio figlio Assalonne, diceva Davide; ed ecco qui uno più grande di Assalonne.

Anche il Salvatore, vedendo la città di Gerusalemme e prevedendone la rovina, pianse su di essa.

E io sarò insensibile alla mia desolazione che soffro al presente?

Non dovrei soffrire per una piaga recente e grave?

Egli pianse, per la compassione, e io che patisco non oso farlo?

E certamente al sepolcro di Lazzaro non vietò di piangere, anzi, pianse anche lui con quelli che piangevano: E Gesù pianse, dice il Vangelo ( Gv 11,35 ).

Quelle lacrime indicavano la natura, non la mancanza di fede.

E poi, alla sua voce, subito venne fuori colui che era morto, onde tu non pensassi l’affetto di chi lo piangeva come mancanza di fede.

13. Così neanche il nostro pianto è segno di poca fede, ma indice della nostra condizione; né, perché percosso, piango, accuso chi mi ferisce, ma ne provoco la pietà, cerco di piegarne la severità.

Perciò le mie parole sono piene di dolore, non di mormorazione.

Non ho forse reso pieno omaggio, alla giustizia, dicendo che con l’esecuzione di un’unica sentenza è stato punito chi era colpevole e coronato chi lo meritava?

E lo dico ancora. Ha fatto bene l’una e l’altra cosa il dolce e retto Signore.

Misericordia e giustizia canterò a te, o Signore ( Sal 101,1 ).

Canti a te la misericordia che hai usato con il tuo servo Gerardo, ti canti anche la giustizia che noi sopportiamo.

In una cosa sarai lodato come buono, nell’altra come giusto.

Merita forse lode la sola bontà? La merita anche la giustizia.

Giusto sei, o Signore, e retto è il tuo giudizio ( Sal 119,137 ).

Tu ci avevi dato Gerardo, tu ce lo hai tolto: e se siamo dolenti perché ce lo hai tolto, non dimentichiamo tuttavia che ce lo avevi dato, e ti ringraziamo perché abbiamo meritato di averlo, e se non ci rassegniamo a essere senza di lui, è perché ne sentiamo il danno.

14. Ricorderò, o Signore, il mio patto e la tua misericordia, affinché tu appaia maggiormente giusto quando parli e retto nel tuo giudizio.

Quando l’anno scorso eravamo a Viterbo a motivo della Chiesa, Gerardo si ammalò, e aggravandosi il male, sembrando egli ormai vicino alla fine, rincrescendomi grandemente di perdere in terra straniera il mio compagno, e un tale compagno, senza poterlo riconsegnare a coloro che me lo avevano affidato, poiché era amato da tutti, siccome era molto degno di essere amato, rivoltomi al Signore con pianto e gemito nella preghiera, dissi: « Aspetta, o Signore, fino al ritorno.

Una volta restituito ai confratelli, prendilo, se vuoi, e non mi lamenterò ».

Tu mi hai esaudito, o Dio: egli guarì, portammo a termine quanto ci avevi ordinato, e tornammo esultanti, portando i nostri manipoli di pace.

Ora mi ero quasi dimenticato del mio patto, ma tu no.

Mi vergogno di questi singulti che mi rimproverano di prevaricazione.

Che più? Hai richiesto colui che ti avevo rimesso, hai ricevuto il tuo.

Le lacrime pongono fine al sermone; tu, o Signore, poni a esse un fine e una misura.

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