Patologia
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I - Patologia della colpevolezzaIl peccato, l'offesa fatta a Dio, è senza dubbio un problema religioso che esige una soluzione religiosa1 [ v. Peccatore/Peccato ]. Ma il vissuto di peccato2 è anche un problema psicologico: è perciò necessario che l'indagine psicologica muova proprio dal suo significato di esperienza fondamentalmente religiosa. Se si nega a priori il fatto religioso riducendolo a fenomeno psichico, il peccato non è più comprensibile. Se poi, in funzione tranquillizzante, si riduce ogni comportamento ai dinamismi dell'inconscio e si priva l'uomo « del suo carattere personale innalzandolo nelle sfere delle necessità impersonali, si rende impossibile anche l'esperienza individuale della colpa, e la tensione di una azione e di un'esperienza etica e personale va smarrita »3 Nessuno ovviamente esclude che esista una colpevolezza patologica, ma il senso del peccato è una componente fondamentale della coscienza religiosa e come tale va interpretato. Sia ben chiaro che non si tratta di tradurre in termini psicologici un discorso di teologia, ma di indicare alcune analogie tra i dati della psicologia e le verità teologiche, senza confusione tra i diversi ordini di sapere. La consapevolezza di aver peccato o di poter peccare è sempre dipendente da un giudizio sulla moralità dell'azione compiuta o da compiere. Analogamente la profonda convinzione di essere peccatore è legata alla visione dell'uomo e della vita, maturata nel corso della propria esperienza esistenziale. La coscienza di peccato dipende dalla struttura della coscienza morale e la malattia mentale, intesa in senso lato, alterando la coscienza morale, può portare alla formazione di una colpevolezza ingiustificata o, al contrario, impedire la formazione di giudizi morali e qualsiasi risonanza sul piano etico. 1. Esperienza dell'obbligo ed esperienza del valoreLa coscienza morale non è diversa dalla coscienza psicologica: ne è piuttosto una specificazione o, meglio, il coronamento, senza con questo voler significare che l'ordine psicologico coincide con quello etico. La coscienza psicologica può essere intesa quale consapevolezza dei contenuti psichici. Essa però non si comporta mai passivamente poiché elabora i dati dell'esperienza. La sua funzione squisitamente organizzatrice interessa tutta l'esistenza, in quanto per essa l'uomo è, al tempo stesso, ricordo e progetto.4 Facendosi tutta intera riflessione sui valori morali, la coscienza psicologica si fa coscienza morale. Come la coscienza psicologica, la coscienza morale è creatività; invenzione e organizzazione dei valori. Infatti non siamo semplicemente attratti dal valore, ma al suo dinamismo attivamente partecipiamo. La coscienza morale si esprime, in definitiva, in un atto di giudizio sul valore morale dell'azione, ma è un giudizio che presuppone un'esperienza. D'altra parte, il senso del peccato è sì consapevolezza del male, e dunque conoscenza, ma una conoscenza che non può essere confinata, in quanto profondamente vissuta, nell'ambito della pura razionalità, e che si radica invece profondamente nell'esperienza endotimica. L'esperienza etica è quella di un obbligo che si impone all'azione. Ma non di un obbligo qualsiasi; non, per es., di un obbligo di natura tecnica, che risiede nell'atto stesso e per cui questo non può essere compiuto se non in un determinato modo. L'obbligo morale non viene colto direttamente nell'oggetto; pretende, al contrario, che l'oggetto si conformi all'ideale incondizionato che esso propone.5 L'esperienza dell'obbligo non è però ancora esperienza del valore: quest'ultima richiede una consapevolezza che la prima ignora. Ma anche quando il giudizio di valore viene dato sulla base di una conoscenza acquisita razionalmente, esso ci appare sostenuto da una originaria esperienza dell'obbligo, da una precedente conoscenza irrazionale. Se ben consideriamo, anche le tendenze istintive hanno carattere imperativo in vista di una finalità da raggiungere, presuppongono pertanto l'esperienza di un obbligo. Quest'obbligo e questa finalità hanno valore assoluto per gli animali, ma sempre più relativo per l'uomo a mano a mano che egli evolve nel suo sviluppo. Lo stesso può dirsi degli imperativi sociali, a cominciare da quelli che sono rappresentati dalla autorità paterna. L'uomo, strutturandosi consapevolmente come essere morale, può anche non tener conto, per un bene più grande, di ciò che natura e società propongono ( di ciò che natura e società impongono all'essere meno evoluto ); ma anche le più mature esperienze etiche si fondano su quelle originarie dell'obbligo. Vale a dire: all'inizio dello sviluppo umano esistono bisogni profondi ( dal bisogno alimentare al bisogno d'amore ) che richiedono imperiosamente di essere soddisfatti per il raggiungimento di una finalità naturale inconscia e in vista di ciò l'uomo subisce passivamente una disciplina, rifiuta altri contenuti, rimanda soddisfazioni diverse.6 Ma quanto più l'uomo diventa consapevole del valore, tanto più supera l'esperienza dell'obbligo, la quale tuttavia rimane fondamento della sua costruzione etica, già originariamente gravata in qualche modo dalla colpevolezza.7 La colpevolezza, infatti, è la tensione tra l'essere e il dover essere, il disagio prodotto dal mancato ossequio ad una legge. Non intendiamo certo parlare di una legge puramente esteriore all'io, la quale può solo ingenerare sentimenti di angoscia o di paura, ma non di colpa. Se esistono vissuti di colpa è perché la legge è inerente all'io, ne fa parte integrante, sia che provenga dalla profondità del nostro essere, sia che costituisca ( come il super-io freudiano ) il prodotto di un processo inconscio di interiorizzazione, sia che rappresenti un principio creativamente fatto nostro e consapevolmente operante. Certo, la colpevolezza è sempre di fronte ad un tu, ma è un tu divenuto in qualche modo parte di noi stessi. Ciò tanto più vale se dal vissuto di colpa passiamo al vissuto di peccato. Morale dell'obbligo, dunque, e morale del valore. Il filosofo Bergson parla di morale chiusa e di morale aperta; statica l'una, dinamica l'altra. La prima, che è quella a cui si pensa abitualmente quando ci si sente naturalmente obbligati, è fondata sulla società; la seconda è più propriamente umana: essa si realizza quando lo slancio vitale, nella sua incontenibile propulsione, si incarna in certi individui e questa emozione spirituale, propriamente creatrice, li affranca dai condizionamenti sociali aprendoli alle intuizioni dell'amore.8 Anche la psicanalisi tratta del rapporto dell'individuo con la società; ma Freud, avendo costruito tutta la morale sul super-io, erede del complesso di Edipo, si è fermato alla pre-morale dell'obbligo, ad un imperativo categorico che sorge dall'oscurità dell'esperienza infantile.9 Tuttavia i tipi caratterologici derivati dall'indagine psicoanalitica ci permettono di individuare diversi atteggiamenti etici dei quali viene data spiegazione sul piano dinamico: la progressione dall'oralità alla genitalità comporta l'acquisizione di una dimensione oblativa, il cui significato oltrepassa la sfera della sessualità e può non essere confinato nel regno dell'inconscio.10 Ch. Baudouin,11 nel suo tentativo di conciliare Freud e Jung, ci offre un modello interpretativo più convincente quando afferma che ogni istanza della personalità ha la sua "morale". Ciò vale anche per le istanze più profonde ( l'automa e il primitivo ) tanto che, se queste non vengono soddisfatte, si verifica nel bambino un certo disagio, una tensione tra l'essere e il dover essere, prima grossolana espressione di un sentimento di colpa. Quando, verso il terzo anno di vita, la costrizione sociale si fa sentire, sorge l'istanza della persona ( nel senso latino di maschera o personaggio ), nata dalla tendenza all'imitazione e dal desiderio di essere conformi all'opinione che gli altri si fanno di noi: il conformismo è proprio l'imperativo "morale" di questa istanza. L'io si sforza di risolvere l'opposizione tra le istanze istintive e quelle della persona, reprimendo quanto non è socialmente accettabile. Ma poiché i contenuti rifiutati ( l'ombra ) tendono a venire a galla portando con sé l'angoscia, l'io si rivolge all'autorità del super-io. Questo ha inizialmente carattere autoritario e minaccioso; quando però da oppressore diventa guida, si trasforma in ideale dell'io, il sé ( Selbst ) di cui parla Jung. L'io è allora abbastanza forte da recuperare gli elementi rifiutati dalla persona e repressi dal super-io. Il processo termina con il raggiungimento dell'autonomia da parte dell'io, ma sarebbe un processo pericoloso se si svolgesse senza guida e senza controllo, cioè senza l'intervento del super-io. Mentre la morale della persona è la morale dei farisei ( la morale del conformismo ) e quella del super-io è la morale degli scribi ( cioè della semplice osservanza della legge ), la morale dell'ideale dell'io è la morale aperta di cui parla Bergson. Ma ogni tappa è necessaria: « L'autonomia del sé ci viene promessa come una ricompensa e un fine, che corona i germogli inferiori ma necessari della persona e del super-io ».12 L'esperienza dell'obbligo è dunque solo un momento del maturare della coscienza morale, la quale del resto contraddice se stessa se è oscura e passiva. In realtà la coscienza morale è creatività ed espone al rischio dell'ansia, di una tensione che si rinnova in un processo dialettico che pone continuamente le sue tesi e le sue antitesi: la pace è solo nel momento sintetico, nel recupero di quanto in un primo tempo si è dovuto rifiutare.13 Il processo sintetico e di integrazione può, per cause patologiche, presentare delle stasi o subire delle regressioni: è ciò che possiamo chiamare destrutturazione della coscienza morale. Ma anche al di fuori di immaturità o malattie mentali, in condizioni psicologiche particolari, possono comparire difficoltà che riguardano la vita morale. Il senso di responsabilità, di essere gli artefici del proprio destino, si accompagna al senso di colpevolezza e quando l'io, nel suo momento adolescenziale o in qualsiasi altro momento di crescita, anche dell'età adulta, cerca di cogliere la propria originalità, svincolandosi dai vari condizionamenti che lo trattengono a livelli inferiori di sviluppo, è gravato da un oscuro senso di colpa, quasi venisse meno ad un obbligo, ad un dovere. Ciò è anche meglio avvertito in certe crisi di perfezionamento spirituale: si pensi agli scrupoli di s. Teresa d'Avila o di s. Ignazio di Loyola. Perché questo senso di colpa, se si tratta di attingere un più alto grado di vita morale? Perché in realtà "si disobbedisce" alla regola generale, cioè a quella premorale che l'esperienza dell'obbligo ci aveva fatto acquisire in maniera passiva. E, per così dire, la "trasgressione" a ciò che è impersonale in vista di ciò che è personale, l'assunzione piena della propria responsabilità, superando la protezione, tranquillizzante ma "castratrice", di una legge imposta.14 2. Vissuto di colpa e vissuto di peccatoIl vissuto di colpa rivela all'indagine fenomenologica almeno tre componenti: coscienza della colpa, rimorso, pentimento. Può riferirsi alla tematica del presente, essere cioè la risposta ad un particolare accadimento, oppure alla tematica del passato, essere cioè la risultante, quasi la sedimentazione, di un'esperienza esistenziale. Nel primo caso è più accentuato il carattere di emozione del contenuto di coscienza; nel secondo quello di sentimento. Ma sempre è implicito un giudizio da parte dell'uomo sulla propria responsabilità; sia che si tratti - come scrive Hafner - di una « colpa effettiva », sia che si tratti di una « colpa esistenziale, fondata sul fatto che l'uomo maturo e indipendente si riconosce responsabile anche di ciò che ha fatto della propria vita ».15 La coscienza di colpa, dunque, riguarda direttamente il singolo, la sua responsabilità; si riferisce all'offesa di un valore causata da lui. Tale contenuto si pone in via immediata, non è cioè frutto di riflessione ed ha il carattere dell'evidenza; non si lascia discutere. Il soggetto sente di essere di fronte ad un giudice e di essere "solo" di fronte a questo giudice. La condanna che riceve del suo operato ha quasi una connotazione di sensorialità, tanto che nel linguaggio comune si parla di "voce" della coscienza. Una voce di cui l'io non è padrone e dalla quale anzi si sente agito. Il disagio che di regola, ma non necessariamente, si accompagna alla coscienza di colpa viene denominato in vario modo: dispiacere, rimorso, pentimento. In realtà è necessario distinguere, poiché il semplice dispiacere per le conseguenze della colpa è cosa ben diversa dal rimorso che si pone su di un piano morale. In un'indagine più approfondita possiamo cogliere l'ambivalenza che caratterizza il comportamento dell'io di fronte a questa angoscia.16 Può esserci dapprima un tentativo di fuga dalla responsabilità: una fuga in senso psichico, che si realizza in qualche reazione di difesa,17 ed eventualmente anche in senso fisico, dal luogo o dalle persone. Poi la coscienza morale esige un movimento di ritorno che si esprime non solo nel bisogno di riparazione del danno inferto ma anche di espiazione: di qui i comportamenti di autoaccusa e di autopunizione che possono sconfinare nel patologico. È il rimorso che mette continuamente la colpa al fuoco della coscienza; mentre il semplice disagio, per le conseguenze che la colpa comporta, suscita più facilmente dei meccanismi di difesa. Il sentimento di colpa in generale, e particolarmente il rimorso, va inteso come un segnale di, fronte al pericolo. Ha sul piano psichico la stessa funzione che fatica o dolore hanno sul piano fisico. Ne deriva quanto sia errato, al fine di una malintesa psicoterapia, togliere insieme con il sentimento morboso di colpevolezza anche i giustificati sentimenti di colpa. Il pentimento, al pari del rimorso, presuppone una coscienza di colpa, e quindi in qualche modo un giudizio, ma questo è rivolto più al soggetto dell'azione che non all'azione stessa e il sentimento, che solitamente vi è connesso, si riferisce appunto al valore individuale: ciò che è in discussione nel pentimento è la tematica dell'autovalorizzazione. Scheler, citando Schopenhauer, nota che la più profonda posizione di pentimento non è espressa dalla formula: «Ahi, cosa ho fatto! », bensì dalla formula radicale: « Ahimè, che uomo sono! ».18 E Lersch spiega che quando l'atto compiuto suscita dispiacere per le conseguenze che ne possono derivare, non si tratta di pentimento ma di un'irritazione verso se medesimo che ha il suo fondamento nella delusione dell'egoismo, della smania di potere o del bisogno di essere stimato; il vero pentimento si riferisce all'autostima e non alla stima da parte degli altri: l'io sente di aver mancato alle possibilità del proprio valore.19 Ma questo non è tutto. « Quanto più il pentimento si sposta dal semplice pentimento di azione al pentimento d'essere, tanto più afferra la riconosciuta colpa alla radice, per scacciarla dalla persona e ridare con ciò a questa la sua libertà verso il bene ».20 Il pentimento dunque non è semplice disagio o sentimento di colpa, che deriva dalla consapevolezza dell'azione riprovevole compiuta o della vita mancata. E nemmeno è proposito di riparazione, la quale può essere impossibile. È piuttosto riflessione e volontà di rinnovamento. L'aspetto emozionale, senza dubbio importante, non è essenziale al pentimento. « Pentirsi significa anzitutto, nel piegarsi su di una parte passata della nostra vita, imporle un nuovo senso e un nuovo valore parziale ».21 Si comprende allora come i superbi siano scarsamente capaci di pentimento, per il quale è invece necessario un atteggiamento di umiltà. Naturalmente anche il pentimento espone al rischio dell'ansia, ma è un'ansia per così dire produttrice e non distruttrice, integrata appunto nella volontà di rinnovamento. Ciò non ha nulla a che vedere con l'esperienza morbosa della colpa, espressione di una coscienza che resta, malgrado tutto, attaccata a valori esteriori, prigioniera di un esasperato egocentrismo.22 « Di una cosa possiamo essere certi: che solo quando la paura e l'ansia della colpa conscia sono cancellate dalla dimenticanza o dall'amore possiamo evitare gli effetti psicologici negativi ».23 Il senso del peccato ha in comune con ogni altro vissuto di colpa questi caratteri formali e di contenuto; ma la prospettiva religiosa conferisce alla colpevolezza una dimensione affatto peculiare: quella dell'offesa fatta a Dio; un'offesa che rompe un legame; che pone un'inimicizia poiché il valore offeso è personale, è un Tu. Il tema dell'inimicizia del peccatore verso Dio ricorre lungo tutta la storia delle religioni; non soltanto di quelle storiche ma anche di quelle primitive. Gli è che il peccato non può apparire alla coscienza religiosa come una semplice disobbedienza alla legge, ma come un'opposizione a Dio. Esiste cioè un legame essenziale tra il senso di Dio e il senso del peccato.24 Quanto più alto è il senso di Dio, quanto più profonda è la fede nella sua santità, tanto più il soggetto esperisce la propria colpevolezza. Ciò può avvenire anche indipendentemente dal compimento di una particolare azione peccaminosa. È allora la presa di coscienza di essere peccatore di fronte a colui che è santo. È l'espressione dell'incolmabile distanza tra Dio e l'uomo, tra l'assoluta sacralità del creatore e la totale profanità della creatura ( Sal 51,7; Sal 30,3 ). È la situazione dell'uomo « venduto al potere del peccato » di cui parla s. Paolo ( Rm 7,14).25 È in definitiva l'angoscia di Lutero e di Kierkegaard quando la fede in Cristo non sovvenga a riscattarla.26 L'angoscia che si accompagna al vissuto di peccato è espressione del senso di abbandono in cui la colpa ha gettato l'uomo e del fatto di essersi costituito oggetto della collera di Dio. Sia ben chiaro che non si tratta semplicemente della paura del castigo, ma della perdita dell'amore di Dio. Vale la pena di notare che siamo qui di fronte ad un meccanismo di difesa, in quanto l'uomo riferisce a Dio ciò che è azione propria, "proietta" cioè su Dio, riferendolo a lui, il proprio abbandono. Senza dubbio questo fatto può essere fonte di aggressività non soltanto verso gli altri ma anche verso se stesso. Resta comunque la consapevolezza che il legame, quello da cui la religione trae il suo senso etimologico, è spezzato. L'uomo è davvero solo; il peccato ha scavato un abisso ( Is 59,2; Gb 19,13-22 ) nei riguardi del Tu divino ed anche di qualsiasi altro tu. L'interferenza del peccato nelle relazioni interpersonali - a cominciare da quella con Dio - meriterebbe uno studio più approfondito. L'esame di soggetti melancolici ci offre la caricatura patologica di una esperienza che è bene avvertita dall'uomo religioso. « Chi è gravato dal sentimento di colpa in pari tempo accede ad un'esperienza di devalorizzazione in quanto si sente impedito ad attuarsi in coesistenza… I diversi tu gli si allontanano in una lontananza che li rende in un certo senso anonimi… Anche Dio infatti nel vissuto delirante di colpevolezza si allontana e diventa irraggiungibile ».27 Ma la coscienza dell'inimicizia verso Dio e il senso di essere da Dio abbandonato è solo un momento dell'esperienza religiosa della colpa. « Il meraviglioso segreto della colpevolezza, del peccato, dell'inimicizia verso Dio, è che in essi l'uomo scopre Dio ».28 Non il peccato, ma la consapevolezza di averlo commesso pone bruscamente l'uomo di fronte a Dio, in quanto sente di averlo offeso. Ecco il pentimento: « Il mio peccato, io lo riconosco; il mio errore mi è sempre dinanzi: contro Te, contro Te solo ho peccato » ( Sal 51,5-6 ).29 Il lamento di Davide pone il primo termine di quel processo dialettico che porta l'uomo a riconciliarsi con Dio. La colpevolezza emozionale può perdurare; ma il pentimento è atto della volontà e ciò che è messo in discussione è la volontà stessa. S. Tommaso distingue bene, a proposito della contrizione, il dolor in parte sensitiva, che è passione, e il dolor in voluntate, che è virtù.30 Si tratta di quella virtù della penitenza che segna la radicale distinzione tra l'esperienza cristiana e qualsiasi altra esperienza di colpevolezza. Naturalmente l'io può opporre resistenza al Dio che si rivela. È l'atto d'orgoglio da parte dell'uomo che considera viltà l'arrendersi all'amore di Dio, quando addirittura non s'inebria del suo peccato, considerandolo espressione della propria libertà. Comprendiamo allora come il pentimento acquisti il suo pieno significato proprio sul piano religioso. Una colpa "laica", un semplice errore di comportamento, esige tutt'al più di essere riparato; un peccato deve essere perdonato; il primo è un fatto esteriore, il secondo appartiene all'uomo come una qualità negativa, espressione di una volontà di opposizione al disegno di amore di Dio.31 Ogni processo di pentimento, se autentico, è una crisi di identità personale: si tratta di togliere quel principio di opposizione, quella volontà di peccato che si annida nel cuore dell'uomo.32 Come ogni altro atto di pentimento anche la contrizione espone l'uomo al rischio dell'ansia poiché presuppone la consapevolezza della propria condizione di peccatore ed esprime il rinnegamento di sé. E come ogni altro atto di pentimento, anche la contrizione organizza quest'ansia in una volontà di rinnovamento.33 Ma il processo avviene in maniera più radicale: pentirsi sul piano religioso significa credere in Dio e non nella propria sufficienza: lasciarsi vincere dal suo amore. È in definitiva questo atto di fede nell'amore di Dio che ci salva dall'angoscia del peccato e assicura la conversione.34 Il mysterium iniquitatis trova la sua soluzione non nell'angoscia ma nel pentimento. L'angoscia, nata dalla coscienza di colpa, per se stessa porta alla disperazione: l'avventura di Giuda è in proposito una esemplificazione drammatica. Il pentimento, nato dalla fiducia in Dio, riscatta la colpa e apre la via della salvezza.35 Per la coscienza religiosa è questo davvero un momento di grazia: è un ritrovarsi nell'abbraccio di Dio. Come ogni altra esperienza religiosa anche quella del pentimento ha il carattere della gratuità: « In principio questo moto d'amore ci parve amore nostro. Poi vedemmo che era già amore corrisposto ».36 3. Lo scrupolo e il delirio di colpaDefinire lo scrupolo non è facile. È un dubbio, dicono i tomisti; non un dubbio ma un timore, scrive Rosmini. E allora? Malattia dell'intendere o malattia del sentire? L'una e l'altra insieme. Qualsiasi dubbio infatti è al tempo stesso difficoltà del giudizio e tormento dell'animo. E il dubbio di poter peccare o di aver peccato non fa eccezione. Non è esatto, dunque, pensare semplicemente ad un sentimento di colpa ingiustificato, in quanto lo scrupolo, come qualsiasi altro dubbio, si riferisce ad un oggetto della conoscenza. Potremmo chiederci se da questa difficoltà in cui il pensiero si dibatte derivi il senso di incertezza o se non sia piuttosto un'insicurezza profonda a turbare il corso del pensiero. Ma in realtà non esiste una simile alternativa: il dubbio, qualunque esso sia, rivela che « il pensiero e il giudizio hanno radici nel substrato endotimico »37 rimanda cioè alla integrazione tra sovrastruttura razionale e affettività. Il dubbio sarà tanto più fortemente vissuto quanto più l'oggetto della conoscenza, a cui si riferisce, riguarda direttamente o indirettamente la vita intima. Si comprende allora come il dubbio tormentoso di poter peccare o di aver peccato rappresenti una vivace esperienza interiore per l'uomo sinceramente religioso, connessa con lo stesso timore di offendere Dio.38 Come esiste un dubbio normale, esiste anche uno scrupolo normale, e già ne abbiamo accennato. Ma ciò che più interessa il confessore è lo scrupolo patologico, quello cioè che rientra nel quadro delle ossessioni o, meglio, dei processi coatti. Sono questi dei processi psichici ( idee, rappresentazioni, impulsi, ecc. ) contro la cui esistenza l'individuo si difende ed il cui contenuto gli appare insensato e incomprensibile in tutto o in parte.39 Caratteristiche principali del loro contenuto sono dunque la coazione e l'estraneità, con notevole colorazione affettiva, delle quali il soggetto è consapevole. Si tratta insomma di una specie di corpo estraneo che suscita una lotta tra psichismo ospite e psichismo parassita. Ebbene, possiamo parlare di scrupolo patologico quando al soggetto si impone come vera una realtà contro la sua propria convinzione, quando cioè esiste la coscienza che una certa cosa sia vera intendendone contemporaneamente l'impossibilità. La distinzione fondamentale di questa coazione di validità nei riguardi del dubbio normale è segnata dal « contrasto permanente tra coscienza della verità e coscienza dell'errore. Entrambe si sospingono qua e là, ma nessuna può ottenere il sopravvento, mentre nel giudizio del dubbio normale non si sperimenta ne giustezza ne falsità ma in questo atto unitario, per il soggetto, il fatto rimane indeciso ».40 Il confessore ha meno occasione di incontrarsi con il penitente delirante di colpa. Il delirio si distingue dallo scrupolo non tanto per l'insistenza sul tema della colpa o per la gravita dell'angoscia, quanto per la presenza di un giudizio di assoluta certezza e la mancanza di una qualsiasi consapevolezza di malattia mentale. Il soggetto sente la propria vitalità schiacciata dal peccato; ha quasi un'esperienza fisica del peso della colpa; si sente perduto, abbandonato; il suo orizzonte è di totale oscurità; egli attende l'imminente punizione, la dannazione eterna. Talvolta la punizione viene anticipata: ecco allora i comportamenti aggressivi verso se stesso, dalla mutilazione al suicidio. Sia nello scrupoloso che nel delirante di colpa c'è l'espressione di una colpevolezza inconscia. Certamente il primo soffre consapevolmente per il proprio dubbio e il secondo si accusa di tutti i peccati possibili, ma nel comportamento dell'uno e dell'altro riaffiora simbolicamente un'antica, primordiale colpevolezza, spesso legata a fantasmi infantili. In questi casi vale quanto afferma A. Berge: « Senza dubbio non è l'idea di peccato che ingenera il sentimento di colpevolezza; è piuttosto il sentimento di colpevolezza che ingenera la nozione di peccato per una esigenza inerente allo spirito umano sempre incline a razionalizzare e codificare i dati della sensibilità ».41 Qui si realizza veramente quell'universo morboso della colpa, di cui parla l'Hesnard,42 le cui radici affondano in una sorta di morale primitiva o, meglio, di premorale, quella appunto che si identifica con il super-io freudiano rigidamente oppressore. È proprio la struttura arcaica, automatica ed incosciente che distingue la pre-morale dalla morale e rende fatale e artificiosa, cioè forte nell'emozione e debole nella motivazione, la colpevolezza patologica.43 L'ambiguità della "morale senza peccato" risiede proprio nell'aver confuso il sentimento nevrotico di colpa con la colpevolezza religiosa. Il malato è di fronte ad una legge impersonale, chiuso nel cerchio delle sue complicazioni egocentriche, impotente. Il peccatore cristiano è davanti a Dio e ciò che lo libera dalla colpevolezza non è il semplice adeguamento della sua condotta alla regola ( o l'adattare la regola alle sue possibilità ), ma il perdono da parte di un amore infinito.44 Vale qui la pena di accennare al trattamento degli scrupolosi: crediamo infatti che certe regole, per così dire consacrate dall'uso, non siano sempre giustificate. Innanzitutto ci sembra sbagliato impedire rigorosamente allo scrupoloso di esprimere le proprie preoccupazioni morali, non permettendogli così di scaricare, comunicandole, la propria ansia. Con questo non si vuoi dire che è necessario lasciare allo scrupoloso la libertà di ripetere infinite volte lo stesso discorso. Un altro errore è quello di tranquillizzare in maniera sbrigativa il penitente dichiarando la sua incapacità di peccare. In tal modo si rischia di togliere al soggetto il senso della propria responsabilità; ne va dimenticato che quasi sempre lo scrupolo si riferisce ad un particolare ambito dell'agire umano, mentre negli altri si verifica magari una specie di indurimento della coscienza morale: non raramente lo scrupolo riguarda piccole mancanze, in relazione a prescrizioni od obblighi, che vengono ingigantite, mentre sembra che vi sia quasi un atteggiamento di noncuranza nei riguardi della giustizia, della carità, ecc. È evidente allora che bisogna sì rassicurare e sdrammatizzare, ma anche mettere ordine nella scala dei valori.45 4. Perversione della coscienza moraleI vissuti di colpa ingiustificati non esauriscono la patologia della coscienza morale. Esiste anche la condizione contraria: la mancanza cioè di risonanza etica per comportamenti oggettivamente riprovevoli o addirittura la ricerca della loro attuazione quale fonte di gratificazione. Si tratta della perversione della coscienza morale. Si badi bene: diciamo coscienza e non sentimento o emozione; ciò che viene distorto infatti non è la sola componente affettiva ma la coscienza morale nel suo insieme, e quindi anche la capacità di giudizio sul piano etico, senza che per questo si debba necessariamente affermare una anomalia dell'intelligenza o l'ignoranza di una legge morale. Nell'individuo adulto, quello che conta in definitiva è proprio il giudizio dell'azione, anche se l'esperienza endotimica, nel corso dell'età evolutiva, ha avuto un peso determinante nella strutturazione della coscienza morale. È questa coscienza morale che noi dobbiamo tener presente, e non la sola componente affettiva, cioè il rimorso, che come ogni altro sentimento è soggetto a fluttuazioni e a scolorimenti. Ovviamente il rimorso, quando esiste, da forza al giudizio, ma non aggiunge nulla alla sua validità; ugualmente può sostenere l'azione della volontà, senza che per questo si debba affermare che è necessario al suo esercizio.46 I soggetti di cui vogliamo trattare non solo non sentono, ma soprattutto non sanno giudicare secondo la norma di valore morale, in quanto non riconoscono questo valore, anche quando conoscono la norma. Non raramente il pervertimento della coscienza morale si inserisce nel quadro della destrutturazione della stessa coscienza psicologica o del decadimento psichico globale o dell'immaturità personale. Possiamo affermare che ogni capitolo della psichiatria riguarda il comportamento morale e che la decadenza etica è uno dei segni più precoci di ogni malattia mentale. Esiste però una forma di immoralità in cui il pervertimento della coscienza morale è, per così dire, allo stato puro. I testi classici ne fanno addirittura un'entità nosografica e parlano di immoralità costituzionale o di maral insanity. Forse è più rispondente alla realtà clinica vedere in essa la caricatura di una variazione particolare dell'essere psichico ( personalità psicopatica ) caratterizzata da aggressività sfrenata, completa insensibilità nei confronti della giustizia, cinismo, crudeltà spesso non disgiunta da una strana delicatezza d'animo, asocialità, piacere per il delitto, incrollabile coscienza della propria forza e del proprio valore.47 Più frequenti sono le forme francamente sintomatiche di affezioni mentali. È evidente che i dementi, da un lato, e gli insufficienti mentali, dall'altro, hanno perduto o, rispettivamente, non hanno mai raggiunto la capacità di integrare le pulsioni profonde nella sfera morale ne sanno reprimerle: il loro comportamento è l'espressione di attività automatiche o istintive. Quando poi esiste la dissoluzione della coscienza psicologica, come nel caso delle psicosi schizofreniche, il pervertimento della coscienza morale si iscrive nel mosaico di una esistenza patologica. Negli stati di eccitamento maniacale o nelle depressioni melancoliche la dimensione transitiva della personalità è distorta o amputata; i sentimenti altruistici sembrano talvolta oscurarsi e spegnersi. Ma anche nelle forme meno gravi, nelle nevrosi, possiamo assistere ad un ottundimento della coscienza morale e persino ad una ricerca perversa del male: si pensi alla ripetizione ossessiva di certi comportamenti dell'anancastico e alle suggestioni di cui è vittima l'isterico bisognoso di farsi valere. In tutti questi casi può attuarsi un comportamento non solo al di fuori delle norme morali, ma contro queste norme. Con linguaggio freudiano si potrebbe dire che se il super-io è responsabile degli ingiustificati vissuti di colpa, nella perversità patologica l'es ( la pulsione istintiva ) prende il posto del super-io e pertanto viene compiuto proprio ciò che è proibito, ma come se in questo si realizzasse il dover essere della persona. La destrutturazione della coscienza morale permette così la tirannia dei fantasmi dell'inconscio. Al di fuori della perversità patologica esistono altri opacamenti della coscienza morale dovuti, per es., all'ossequio a certi stereotipi sociali o al fatto che in particolari condizioni i sentimenti diventano istanze che si giustificano per se stesse. II - Patologia della responsabilitàLaddove la coscienza morale non fa sentire il suo richiamo, mancheranno le necessarie inibizioni e pertanto sarà ridotta o tolta la responsabilità, specie quando la malattia, destrutturando la coscienza morale, avrà creato una vera e propria perversità. Vale però la pena di chiarire che non ogni comportamento perverso è patologico. C'è anche una perversità che con Ey potremmo chiamare normale. Esiste cioè il perverso « che compie il male, esattamente come gli altri compiono il bene. La struttura della coscienza morale resta la stessa nei due casi, essa cambia solamente, ma liberamente di senso ».48 La libertà segna dunque il confine tra malattia e normalità. Ecco quando si può parlare di perversità normale: quando esiste la volontà di fare il male per una scelta liberamente compiuta. Nella perversità patologica, invece, c'è l'impotenza ad agire altrimenti, l'impossibilità di accedere alle regole morali; il male viene più subìto che scelto. Allora veramente l'uomo è essere pratico, nonostante possa avere un sentimento illusorio della propria responsabilità. La psicologia ci insegna a non parlare dell'uomo inteso in senso astratto ma di "quest'uomo", considerato nella sua particolare situazione personale ed esistenziale. Proprio di fronte a quest'uomo concreto ci chiediamo se egli possa sempre usufruire della sua libertà e in quale misura. La responsabilità morale presuppone infatti la capacità di una libera scelta. Ora, il sentimento della libertà dei propri atti è un'esperienza comune: la coscienza di vivere è legata alla coscienza di libertà, di essere in qualche modo gli artefici responsabili del proprio destino. Ma l'uomo è davvero sempre libero di scegliere tra il bene e il male, oppure è impedito da una fatalità genetica, dal condizionamento ambientale, dal determinismo dell'inconscio, da un gioco di riflessi? E che cosa rimane della libertà dell'uomo malato di mente? Ovviamente il problema della libertà va posto in termini di relatività: se poniamo la libertà come un assoluto e il determinismo come un altro assoluto, il problema è irrisolvibile. Esiste nell'agire umano un certo determinismo ( d'ordine fisico, biologico, psicologico e sociale ) che tuttavia non è incompatibile con l'esistenza di una certa libertà. Evidentemente la nostra non è una libertà assoluta, che sarebbe la libertà di Dio, ma quella della creatura: una libertà creata e dunque limitata. Esistono cioè obblighi e sollecitazioni, ma, indipendentemente dall'azione esteriore che può essere coartata, il passaggio dall'obbligo al convincimento e dalla sollecitazione al desiderio è segnato dall'esperienza della libertà. Non mancano le prove perché si debba considerare libero l'uomo ( e sarebbe cosa superflua enumerarle ed illustrarle in questa sede ), ma l'uomo è libero relativamente ad una sua particolare situazione.49 Proprio questa situazione, che può anche essere definita da una malattia, determina il grado di libertà. Il giudizio in proposito è sempre difficile; talvolta impossibile. Senza ripetere quanto abbiamo esposto a proposito della perversione della coscienza morale, ricordiamo che gli stati di insufficienza mentale, le psicosi, le demenze limitano grandemente o del tutto l'esercizio della libertà. Anche le nevrosi, certe immaturità emozionali ( quali si verificano per esempio nell'adolescenza ), le disarmonie personali e persino l'ossequio, più o meno inconsapevole, alle nostre abitudini impongono dei condizionamenti al nostro agire. Tuttavia, non possiamo dare per scontato che colui che sceglie il male non sia libero. Ciò che conta è guardarsi da posizioni unilaterali e da una superficiale generalizzazione che porta a trascurare la singolarità dei casi. In particolare non ci si può mai fermare alla valutazione dell'atto per se stesso, ma è necessario indagare il valore che quell'atto assume nell'economia dell'intera personalità. Vediamo alcuni esempi. La capacità di intendere e di volere viene di regola gravemente impedita nelle psicosi che alterano i rapporti con la realtà. Nei periodi intervallari tra gli episodi psicotici, tuttavia, si impongono delle distinzioni, poiché i cosiddetti lucidi intervalli della psicosi-maniaco-depressiva, che per le sue manifestazioni dobbiamo considerare come una psicosi acuta, hanno significato ben diverso da quello dei periodi lucidi di una psicosi cronica, qual è la schizofrenia: se per quest'ultima dobbiamo spesso parlare di un difetto residuo, data l'incompleta remissione dei sintomi; per la prima, la remissione è spesso completa. Per il confessore è utile ricordare che le nevrosi compromettono sì la libertà, ma solo per alcuni settori dell'agire, quelli appunto interessati dalla malattia. In certi casi di esuberanza affettiva ( anche di persone normali ) il sentimento può essere un'istanza che si giustifica da sola e pertanto il giudizio morale dell'azione può mancare e perciò possono essere deficitarie le inibizioni. L'abitudine, specie se inveterata, limita l'esercizio della libertà; ciò non toglie un'eventuale "responsabilità in causa". Nelle perversioni sessuali, di solito, la pulsione profonda è più forte di quella normale: non raramente si tratta di una vera e propria "bufera" che toglie al soggetto ogni possibilità di resistenza. Infine una colpa materiale può essere espressione della frustrazione di un bisogno, il quale non necessariamente si trova sullo stesso piano: è il caso, ad es., della masturbazione per un insuccesso scolastico, professionale, ecc. Ciò risponde, per così dire, ad un principio di economia dell'organismo psichico. Una volta infatti che sia stato scoperto un mezzo per la gratificazione di un bisogno, questo mezzo viene utilizzato per sedare l'ansia che nasce da conflitti diversi. Nell'esempio citato, la masturbazione ha carattere compensatorio della frustrazione di un bisogno ( l'affermazione di sé ) ben diverso da quello sessuale. Gli abusi della psicologia pertanto non sono più gravi della sua ignoranza. Anche se le norme morali rimangono immodificate, nel giudizio morale e nell'educazione delle coscienze non si può non tener conto di una realtà psichica. L'esemplificazione potrebbe continuare, ma non crediamo necessario insistere. Ci basta aver sottolineato che il confessore deve evitare due posizioni estreme: imputare tutto al condizionamento psicologico, da un lato; trascurare ogni fattore personale ed esistenziale, dall'altro. Compito non facile. Il sapere psicologico mette il moralista di fronte alla illogicità del comportamento dell'uomo, a quell'assurdo pirandelliano che ben definisce l'umanità. Il peccato partecipa di questa illogicità dell'homo sapiens.50 E allora le formule servono solo come punto di riferimento e i principi devono essere interpretati nella luce di un realismo antropologico. III - Psicopatologia e religiositàUna psicopatologia dello spirito non si dà - secondo l'espressione di Jaspers - se non in quanto « la malattia dell'esistenza ha conseguenze per la realizzazione dello spirito, che può essere inibito, differito, turbato, oppure anche favorito in modo unico ».51 1. Religiosità autentica ed inautenticaLa psicologia e la psicopatologia sono scienze che si occupano del relativo, del fenomeno. Quando si fanno esplicative devono necessariamente limitarsi a ciò che è loro proprio, cioè a quelle che in filosofia sono dette cause seconde. Dare un giudizio di valore nel campo della religione secondo il parametro vero/falso non è competenza di queste scienze, le quali seguono un metodo empirico e prendono in esame solo un polo della religione. La loro valutazione riguarda la realtà psicologica e non la verità ontologica; nulla infatti possono dire sull'esistenza di Dio e sulla sua azione nell'uomo. L'autenticità dell'esperienza religiosa è nel trascendente. Per questo un giudizio di valore richiede criteri teologici e metafisici al di fuori dell'esperienza stessa. Dal punto di vista della fede, Dio può rivelarsi anche ad un malato di mente e servirsi magari della malattia a maggior confusione nostra.52 Inoltre il sacro interessa immediatamente la coscienza e si impone all'individuo con il carattere della realtà primaria. È un dato colto intuitivamente con significato teofanico. Si tratta di "vedere" ciò che è nascosto, di "intendere" ciò che non è chiaramente espresso dalla realtà delle cose. L'esperienza religiosa altro non è se non la risposta alla parola intesa. Si può discutere con quale nome l'uomo chiami la potenza che gli si rivela e quali desideri essa significhi o appaghi; ma il dato primo non ha motivazioni: resta irriducibile.53 È infatti un vissuto relazionale intimamente connesso con la stessa condizione esistenziale di uomo. Scrive molto bene Jaspers: « L'esperienza religiosa resta ciò che è tanto se avviene in un santo che in un malato di mente, o se la persona che la fa è entrambe le cose in una ».54 Lo psicopatologo può dare invece un contributo nello studio della personalità del soggetto e valutare le motivazioni del suo comportamento.55 L'autenticità della vita religiosa dipende infatti dalla validità delle motivazioni che la sottendono o, se si preferisce, dall'atteggiamento interiore, inteso quale organizzazione della personalità. Così fenomeni uguali sul piano descrittivo possono avere in realtà un significato del tutto diverso e, al contrario, comportamenti molto dissimili possono, ad una analisi approfondita, risultare analoghi. Inoltre la religione può mescolarsi con elementi che non le sono specifici - mescolanza del sacro e del cosmico, del sacro e dell'erotico, del sacro e del demoniaco56 [ v. Diavolo/Esorcismo ] - e la religiosità, nella vasta gamma delle sue manifestazioni, si colora dell'esperienza individuale, caricandosi anche di tutte le ambiguità dell'esistenza. Si badi però che il significato psicologico e ancor più l'essenza spirituale di un fenomeno non coincidono con il suo meccanismo di realizzazione. Dire per es. che l'atto religioso utilizza l'energia di forze vitali profonde, le quali vengono così messe al servizio di forme superiori di vita, è cosa ben diversa dall'affermare che la vita religiosa è una specie di sessualità contrabbandata. Per una esatta valutazione, dunque, dobbiamo sempre considerare il significato che l'esperienza assume nell'economia della personalità, le motivazioni del comportamento e la continuità di senso tra le manifestazioni religiose e la vita vissuta. a. In un importante lavoro, G. W. Allport ha distinto due forme di religiosità: la religiosità estrinseca e quella intrinseca, in un certo senso corrispondenti alla religione sociale e, rispettivamente, mistica di Bergson. Nel primo caso la religione viene usata in funzione strumentale, posta al servizio di fini egocentrici per dominare le paure, difendersi da una realtà, soddisfare un desiderio; nel secondo è invece profondamente vissuta e diventa principio di unificazione della vita. Quando è estrinseca, la religione serve la persona; quando è intrinseca, è la persona che la serve.57 Le motivazioni che spingono ad un certo comportamento, qualunque esso sia e su qualunque piano si svolga, sono molto varie e complesse. Un comportamento può tendere a soddisfare un bisogno profondo, sia questo biologico ( alimentazione, accoppiamento, ecc. ) o psicologico ( affermazione di sé, integrazione sociale, ecc. ), oppure a conseguire un valore. C'è una gradualità nelle motivazioni: quanto più la personalità è matura, tanto più si muove in vista di un valore. Valga a questo proposito quanto già abbiamo detto trattando della maturazione della coscienza morale [ sopra I,1 ].58 Gli abbagli dell'inconscio sono sempre possibili. È facile per es. scambiare la virtù dell' ( v. ) obbedienza con la passività, con il bisogno infantile di sicurezza e di protezione, con la rinuncia all'assunzione delle proprie responsabilità. La ( v. ) carità può essere espressione di un larvato erotismo. Un comportamento casto può avere il significato di una paura di fronte alla sessualità. Certe pratiche di pietà sono sostenute da cerimoniali ossessivi. Certe devozioni nascono da sublimazioni inconsce di bisogni profondi. Certi eroismi hanno origine da repressioni nevrotiche, da un morboso rinnegamento di sé, ben diverso dalla disponibilità evangelica per amore di Dio e del prossimo. Certe ansie di santità, ostentate e compiaciute, tradiscono la smania di valorizzazione di sé. Potremmo continuare e troveremmo sempre che si tratta di gradi inferiori di motivazione: il soggetto ha, più o meno inconsciamente, di mira se stesso e non il bene assoluto. Per questo è necessario una continua opera di purificazione, affinché una fede adulta trovi il sostegno di una affettività equilibrata. Contrariamente all'opinione freudiana, noi pensiamo « che il credente possa conoscere un'evoluzione della sua fede, della sua speranza e della sua carità che gli permetta di accedere, come credente, alla maturità affettiva e di cercare la sua felicità in una maniera purificata ».59 b. Feuerbach interpretava la religione come una forma di alienazione delle perfezioni ideali della natura, inespresse nel concreto della vicenda storica dell'uomo e perciò trasferite ad un ipotetico ente trascendente, concepito come la sintesi delle perfezioni stesse. Marx sosteneva che l'alienazione religiosa è fenomeno secondario all'alienazione economica. Per Freud la religione era una realtà simbolica, rappresentando la sublimazione di contenuti inconsci. Per Nietzsche infine è la stanchezza del vinto che ha creato la religione e gli dèi, cioè una legge universale nella quale si livella ogni individualità. Il tema hegeliano dell'alienazione, che si contrappone al tema agostiniano della insopprimibile tensione naturale dell'anima verso Dio, ritorna anche nell'ateismo moderno in tutte le sue forme di varietà. Ma l'esperienza religiosa è davvero fonte di mortificazione o non piuttosto di sviluppo della personalità? Se consideriamo le tendenze profonde, possiamo riunirle in due gruppi: quelle finalizzate all'affermazione e alla difesa della individualità e quelle transitive che tendono all'integrazione e al superamento dell'io. Sono queste le direttive della vita psichica, i parametri lungo i quali si svolge la dinamica della personalità; e l'una tendenza integra l'altra, sicché l'equilibrio nasce dal loro armonico comporsi. Quanto più l'uomo normale approfondisce la propria vita intima, tanto più sente il bisogno di appoggiare sugli altri la propria insufficienza. Se ci si muove su di una sola direttrice c'è lo squilibrio. È ben noto quale larga parte giochi il ripiegamento su se stessi nei disturbi nevrotici; ne minori danni produce lo squilibrio inverso, come troviamo in certi "fallimenti nervosi" di tipi umani che hanno costruito il loro successo mortificando la propria vita interiore.60 Ebbene, la religione procede sugli stessi parametri della dinamica della personalità. L'uomo religioso, dall'approfondimento della propria vita intima, dall'esperienza esistenziale della finitezza del proprio io, afferma l'assoluto e questo dalla coscienza non è avvertito in maniera generica: innanzitutto per il significato di presenza e poi di presenza per me. La struttura dell'esperienza religiosa è infatti squisitamente personale. Il divino trascendente è colui del quale avverto la radicale differenza, ma è anche un Tu, il termine di un dialogo: egli interessa la mia persona, ha significato per la mia vita. Il ritrovamento di sé che si attua nell'esperienza religiosa è ben avvertito in certe crisi spirituali: il fenomeno della conversione, infatti esige prima un ritrovamento dell'unità personale, proprio perché la coscienza possa tutta intera "convertere". La religione procede inoltre lungo il parametro orizzontale della personalità poiché la partecipazione all'Essere implica la comunicazione e la comunione con quanti altri partecipano di questo essere: il legame personale ( rè-ligio ) sconfina così nel legame universale. Non occorre certo ricordare come il cristianesimo sia sensibile all'esigenza comunitaria anche nella formulazione del dogma, pur tenendo fermo il principio che le creature sono direttamente ordinate al creatore. « Le verità fondamentali formulate dogmaticamente dalla chiesa cristiana - scrive C. G. Jung - esprimono in maniera quasi perfetta la natura dell'esperienza interiore ».61 Nella religione l'uomo esprime, dunque, compiutamente la capacità di trascendere se stesso: questa è l'essenza peculiare dell'uomo che proprio per ciò è un essere religioso.62 L'intenzionalità dell'esperienza religiosa, poiché coincide con l'intenzionalità della persona, non sopporta frustrazioni. È interessante scoprire e analizzare i vari compensi a cui da luogo la frustrazione del bisogno di assoluto: sarà di volta in volta il fatto estetico o la teoria filosofica o la ricerca scientifica; il fanatismo in tutte le sue forme; il pensiero magico e la superstizione in tutte le loro sfumature; il misticismo senza Dio. Un interessante campo di indagine, a questo proposito, è quello che riguarda il problema del mito e del rito. Il mito è la cristallizzazione di un'esperienza comune nella quale l'uomo rispecchia la propria situazione e costata, con sollievo, di non essere un caso isolato;63 è la storia vera, simbolicamente espressa, di una realtà tutta particolare, la realtà sacra delle origini.64 Quando perdette il suo sapore di mistero e il carattere di modello esemplare, quando fu sconsacrato, il mito si ridusse a favola e la mitologia divenne letteratura. Pure certe categorie mitiche sono insopprimibili nell'uomo, così come insopprimibile è la sua dimensione religiosa. Anche la rivelazione cristiana non ha tolto di mezzo, pur superandola, la rivelazione cosmica: anzi, certe categorie mitiche sono sopravvissute prolungate dal cristianesimo.65 E la nostra epoca, nonostante l'asserita demitizzazione, è in realtà una straordinaria creatrice di miti, i quali nulla hanno della purezza religiosa delle origini e pure esprimono il bisogno di un modello e l'affermazione rassicuratrice di un destino comune. Da una analoga esigenza di integrazione nasce il rito, per il quale si potrebbe formulare l'ipotesi inversa di quella freudiana: non già il rito è assimilabile all'ossessione, ma l'ossessione si rifà al rito mutuando da questo il significato propiziatorio. L'uomo ha bisogno dell'azione del rito, come ha bisogno di legarsi a qualche cosa che lo sovrasti: se respinge il rito religioso dovrà scegliersi un altro rito, per esempio quello del lavoro; se rifiuta il legame religioso sceglierà altri legami, per es. quelli del nazionalismo o dello sport di massa.66 Evidentemente il rito può essere un fatto solo esteriore e pertanto sprovvisto di ogni efficacia; ma un impoverimento del rito in funzione di una religiosità tutta interiore non rappresenta una conquista spirituale, poiché una religione fondata sulla pura parola o sulla sola azione morale non è più a misura d'uomo. Vogliamo ricordare - seguendo Guardini - i due opposti pericoli a cui la religiosità può andare incontro: la religiosità può essere sopraffatta dalle cose del mondo oppure, al contrario, estromettere il mondo. Nel primo caso l'uomo cade, anche religiosamente, in balia delle cose per il desiderio o per la paura, e nascono gli dèi: nel secondo caso l'atto religioso si compie ai margini della vita o addirittura ostacola la vita, e l'ateismo può essere sentito come una liberazione.67 Il discorso dovrebbe qui allargarsi all'esperienza simbolica, della quale il mito e il rito sono espressione. È possibile solo un rapido accenno.68 Suscettibile di infinite interpretazioni, il simbolo si pone come mediatore tra il noto e l'ignoto, il naturale e il soprannaturale, il temporale e l'eterno. Nella dialettica sacro/profano il simbolo esplica una funzione di liberazione e di salvezza, proprio per il suo carattere sintetico, cioè riunificatore. Nell'uomo moderno assistiamo alla riduzione, più o meno completa, del simbolo a segno o ad allegoria, e quindi alla incapacità del simbolo di aprire la coscienza umana all'esperienza cosmica. Anche il simbolo religioso deve essere riscoperto, se non vogliamo essere preda dei suoi surrogati, segni vicari di una esperienza religiosa mancata. Infatti dal profondo dell'uomo l'intuizione archetipale dell'assoluto non può essere estirpata, può solo degradarsi69 [ v. Simboli spirituali ] . c. Ancora in tema di autenticità del comportamento religioso è necessario aggiungere alcune osservazioni sull'esperienza mistica. La contemplazione, che è essenzialmente un atto di conoscenza e di amore, sfugge all'indagine psicologica. Possiamo però ricercarne il significato. Rimangono poi accessibili le manifestazioni straordinarie - estasi, visioni, ecc. - che possono accompagnarsi all'orazione contemplativa e che non sono essenziali ne esclusive dell'esperienza mistica, poiché si riscontrano anche nell'ambito profano e possono essere provocate ad arte.70 Certamente non mancano somiglianze tra l'esperienza mistica e alcuni fenomeni che si verificano in malati mentali. La psicosi maniaco-depressiva, la paranoia, l'epilessia, i deliri allucinatori cronici, la schizofrenia, l'isteria possono offrire abbondanti esempi di fenomeni che dal punto di vista descrittivo non sono molto diversi dalle autentiche esperienze mistiche. In modo particolare l'isteria è stata spesso chiamata in causa per interpretare sul piano psicopatologico il misticismo. E talvolta non ci sono differenze nemmeno per quanto riguarda il meccanismo nervoso con cui questi fenomeni si producono nel malato e nel mistico. Lo stesso discorso vale per le estasi e le "visioni" provocate artificialmente. Ma, prescindendo dalla causa prima, è il senso stesso dell'esperienza che cambia radicalmente [ v. Veggente ]. Ciò non significa che i fenomeni paramistici non risentano dell'umanità del mistico. Al contrario: l'unione contemplativa Dio la concede a chi vuole; i fenomeni paramistici sono il contraccolpo psicosomatico di tale grazia e qui le disposizioni individuali giocano un ruolo preminente. Alcuni esempi renderanno più chiare queste affermazioni. Nell'esperienza religiosa dei primitivi, e in quella delirante psichedelica, l'estasi viene provocata per l'ebbrezza che comporta, per l'immersione che produce in una primordiale indifferenziata vitalità, alla quale si attribuisce il significato magico di possesso della potenza, di liberazione o di illuminazione. Viene così gratificato il desiderio di partecipazione dell'anima umana individuale all'anima cosmica e la componente vitalistica si unisce a quella soteriologica, come in modo paradigmatico è avvenuto nel dionisismo. Ben diversamente accade quando è l'amore che "strappa" l'anima al corpo. Un vuoto - tale è per se stessa la trance - può far emergere contenuti inconsci di significato religioso, ma non può generare un amore spirituale; è piuttosto l'amore che per la sua esclusività crea il vuoto intorno a sé. Il senso dell'esperienza viene rovesciato nella testimonianza dei mistici: non l'anima si perde nell'oggetto d'amore, ma l'Amore unisce l'anima a sé e tutto il resto è nulla.71 L'estasi provocata comporta inoltre una destrutturazione della coscienza che il mistico non presenta. E comporta delle modificazioni biologiche, obiettivamente misurabili, diverse da quelle che si possono riscontrare nell'esperienza mistica.72 Per quanto poi riguarda le anestesie dei soggetti in stato di ipnosi, i momenti estatici degli epilettici e dei maniacali, il "distacco" degli schizofrenici, esiste sempre una più o meno profonda disorganizzazione dell'io, mentre nel misticismo l'io non è disorganizzato. Quasi tutti gli psichiatri che si sono occupati dell'argomento sono oggi concordi nell'affermare che lo stato di coscienza mistico è del tutto specifico.73 Più difficile può riuscire la distinzione delle manifestazioni legate all'isteria. Valga tuttavia il seguente criterio: il mistico riveste con il proprio desiderio un'autentica esperienza religiosa e questa si traduce così in termini umani, spesso con significato simbolico; l'isterico riveste invece con le modalità dell'esperienza religiosa il proprio fantasma e in tal modo l'umano viene gratificato con l'inconscia pretestazione di favori divini. Inoltre il mistico autentico considera i fenomeni straordinari come eventi poco desiderabili e spesso se ne dimostra imbarazzato;74 il misticismo patologico vive invece dello straordinario e ad esso deve la forza suggestiva;75 sue caratteristiche sono la monotonia e la ripetitività, un nonsoché di ostentato, di copiato, di falso.76 Ma soprattutto, in ogni caso, si ricordi che le autentiche esperienze mistiche si accompagnano di regola ad una ascetica rigorosa, rappresentano una continuità di senso con tutta l'esistenza, portano rigogliosi frutti spirituali. Non i fatti straordinari contano, ma quella che s. Francesco di Sales chiamava l'estasi della vita.77 2. Nevrosi e santitàa. La religione, autenticamente vissuta, dilata la personalità ponendo l'individuo in relazione significativa con Dio e con il prossimo. È una situazione squisitamente dialettica che comporta la discussione della propria identità personale. L'arricchimento della personalità espone dunque al rischio dell'ansia. Per contro l'uomo scaricato da ogni tensione perde irrimediabilmente la propria originalità; anche in campo religioso la norma ideale è l'uomo che sa equilibrarsi a livelli sempre più alti di tensione. L'angoscia che troviamo in tante anime religiose può dipendere da una crisi positiva di rinnovamento ( in questo senso il cristiano è sempre "in crisi" ) o da una situazione nevrotica non raramente nata o aggravata da una cattiva educazione religiosa. Già abbiamo parlato [ sopra I,2 ] dell'ansia che si accompagna al senso del peccato e trova la sua risoluzione nella certezza del perdono di Dio. Dobbiamo ora ritornare sull'argomento per mettere in guardia contro alcuni errori di direzione spirituale che possono veramente far della religione una fonte di nevrosi. Scrive il Nuttin che esiste un antico contrasto tra terapeuti e moralisti per quanto riguarda il trattamento di soggetti pichicamente disturbati: « mentre il terapeuta pretende di liberare il paziente, il moralista mette l'accento sullo sforzo e sul dominio di sé ».78 Che cosa si intende per liberazione? E fin dove si può fare appello alla cosiddetta buona volontà? Si deve usare della psicologia, ma abusarne è certamente pericoloso. Pertanto si potrà dire ad un soggetto che ha delle difficoltà psicologiche, o a chi per abitudine commette una colpa oggettiva, che probabilmente non è responsabile di quanto ha compiuto, ma sarebbe un duplice errore psicologico non dare alcun peso al peccato materiale: innanzitutto perché il soggetto avrebbe l'impressione che noi sottovalutiamo quanto ci dice e poi perché rischieremmo di creare in lui una stortura del senso morale, tanto più quando il peccato materiale viene "permesso" o addirittura "prescritto" quale terapia. Noi non neghiamo che, in certe situazioni, un'azione oggettivamente immorale possa alleviare una tensione e ridare l'equilibrio psichico perduto, ma siamo d'accordo con il Nuttin nell'affermare che equilibrio psichico non significa guarigione: al contrario si può ottenere un equilibrio a danno della guarigione, quando per es. l'ansia viene eliminata per mezzo di un qualsiasi meccanismo di difesa che costringa ancor più la personalità in una situazione infantile. La guarigione reale richiede che il male sia tolto alla radice e per far questo è talvolta necessario liberare l'ansia e quindi rendere temporaneamente più precario l'equilibrio ottenuto artificialmente dal soggetto. Nella fattispecie del caso non ha senso - neppure sul piano squisitamente psicologico - ottenere un equilibrio a danno della maturazione della personalità, considerata nella sua totalità e quindi anche secondo la dimensione morale.79 La via giusta non è dunque quella della "liberazione" a tutti i costi - la qual cosa tra l'altro comporterebbe un'azione puramente sintomatica e non radicalmente risolutiva - ma quella dell'integrazione delle pulsioni, della loro valorizzazione nell'ordinamento al bene. Per questo precedentemente abbiamo sottolineato la distinzione tra l'esperienza dell'obbligo e l'esperienza del valore [ sopra I,1 ] : la prima porta alla repressione, la seconda all'integrazione; la prima mutila la personalità, la seconda l'arricchisce. È evidente che l'ascetica cristiana nulla ha a che fare con i meccanismi di difesa. Nell'ascetica infatti l'energia psichica non viene repressa ne sublimata, ma amministrata secondo un fine consapevole. Per questo l'ascetica è integrante, perché non lascia energie sepolte nell'inconscio ne le devia artificiosamente, ma scopre e realizza l'essenzialità dell'uomo, la sua originaria autenticità. Anche se è la volontà che organizza il comportamento, tuttavia la virtù non nasce dalla semplice moderazione delle passioni da parte della sovrastruttura razionale e volitiva, ma da una particolare disposizione intrinseca alle stesse pulsioni profonde. È opportuno ricordare che l'appello allo sforzo volontario non sempre è giustificato, e a volte è dannoso. A parte il fatto che esiste una patologia della volontà, non va dimenticato che questa, pur essendo funzione autonoma, per se stessa non crea nulla: può solo rafforzare o inibire certe tendenze. Ma lo sforzo diventa antieconomico quando è sproporzionato all'impresa: si possono verificare allora dei veri e propri "crampi" della volontà, tanto più inutili quanto più forti. In questi casi sorgono anche sentimenti di colpa in rapporto di reciproca influenza con i parossistici sforzi di volontà. L'intervento maldestro del confessore rende più acuto e drammatico tale circolo vizioso: colpevolizzare e poi" insistere sulla "buona volontà", significa non solo aprire le porte alla nevrosi, ma anche ritornare alla morale del super-io: « O Galati insensati! », direbbe s. Paolo. b. Ci fu nel passato uno sforzo da parte di psicologi e di psichiatri per rapportare il misticismo a stati morbosi.80 Nel migliore dei casi la santità era considerata come l'altra faccia della nevrosi, il compromesso di tendenze frustrate.81 Certo, nell'uomo autenticamente religioso esiste un'insoddisfazione, ma non è quella dell'amor proprio ferito o dell'ambizione delusa o della sessualità inappagata;82 è piuttosto quella esistenziale di cui prima abbiamo detto. La fruizione dell'amore di Dio dei grandi mistici è qualche cosa di molto diverso dall'adempimento di tutte le ambizioni del cuore, dal soddisfacimento della sete di stima e di affetto: la consuetudine con le opere dei mistici - e non la loro frettolosa e superficiale lettura - può darne facilmente testimonianza. Tuttavia una nevrosi può coesistere con la santità. È questo un argomento che merita qualche precisazione. La perfetta sanità psichica non esiste, è un'astrazione che per di più, nella sua definizione, risente delle diverse concezioni dell'uomo. Pertanto non è certo difficile trovare in chiunque tratti caratterologici negativi o sintomi che si possono ascrivere a questa o a quella sindrome nevrotica, a seconda del modello di personalità a cui si fa riferimento. Sarebbe del resto davvero strano non trovare tra i santi un numero di nevrotici almeno uguale a quello che si trova nella popolazione generale. Il torto è di certa agiografia che è andata a gara per presentarci i santi come dei privilegiati fin dalla più tenera età. Infine un'intensa vita spirituale può comportare delle difficoltà psicologiche poiché ogni esperienza religiosa procede per momenti dialettici e il primo può essere un momento di angoscia: la pace è solo nel momento sintetico, quando ogni antitesi è risolta e la personalità è perfettamente integrata.83 Non è certo il caso di ricordare qui l'inquietudine agostiniana che solo in Dio troverà il suo riposo; ci interessa però, sul piano psicologico, affrontare un problema troppo spesso trascurato. È vero che in alcuni santi troviamo una "psiche difficile" ( e questo può costituire per loro un merito maggiore ) e tratti nevrotici magari gravi; ma è anche vero che di regola questi santi riescono a superare ( non diciamo compensare ) la loro nevrosi. Ebbene, che cos'è che permette loro questo superamento? Non alludiamo semplicemente alla vita di pietà religiosa come risorsa psicologica che nasce dalla speranza dell'aiuto o dall'aspettativa della ricompensa da parte di Dio; e nemmeno alla religione quale remora, per esempio, nei confronti del suicidio; ma chiediamo se questo « perdersi per ritrovarsi » in Dio abbia valore terapeutico. L'ansia ha carattere di anonimità, essa è sempre per sua natura ansia di morte: la vita non è più sentita come impulso ad espandersi, ma diventa la negazione di se stessa quasi venisse inghiottita nell'abisso del nulla.84 Nell'ansia si profila sempre una minaccia per l'io, il timore di un taglio che compromette una totalità; al di là di ogni forma particolare di angoscia c'è sempre l'angoscia primordiale della "creatura separata".85 È chiara allora la soluzione che può offrire una vita religiosa che conferisce all'esistere il sostegno e l'integrazione di cui ha bisogno. Non diversamente va detto per la melanconia: l'uomo sperimenta nella religione il proprio fondamento metafisico quando questo sembra compromesso. Ma è bene avvertire - come ha fatto Allport - che non si deve ripetere l'errore della concezione psicoanalitica della religione, collocando la fede esclusivamente nelle funzioni difensive dell'io: « La religione, mentre sicuramente fortifica l'individuo contro gli assalti dell'ansietà, del dubbio e della disperazione, gli procura anche l'intenzione propulsiva che gli permette, ad ogni stadio del suo divenire, di porre in relazione significativamente se stesso con la totalità dell'Essere ».86 Se c'è un punto sul quale morale e psicologia coincidono nell'indicare una comune via di salvezza è proprio quello del superamento dell'egocentrismo. L'eresia del nostro tempo è l'affermazione dell'autosufficienza dell'uomo; la nevrosi a sua volta esprime il ripiegamento su se stessi, l'impervietà a ciò che è altro da sé: promosso dalla volontà o necessitato dalla malattia, resta comunque il rifiuto all'amore. Senza dubbio l'acquisizione delle virtù teologali e la loro pratica è un fondamentale fattore di integrazione intra ed interpersonale. Maturo è infatti l'uomo che crede, spera ed ama [ v. Maturità spirituale ]. Un interessante confronto è quello proposto da J. de Ajuriaguerra tra le tecniche terapeutiche di isolamento e di privazione sensoriale e la "tecnica" di distacco dal mondo quale regola di vita e via di perfezione. Questo autore giustamente precisa: « Il mistico cristiano si ritrova nella sua ricerca, si crea nella sua finitezza. Creazione tanto più ampia in quanto è negandosi che egli trova la sua completezza, è nell'infinito che egli vive la sua grandiosa solitudine. Esperienza individuale di un'umanità che supera se stessa ».87 c. Una religiosità morbosa può essere causa od espressione di nevrosi; ma una nevrosi può coesistere con la santità, e l'autentica vita religiosa possiede una funzione terapeutica. Crediamo di dover affermare che la nevrosi può essere anche occasione di santità, non soltanto per la sofferenza che comporta ma proprio per il momento di crisi che rappresenta. Esiste un aspetto positivo, di crescita umana, della nevrosi che troppo spesso non viene riconosciuto. « L'essere ammalati - scrive Jaspers - non è solo un'eccezione che esclude dalla vita, ma appartiene alla vita stessa come momento della sua ascesa, come pericolo superabile ».88 Per contro, la "normalità" può rappresentare solo conformismo e appiattimento dell'esistenza, e l'equilibrio verificarsi ad un livello inferiore di progresso umano. La libertà di scelta ci espone al rischio dell'ansia. La nevrosi, una volta riconosciuta, ci pone di fronte ai nostri compromessi. Dalla nevrosi può cominciare una conversione, un superamento. È questo superamento, nel quale per il credente agisce certo un inconscio di grazia, che ci permette di comprendere nella giusta prospettiva la miseria psicologica, la realtà quotidiana di alcuni santi canonizzati e di tanti santi ignoti, e al tempo stesso di cogliere, al di là di una psicologia empirica, una psicologia della grazia. |
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Diavolo | |
… e vita spirituale | Maturità III,3 |
Psicologia IV | |
… e paternalismo | Padre VIII,7 |
Anomalie nei soggetti | Padre VIII,8 |
Alienazione sociale | Lavoratore I,1b |
Psicoterapia col corpo | Corpo I,2 |
1 | L. Beirnaert, Sens chrétìen du péché et sentiment de culpabilité in Trouble et lumière, Bruges 1949, 32 |
2 | Intendiamo per vissuto la qualità di un contenuto di coscienza che non è la risultante della semplice registrazione di un dato ma della penetrazione di questo in noi, cosicché in modo tutto particolare lo sentiamo nostro (cf E. Minkowski, Trattato di psicopatologia, Milano 1973, 206). L'espressione "vissuto di peccato" significa chiaramente che non ci riferiamo qui al "sentimento di colpevolezza" inconscio che può esprimersi simbolicamente e dare origine a comportamenti autopunitivi |
3 | H. Hafner, L'esperienza della colpa e la coscienza, Roma, Edizioni Paoline 1958, 54 |
4 | H. Ey, La conscience, Parigi 1963; H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Torino 1964 |
5 | F. Alquié, L'expérience, Parigi 1961, 57 |
6 | I sentimenti di colpa - secondo il pensiero freudiano - si confondono con l'angoscia nel bambino piccolo e l'angoscia, anzi, precede la comparsa del senso di colpa, il quale però si fa sempre più evidente a mano a mano che il super-io funziona, e si manifesta come bisogno di punizione. Successivamente è proprio il senso di colpa che richiama la paura di perdere l'oggetto d'amore o di essere abbandonato e le piccole colpe realmente compiute sono in funzione della verifica dell'amore dei genitori: « Se mi puniscono, si interessano di me » (cf S. Lebovici, I sentimenti di colpa nel bambino e nell'adulto, Milano 1973). È dunque il sentire di aver agito male, e non semplicemente di essere incorso nell'ira dei genitori, che comporta la paura dell'abbandono: il bambino affronta l'ira dei genitori (cioè "si fa" punire) per rassicurarsi del loro amore |
7 | Sulla necessità per la vita e per l'incivilimento umano dei sentimenti di colpa, cf S. Lebovici, o. c., specie al e. IX; M. Oraison, La culpabilité, Parigi 1974, 23ss |
8 | H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, Parigi 1932 |
9 | È vero che in Freud non mancano scritti che parlano della morale dell'ego, fondata sull'intelligenza e avente per fine la fratellanza umana e la diminuzione del dolore, ma, se abbiamo ben capito, essa rimane un'ipotesi, la semplice possibilità di una evoluzione: Freud è troppo convinto assertore di un assoluto determinismo per concedere all'ego autonomia e libertà. In ogni caso si tratta ancora di una morale della paura e non dell'amore |
10 | Ch. Odier, Les deux sources consciente et inconsciente de la vie morale, Neuchàtel 1943; A: Pie, Freud e la morale, Roma 1970 |
11 | Ch. Baudouin, De l'instinct a l'esprit, Neuchàtel 1970 |
12 | Ch. Baudouin, Esiste una scienza dell'anima?, Catania, Edizioni Paoline I9602, 185 |
13 | A proposito dell'integrazione (e non semplice repressione) delle passioni, si veda quanto insegna s. Tommaso ( I, q. 95, aa. 2, 3; I-II, q. 6, prol.; I-II, q. 59, a. 1 e 2) |
14 | La "legge" (il super-io) è necessaria, ma l'obbedienza deve trasformarsi nella consapevole ed amorosa conformità di voleri concordi. E superflua la citazione di testi paolini |
15 | H. Hàfner, o. c., alla nota 3, 38 |
16 | R. Zavalloni, Aspetto genetico e psicologico della colpevolezza in Colpa e colpevolezza, Milano 1962, 13 |
17 | In modo particolare reazioni di proiezione (quando si attribuiscono agli altri le proprie qualità negative), di razionalizzazione (quando si inventa una scusa per una condotta inaccettabile), di repressione (quando si rimuovono dalla coscienza sentimenti indesiderabili) |
18 | M. Scheler, L'eterno nell'uomo, Milano 1972, 150 |
19 | Ph. Lersch, La estructura de la personalidad, Barcellona 1971, 218-219 |
20 | M. Scheler, o. c., 153 |
21 | Ibidem, 146 |
22 | G. Bastide, La conversion spirituelle, Parigi 1956, 34 |
23 | A. A. Schneider, Le dinamiche della personalità e l'igiene mentale, Torino 1968, 277 |
24 | P. L. Beirnaert, o. c., alla nota 1, 33 |
25 | È ben noto come s. Paolo distingua, anche nel linguaggio, il peccato al singolare (hamartia), inteso quale principio dell'ostilità verso Dio, dagli atti peccaminosi (paraptòma). Se abbiamo ben compreso è proprio questo peccato interiore, questo peccato « dentro il cuore dell'uomo » (
Mc 7,20ss ) che non viene accettato da Hesnard. Nel 1954 questo autore pubblicò il libro Morale sans piche, Parigi, nel quale proponeva una morale fondata sulle leggi della psicologia e dell'igiene. Egli intendeva eliminare l'angoscia che si accompagna alla "colpevolezza interiore", fonte di malattia o quanto meno di infelicità per l'uomo. La sua condanna coinvolgeva non soltanto l'istanza morale che ha le sue radici nella minaccia punitiva di un super-io familiare, ma anche quella che deriva da una legge divina. Precedentemente l'Hesnard aveva pubblicato L'univers morbide de la fante, Parigi 1949, Una confutazione delle teorie dell'Hesnard si potrà trovare nell'articolo di A. Gemelli: Morate senza peccato, Vita e Pensiero, ottobre 1955, 555. Si vedano anche: W. Korff, Aporte di una morale senza colpa in Con 1970/6, 91; G. Pianazzi, Morale e psicologia, Zurigo 1972 |
26 | S. Kierkegaard, Il concetto dell'angoscia. La molattia mortale, Firenze 1965. Anche;
Sal 44,24;
Sal 89,7-10.15-19. Quanto abbiamo detto ci sembra sufficiente per distinguere il senso del peccato dal sentimento più o meno consapevole della propria miseria. È importante sul piano della psicologia pastorale non confondere i due termini. Ciò non significa che si possa giustificare con la miseria dell'uomo ogni peccato |
27 | D Cargnello, Sul sentimento di colpa in o. c. alla nota 16, 96 |
28 | G. van der Leeuw, Fenomenologia della religione. Torino 1960, 405 |
29 | Vale la pena di ricordare che quanto più il peccato è messo in evidenza meglio è riconosciuto e più facile riesce il pentimento |
30 | S. Th., Suppl., q. 1, a. 2, ad 1 |
31 | È il perdono e non la semplice confessione che da sollievo al credente |
32 | L'espressione paolina dell'uomo nuovo traduce perfettamente una realtà psicologica |
33 | Nel pentimento il soggetto già si sente sul cammino della riparazione; nel rimorso questo cammino non è stato ancora trovato e perciò l'effetto della colpevolezza è più doloroso (R. Zavalloni, o. c., alla nota 16, 15) |
34 | P. L. Beirnaert, o. c. alla nota 1 |
35 | Evangelizzazione e sacramento della penitenza, Documento Pastorale della CEI, parte 1, n. 56. Ci sembra proprio che l'Hesnard non abbia capito questi due punti fondamentali: è la consapevolezza della volontà di opposizione a Dio, cioè di quel peccato interiore che egli vuoi eliminare, che assicura la dialettica morale e quindi il rinnovamento dell'uomo; l'angoscia del vissuto di peccato trova per il cristiano la sua risoluzione nel pentimento e nella certezza dell'amore di Dio |
36 | M. Scheler, o. c. alla nota 18, 171. Sottolineando il fatto che il pentimento è sentito come un momento di grazia, non vogliamo certo escludere che l'uomo debba rendersi consapevolmente disponibile a questo dono e ne sia poi responsabile. « Il perdono di Dio non solo non lo dispensa dall'uso della propria libertà, ma gli affida più che mai un'attività di ristrutturazione e di riparazione, la quale più che punizione del peccatore, costituisce il segno della grandezza dell'uomo redento » (J. M. Pohier, Psicologia e teologia, Roma 1971, 443) |
37 | Ph. Lersch, La struttura del carattere, Padova 1950, 135 |
38 | R. Le Senne ha assimilato alla coscienza morale il dubbio metodico (Le Devoir, Parigi 1950, 13-17) |
39 | K. Jaspers, Psicopatologia generale. Roma 1964, 145; K. Schneider, Psicopatologia cllnica, Firenze 1967, 16 |
40 | K. Jaspers, o. c., 146 |
41 | A. Berge, L'éducation fective, Parigi 1952. 155 |
42 | Vedi sopra, nota 25 |
43 | H. Ey, La psychiatrie devant la morale in o., c. alla nota 16, 54 |
44 | L. Beirnaert, o. c. alla nota 1, 40 |
45 | Sul piano più propriamente pastorale bisognerà aiutare il penitente ad acquistar fiducia nell'amore di Dio, orientarlo verso la virtù dell'umiltà (che risolve uno dei principali tratti della personalità dello scrupoloso e dell'ossessivo, cioè l'egocentrismo che si traduce nell'orgoglio) e infine rieducare la sua coscienza |
46 | Analogamente, parlando del pentimento, abbiamo distinto (sopra, poco dopo la nota 29, nel testo) l'atto di contrizione (che è atto di volontà, dolor in voluntate) dalla colpevolezza emozionale |
47 | K. Jaspers, o. c. nota 38, 475; K. Schneider, Les person naiités psychopatiques, Parigi 1955, 117 |
48 | H. Ey, o. c. nota 42, 57 |
49 | Dal punto di vista filosofico è esatto parlare di libero arbitrio, ma da quello psicologico è forse più esatto parlare di volontà di liberazione. Infatti « la libertà umana non regna su di una natura perfettamente gerarchicizzata e trasparente, ma emerge da un complesso caotico, oscuro allo stesso soggetto che lo porta in seno » (P. MicheI-Marie de la Croix, Liberto et structure de l'acte humaine in Limites de l'humaine, Parigi 1953, 95). E il cammino verso la libertà è lungo e difficile, poiché la libertà espone al rischio dell'ansia. È infatti più pacifico per l'uomo fuggire le proprie responsabilità affidandosi al super-io o cedendo all'es. Nel più autentico divenire umano assistiamo invece ad una progressiva maturazione della libertà: si tratta proprio di quella vocazione di cui parla s. Paolo in Gai. La volontà di libertà presuppone ovviamente un minimo di libera volontà |
50 | H. Bergson, o. c. alla nota 8, 106 |
51 | K. Jaspers, o. c., alla nota 38, 777 |
52 | L. Bini, T. Bazzi, Trattato di psichiatria, Milano 1967, II, 205 |
53 | Precisiamo che il carattere di immediatezza non elimina quello di storicità dell'esperienza religiosa, la quale non nasce anonima proprio perché vive della totalità della persona e della vita. Sull'esperienza religiosa si vedano: C. Fabro, Dio, Roma 1953, 163ss; Aa. Vv,, Il problema dell'esperienza religiosa, Broscia 1961; G. van der Leeuw, o. c. alla nota 28, 359 e passim; R. Otto, Il sacro, Milano 1966; M. Scheler, o. e. alla nota 18, 364ss; A. Vergole, Psychologie religieuse, Bruxelles 1966, e. I; Aa. Vv., Piccoli e grandi davanti a Dio, Roma, Edizioni Paoline 1964; Aa. Vv., Dalla esperienza all'attitudine religiosa, Roma, Edizioni Paoline 1966; W. James, Le varie torme della coscienza religiosa, Milano 1945 |
54 | K. Jaspers, o. e. alla nota 3&, 116 |
55 | La, distinzione tra esperienza e comportamento religioso è importante anche per la confutazione dell'ipotesi freudiana sull'origine della religione. « La percezione religiosa precede i movimenti religiosi motivati dai desideri umani ». Ciò toglie l'equivoco che nasce dall'insistere su questa o quella motivazione e che riduce la esperienza religiosa a semplice espressione della nostra soggettività (A. Vergete, o. c., 78) |
56 | A. Vergete, o. c., 54-55 |
57 | G. W. Allport, Thè individuai and his religion, New York 1959 |
58 | Anche L. Ancona, La motivazione in Questioni di psicologia, Brescia 1962 |
59 | A. Ple, o. c. alla nota 10, 118 |
60 | G. F. Zuanazzi, Introduzione alla caratterologia, Torino 1972; C. G. Jung, Modern man in search of a soul, New York 1933, 264 |
61 | C. G. Jung, La psicologia del transfert, Milano 1961, 38 |
62 | Esistere deriva dal latino ex-sistere, e il vocabolo esprime propriamente la necessità per l'uomo di superare se stesso |
63 | J. Goetz, Le religioni dei preistorici e dei primitivi, Catania, Edizioni Paoline 1960, 140 |
64 | M. Eliade, Mito e realtà, Torino 1966, 40-42 |
65 | M. Eliade, Traile d'histoire des religions, Parigi 1948, 15-40 |
66 | C. Baudouin, Psicanalisi del simbolo religioso, Roma, Edizioni Paoline 1959 |
67 | R. Guardini, Scritti filosofici, Milano 1964, II, 210-211 |
68 | E. Cassirer, Saggio sull'uomo, Milano 1948; R. Guardini, I santi segni, Brescia 1960; G. Durand, L'imagination symbolique, Parigi 1968; J. Jacobi, Complesso, archetipo, simbolo, Torino 1971; M. Eliade, Images et symboles, Parigi 1968 |
69 | M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino 1957, 451 |
70 | Sulla mistica si vedano: J. Maréchai, Études sur la psychologie des mystiques, 2 voll., Parigi 1937-1938; Extase in DSp IV, 2, 2171-2182; H. Delacroix, Études d'histoire et de psychologie du misticismo, Parigi 1908; J. Lhermitte," Mistici e falsi mistici, Milano 1955; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma, Edizioni Paoline 1965»; G. van der Leeuw, o. e. alla nota 28, 383ss; I. Gobry, L'esperienza mistica, Catania, Edizioni Paoline 1965; H. Ey, Traile des hallucinations, Parigi 1973, I, 670ss; H. Thurston, Fenomeni fisici del misticismo, Roma 1956. L'equivoco di identificare la mistica con quanto presenta di straordinario e di spettacolare portò, da un lato, a valutare il grado dell'esperienza mistica dalla profondità dell'estasi; dall'altro, ad assimilare il comportamento del mistico a quello del malato di mente |
71 | Aa. Vv., Technique et Contemplation, Bruges 1949 |
72 | B. Cyrulnik, Biologie du myslicisme in Enc. Med.-Chir., Psychiatrie, 37888 A |
73 | Ibidem |
74 | S. Giovanni della Croce, Notte oscura e Salita, passim; s. Teresa d'Avila. Relazioni spirituali, specie 4. Al sommo della mistica, quando la contemplazione è abituale e l'unione perfetta, l'estasi non compare più, essendo essa l'espressione di una integrazione non ancora completamente raggiunta |
75 | Si pensi alle grandi "epidemie psichiche" a carattere religioso dei sec. XVI e XVII, e in particolare alle epidemie di possessione diabolica, dovute all'isteria, che avvenivano nei conventi e sulle quali gli esorcismi avevano un effetto nefasto. La possessione, in senso proprio, è una modificazione della coscienza dell'unità dell'io. Si tratta di un'esperienza di sdoppiamento per cui il malato si sente "come diviso" o, meglio, "come se avesse due anime" che esistono contemporaneamente pur essendo l'una estranea all'altra. Si parla anche di possessione quando si fa l'esperienza interiore allucinatoria di una personalità estranea alla propria o in presenza di particolari fenomeni di coazione (cf K. Jaspers, o. c. alla nota 38, 134 e 784). Esperienze di possessione diabolica si trovano in isterici e paranoidi (il famoso caso Surin) |
76 | H. Ey, o. c. alla nota 42, 306ss e 883ss; J. Lhermitte, o, c. alla nota 69. 145ss |
77 | S. Francesco di Sales, Teotimo, 1. 7, c. 7 |
78 | J. NuKin, Psicanalisi e personalità, Alba, Edizioni Paoline 1960 (1969) 193 |
79 | Ibidem, 193ss |
80 | P. Janet, De l'angoisse a l'extase, Parigi 1926 |
81 | J, H. Lauba, La psicologia del misticismo religioso, Milano 1960 |
82 | È vero che il simbolismo coniugale ritorna con insistenza nell'esperienza mistica; ma è necessario guardarsi dalle facili generalizzazioni per non concludere che il simbolismo dei mistici ha significato sessuale; è piuttosto l'unione sessuale che ha in sé un significato che la sorpassa, poiché ha intrinsecamente la capacità di significare la partecipazione a qualche cosa di misterioso e di grande (L. Beirnaert, La signification du symbolisme conjugal dans la vie mystique in Mystique et continence, Bruges 1952, 384) |
83 | J. Maréchai o. c. alla nota 69, II, 453ss |
84 | Ph. Lersch, o. c. alla nota 36, 65 |
85 | C. Baudouin, o. c. alla nota 12, 125 |
86 | G. W. Allport, Divenire, Firenze 1963, 134 |
87 | J, de Ajuriaguerra, L'isolation, technique de guérison, règie de vie, vote de perfectionnement in Désafférentatìon éxpérimentale et clinique, Symposium Bel-Air, Ginevra 1964 |
88 | K. Jaspers, o. c. alla nota 38, 835 |