Gli atti di Pelagio |
Pelagio fu contestato anche perché sembrava che avesse scritto nel suo libro: " Il male non viene nemmeno nel pensiero ".
Egli rispose però: " Non l'abbiamo messo così, ma abbiamo detto: - Il cristiano deve studiarsi di non pensare male - ".
I vescovi, com'era giusto, l'approvarono.
Chi dubita infatti che il male non dev'essere pensato?
E realmente, nel libro di Pelagio si legge così, con più esattezza, " per quanto riguarda il male: non dev'essere pensato ".
E questa frase si suole intendere nel senso che al male non ci si deve nemmeno pensare.
Chi lo nega che altro dice se non che si deve pensare al male?
E se questo fosse vero, non si direbbe nell'inno della carità: Essa non tiene conto del male ricevuto. ( 1 Cor 13,5 )
Tuttavia che " il male non viene nemmeno nel pensiero " dei giusti e dei santi non è detto con troppa esattezza, proprio perché si suole chiamare pensiero anche quando qualcosa viene in mente senza che gli tenga dietro il consenso.
Il pensiero invece che contrae colpa e giustamente si proibisce è quello a cui si accompagna il consenso.
Poté dunque capitare di leggere un codice difettoso a coloro che credettero di dover obiettare a Pelagio questa sua affermazione, come se egli dicendo: " Il male non viene nemmeno nel pensiero" avesse inteso che non viene in mente ai giusti e ai santi ciò che è male.
E questa è una sentenza certamente molto sballata: quando infatti noi riprendiamo dei mali, non li possiamo enunziare con le nostre parole se non dopo averli pensati.
Ma, come abbiamo detto, pensiero colpevole del male si chiama quel pensiero del male che si porta dietro il consenso al male.
Dopo dunque che i giudici ebbero approvato anche questa risposta di Pelagio, fu letto dal suo libro un altro passo: " Il regno dei cieli è stato promesso pure nel Testamento Antico ".
Pelagio rispose: " È possibile dimostrarlo anche per mezzo delle Scritture.
Gli eretici però lo negano in odio al Testamento Antico.
Io invece l'ho affermato seguendo l'autorità delle Scritture, perché nel profeta Daniele si legge: I santi dell'Altissimo riceveranno il regno ". ( Dn 7,18 )
Sentita la sua risposta, il Sinodo disse: " Nemmeno questo è contrario alla fede della Chiesa ".
Fu dunque senza ragione che tali parole di Pelagio turbarono i nostri fratelli così da contestare a lui tra le altre sue proposizioni anche questa? Certamente no.
In due modi però si è soliti usare la denominazione di Testamento Antico: uno secondo l'autorità delle divine Scritture, un altro secondo una consuetudine di parlare ormai divulgatissima.
L'apostolo Paolo dice per esempio ai Galati: Ditemi, voi che volete essere sotto la legge: non sentite quello che dice la legge? Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera.
Tali cose sono dette per allegoria: le due donne rappresentano i due Testamenti.
L'uno, quello che genera nella schiavitù è rappresentato da Agar - il Sinai è un monte dell'Arabia -.
Il Testamento del Sinai corrisponde alla Gerusalemme attuale, che di fatto è schiava insieme ai suoi figli.
Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre. ( Gal 4,21-22.24-26 )
Se dunque il Testamento Antico appartiene alla schiavitù ( tanto che è scritto: Manda via la schiava e il suo figlio, perché il figlio della schiava non avrà eredità col mio figlio Isacco ( Gen 21,10 ) ), se viceversa il regno dei cieli appartiene alla libertà, come può mai il regno dei cieli appartenere anche al Testamento Antico?
Ma poiché, come ho detto, siamo soliti parlare anche così da chiamare con il nome di Testamento Antico tutte le Scritture della Legge e dei Profeti che, somministrate prima dell'incarnazione del Signore, sono contenute nel canone autentico, chi mai, anche se solo mediocremente istruito nelle lettere ecclesiastiche, ignora che da quelle Scritture poté essere promesso il regno dei cieli allo stesso modo che da quelle Scritture fu promesso anche quel Testamento Nuovo a cui appartiene il regno dei cieli?
Certamente, infatti, in quelle Lettere sta scritto in modo esplicitissimo: Ecco, verranno giorni, dice il Signore, nei quali con la casa d'Israele e con la casa di Giacobbe io concluderò un Nuovo Testamento.
Non come il Testamento che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d'Egitto. ( Ger 31,31-32 )
La conclusione di questo Testamento avvenne sul monte Sinai e non era ancora vissuto il profeta Daniele che ha detto: I santi dell'Altissimo riceveranno il regno. ( Dn 7,18 )
Con tali parole infatti egli vaticinava il premio non del Testamento Vecchio, ma del Nuovo.
Come i medesimi profeti indicarono senz'altro lo stesso Cristo venturo con il cui sangue fu inaugurato il Testamento Nuovo, del quale sono stati fatti ministri gli Apostoli, dicendo il beato Paolo: Ci ha resi ministri adatti di un nuovo Testamento, non della lettera, ma dello Spirito, perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita. ( 2 Cor 3,6 )
Al contrario in quel Testamento che si dice propriamente Vecchio e che fu dato sul monte Sinai non si trova promessa in modo apertissimo se non la felicità terrena.
Perciò quella terra dove il popolo fu introdotto e condotto attraverso il deserto si chiama terra promessa.
In quella terra la pace e il regno e le vittorie sui nemici e l'abbondanza di figli e di frutti del suolo e altri beni simili sono le promesse del Testamento Vecchio.
E per quanto da questi beni siano simboleggiati i beni spirituali appartenenti al Testamento Nuovo, tuttavia chi accoglie la legge di Dio a motivo di quei beni terreni, costui è erede del Testamento Vecchio.
I beni che si promettono e si retribuiscono secondo il Testamento Vecchio sono appunto i beni che si desiderano secondo l'uomo vecchio.
Viceversa i beni che nel Testamento Vecchio sono simboleggiati come appartenenti al Testamento Nuovo reclamano uomini nuovi.
Né infatti ignorava il senso delle sue parole un Apostolo così grande che distingueva per significazione allegorica i due Testamenti nella donna schiava e nella donna libera, ( Gal 4,23 ) attribuendo al Testamento Vecchio i figli della carne e al Testamento Nuovo i figli della promessa: Non sono considerati, dice, figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa. ( Rm 9,8 )
I figli dunque della carne appartengono alla Gerusalemme terrena che è schiava insieme ai suoi figli, i figli invece della promessa appartengono alla Gerusalemme di lassù, nostra libera madre eterna nei cieli. ( Gal 4,26 )
Da qui si capisce chi siano quelli che appartengono al regno terreno e quelli che appartengono al regno celeste.
Coloro che anche a quei tempi per grazia di Dio capirono questa distinzione e diventarono figli della promessa, furono considerati nell'occulto disegno di Dio eredi del Testamento Nuovo, benché abbiano osservato il Testamento Vecchio dato da Dio al vecchio popolo in modo ad esso appropriato, secondo la distribuzione dei tempi.
Come dunque non avrebbero dovuto giustamente allarmarsi i figli della promessa, i figli della libera Gerusalemme eterna nei cieli, quando sembrava che le parole di Pelagio togliessero via tale distinzione apostolica e cattolica e volessero far credere che in qualche modo si equiparava Agar a Sara?
Pelagio dunque, con eretica empietà, non offende di meno la Scrittura del Vecchio Testamento di chi con sfrontatezza di sacrilega empietà nega la sua origine dal Dio buono, sommo e vero, come Marcione, come Manicheo e come qualunque altra peste che la pensi alla stessa maniera.
Per compendiare quindi con la massima brevità il mio pensiero su questo tema, dico: Come si offende l'Antico Testamento negando l'origine dei suoi Libri dal Dio buono e sommo, così si offende anche il Testamento Nuovo equiparandolo come patto al Testamento Vecchio.
Ma poiché Pelagio nella sua risposta diede la ragione per cui aveva detto che anche nel Testamento Antico viene promesso il regno dei cieli, citando il testo del profeta Daniele, il quale vaticinò apertissimamente che i santi avrebbero ricevuto il regno dell'Altissimo, giustamente fu giudicata non contraria alla fede cattolica la sua affermazione.
Infatti la frase di Pelagio sarebbe erronea secondo la distinzione per cui sul monte Sinai si mostra che al Vecchio Testamento appartengono propriamente promesse terrene, ma non è erronea secondo la consuetudine di parlare per cui tutte le Scritture canoniche somministrate prima dell'incarnazione del Signore si sommano nella denominazione di Vecchio Testamento.
Senza dubbio il regno dell'Altissimo non è altro che il regno di Dio.
Oppure qualcuno oserà sostenere che altro è il regno di Dio e altro il regno dei cieli?
Dopo fu obiettato a Pelagio d'aver detto nel suo libro: "L'uomo se vuole può esser senza peccato " e d'aver scritto in modo adulatorio ad una vedova: " Presso di te trovi la pietà il posto che non ha trovato mai presso nessuno, trovi in te la sua sede la giustizia che è sempre pellegrina, diventi a te familiare ed amica la verità che ormai nessuno più conosce, e la legge di Dio che è disprezzata quasi da tutti gli uomini da te sola sia onorata ".
A lei ancora: "O te felice e beata, se la giustizia, che in cielo soltanto si deve credere stare di casa, presso di te soltanto sia trovata sopra la terra".
E in un altro libro, a seguito dell'orazione del nostro Signore e Salvatore, insegnando come i santi devono pregare, dice alla medesima vedova: " A Dio degnamente eleva le mani ed effonde le sue suppliche con buona coscienza colui che può dire: - Tu sai, o Signore, quanto sante, innocenti, monde da ogni villania iniquità e rapina sono le mani che apro a te, come sono giuste, pure, libere da ogni menzogna le labbra con le quali offro a te la mia preghiera, perché tu abbia misericordia di me -".
Nel rispondere a tale obiezione Pelagio disse: " Abbiamo detto, sì, che l'uomo se vuole può esser senza peccato e osservare i comandamenti di Dio, perché Dio gli ha dato questa possibilità.
Non abbiamo detto invece che si trovi qualcuno il quale non abbia mai peccato dalla sua infanzia fino alla vecchiaia, ma che, una volta convertito dai suoi peccati, l'uomo può vivere senza peccato con la propria fatica e con la grazia di Dio, senza tuttavia che non possa più per questo pervertirsi in avvenire.
Quanto poi agli altri passi che hanno fatto seguire, essi né si trovano nei nostri libri, né abbiamo mai detto nulla di simile ".
Udita tale risposta, il Sinodo disse: " Poiché tu neghi di aver scritto tali testi, anatematizzi tu coloro che sostengono tali errori? ".
Pelagio rispose: " Li anatematizzo come stolti e non come eretici, perché non è un dogma ".
A quel punto i vescovi sentenziarono dicendo: " Poiché ora Pelagio ha anatematizzato con la propria voce un'anonima stoltezza rispondendo esattamente che l'uomo con l'aiuto e la grazia di Dio può essere senza peccato, risponda anche alle altre imputazioni ".
Avrebbero forse potuto o dovuto i giudici in quella occasione condannare espressioni anonime ed incerte, quando dall'altra parte non c'era nessuno che convincesse Pelagio d'aver scritto quelle riprovevoli frasi che si dicevano indirizzate ad una vedova?
In tal caso sarebbe valso a poco portare fuori un codice e leggere queste proposizioni dagli scritti di Pelagio, se non si adducevano anche dei testimoni, qualora egli negasse come suoi quegli scritti nel momento stesso che fossero declamati.
Tuttavia anche allora i giudici fecero ciò che poterono, interrogando Pelagio se anatematizzasse quanti sostengono le opinioni ch'egli negava d'aver scritte o dette.
Quando egli rispose che le anatematizzava come stolte, che cosa dovevano chiedere di più i giudici su questo punto in assenza degli accusatori?
Dobbiamo esaminare forse anche se sia stato esatto dire: "Sono da anatematizzare non come eretici, ma come stolti, coloro che sostengono tali errori, perché non è un dogma"?
Ma da una simile non lieve questione, di ricercare come si debba definire un eretico, fecero bene i giudici ad astenersi sul momento.
Se per esempio uno dicesse che gli aquilotti, tenuti sospesi dagli artigli del foro padre ed esposti ai raggi del sole, vengono fatti cadere a terra come degeneri se battono gli occhi - prendendo la luce quasi come una prova perentoria -, qualora ciò risulti eventualmente falso, costui non è da giudicarsi eretico.
E tale opinione, poiché si trova in libri di persone dotte ed è largamente accettata per fama, né si deve giudicare una stupidaggine, anche ammesso che non sia vera, né a crederla reca danno o giovamento alla nostra fede per la quale siamo chiamati fedeli.
Invece, se fondandosi su questo istinto uno volesse sostenere che negli uccelli ci sono delle anime razionali perché è convinto che in essi vengono degradate le anime umane, allora, sì, sarebbe davvero una peste ereticale da allontanare dagli orecchi e dalle menti.
Anche se fosse vero quello che si dice delle aquile, come sono veri delle api tanti meravigliosi fatti che accadono sotto i nostri occhi, dovremmo tuttavia far di tutto per dimostrare che dall'istinto, per quanto mirabile di questi animali irragionevoli, dista moltissimo la ragione, che non è comune agli uomini e alle bestie, bensì agli uomini e agli angeli.
Molte poi sono le strampalerie, anche stolte, che vengono dette da persone ignoranti e sciocche, ma non per questo eretiche.
Come quelle di coloro che giudicano a caso l'arte altrui che non conoscono o di coloro che, con passione smodata e cieca, lodano chi amano o vituperano chi odiano.
Come anche tutto quello che, nei modi abituali di esprimersi degli uomini, viene detto a voce o anche a penna e consegnato alle lettere non per fissare un dogma, ma tanto per dire, secondo le circostanze, con superficiale stoltezza.
Molte di coteste persone, appena avvisate, si pentono subito d'aver detto tali sciocchezze: evidentemente non le sostenevano con attaccamento come punti fermi, ma le avevano raccattate da qualsiasi parte quasi a volo e sciorinate senza riflettere.
È difficile esser esenti da questi mali: chi è che non sdrucciola con la lingua e non pecca con le parole? ( Sir 19,16; Gc 3,2 )
Ma interessa quanto uno pecchi, interessa perché pecchi, interessa infine se dopo esser stato avvertito si corregge o invece difendendosi con pertinacia fa diventare dogma ciò che aveva detto superficialmente e non dogmaticamente.
Poiché dunque ogni eretico è per conseguenza logica anche stolto, ma non ogni stolto è subito da chiamarsi eretico, giustamente i giudici dissero che Pelagio aveva anatematizzato con la propria voce un'anonima stoltezza, perché, pur non essendo un'eresia, era certamente una stoltezza.
Perciò, qualunque sia la sua identità, l'hanno chiamata con il nome del vizio generico della stoltezza.
Quanto poi a quelle affermazioni, se fossero state fatte con una qualche pertinacia dogmatica, oppure senza una sentenza ferma e definitiva, ma con leggerezza facilmente emendabile, i vescovi non credettero di doverle esaminare in quel momento, perché colui che veniva ascoltato aveva negato che fossero sue, qualunque fosse il modo in cui erano state fatte.
Per la verità, quando noi leggemmo quest'autodifesa di Pelagio in quel fascicolo che avevamo già ricevuto prima, erano presenti alcuni nostri santi fratelli, i quali dissero d'essere in possesso di libri di Pelagio, scritti per esortare o consolare una certa vedova di cui non si faceva il nome, ed insisterono sul nostro dovere d'indagare se in quei libri si trovassero scritti o no quei brani che Pelagio negò suoi, perché essi stessi asserivano d'ignorarlo.
Si cominciò allora a leggere da capo quei libri e i brani ricercati furono rintracciati.
Ora, coloro che avevano fornito il codice assicuravano d'aver cominciato a possedere quei libri come libri di Pelagio da quasi quattro anni e di non aver mai sentito avanzare da nessuno il dubbio che fossero suoi.
Pertanto, considerando che non potevano mentire su questo fatto quei servi di Dio di cui conoscevamo ottimamente l'onestà, sembrava non restarci altro che credere piuttosto ad una menzogna di Pelagio nel tribunale dei vescovi, se non ci fosse venuto il pensiero anche d'un'altra ipotesi: poteva esser stato scritto tanto tempo fa qualche libro sotto il nome di Pelagio, che tuttavia non fosse suo.
Infatti cotesti nostri fratelli non dicevano d'aver ricevuto da Pelagio in persona quei libri, né dicevano d'aver sentito dire da lui stesso che erano proprio suoi.
Anche a me è capitato che alcuni nostri fratelli hanno detto che erano arrivati in Spagna sotto il mio nome certi libri che a colpo sicuro non venivano riconosciuti autentici da coloro che avevano letto altre nostre opere, e tuttavia da altri si credevano nostri.
Certo, quello che Pelagio riconobbe come suo rimane ancora pieno di nascondigli, ma penso che verrà alla luce nelle parti successive di questi Atti.
Dichiarò Pelagio: " Abbiamo detto, sì, che l'uomo se vuole può esser senza peccato e osservare i comandamenti di Dio, perché Dio gli ha dato questa possibilità.
Non abbiamo detto invece che si trovi qualcuno il quale non abbia mai peccato dalla sua infanzia fino alla vecchiaia, ma che, una volta convertito dai suoi peccati, l'uomo può vivere senza peccato con la propria fatica e con la grazia di Dio, senza tuttavia che non possa più per questo pervertirsi in avvenire ".
In queste parole rimane assolutamente indecifrabile che cosa Pelagio intenda per grazia di Dio.
È certo che i giudici, cattolici com'erano, non poterono intendere altra grazia all'infuori di quella che l'Apostolo raccomanda moltissimo a noi con la sua dottrina.
È questa infatti la grazia per la quale noi speriamo di poter esser liberati dal corpo di questa morte per Gesù Cristo nostro Signore. ( Rm 7,24-25 )
7 - Ed è per impetrare tale grazia che noi preghiamo di non entrare in tentazione. ( Mt 6,13 )
Questa grazia non è la natura, ma quella che soccorre la fragile e viziata natura.
Questa grazia non è la conoscenza della legge, ma quella di cui l'Apostolo dice: Non annullo la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, il Cristo è morto invano. ( Gal 2,21 )
La grazia non è dunque la lettera che uccide, bensì lo Spirito che dà vita. ( 2 Cor 3,6 )
La conoscenza della legge senza la grazia dello Spirito solleva nell'uomo ogni concupiscenza.
Scrive l'Apostolo infatti: Io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare.
Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di concupiscenza. ( Rm 7,7-8 )
E dicendo questo non è che vituperi la legge, anzi la loda per giunta con le seguenti parole: La legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento.
E prosegue: Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero.
È invece il peccato: esso per rivelarsi peccato mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene. ( Rm 7,12-13 )
E loda di nuovo la legge dicendo: Sappiamo che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato.
Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto.
Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona. ( Rm 7,14-16 )
Ecco qui: conosce la legge, loda la legge, consente alla legge, cioè ne sente la bontà, perché quello che essa comanda questo stesso anche egli vuole, quello che essa vieta e condanna questo stesso anch'egli detesta, e ciò nonostante quello che detesta egli lo fa.
Ha dunque dentro di sé la conoscenza della legge santa, né tuttavia guarisce in lui la concupiscenza viziosa.
Ha dentro di sé la volontà buona e prevale in lui l'attività cattiva.
È per questo che in mezzo a due leggi in contrasto tra loro, contrastando alla legge dello spirito la legge delle membra e riducendo l'uomo in schiavitù sotto la legge del peccato, ( Rm 7,23 ) l'Apostolo consapevole di ciò esclama e dice: Sono uno sventurato!
Chi mi libererà dal corpo di questa morte? La grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore. ( Rm 7,24-25 )
Non la natura dunque, che venduta come schiava del peccato e ferita dal vizio desidera il suo Redentore e Salvatore, non la conoscenza della legge, che ci dà il conoscimento e non il superamento della concupiscenza, ci libera dal corpo di questa morte, bensì la grazia del Signore per Gesù Cristo nostro Signore. ( Rm 7,24-25 )
9 - Questa grazia non è la natura che muore, né la lettera che uccide, ma lo Spirito che dà vita.
Paolo infatti aveva già la natura con l'arbitrio della volontà ( tanto da dire: C'è in me il desiderio del bene ( Rm 7,18 ) ), ma non aveva la natura in possesso della propria sanità e senza vizio ( e per questo diceva: Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene ( Rm 7,18 ) ).
Aveva già la conoscenza della legge santa ( tanto da dire: Io non ho conosciuto il peccato se non per la legge ( Rm 7,7 ) ), ma non aveva la forza di fare la giustizia e di farla perfettamente, e diceva: Non quello che voglio, io faccio, ma quello che detesto, e anche: Non c'è in me la capacità di attuare il bene. ( Rm 7,15.18 )
Perciò non invocava né l'arbitrio della volontà né il precetto della legge per esser liberato dal corpo di questa morte, ( Rm 7,24 ) perché li aveva già ambedue, il primo nella natura e il secondo nella dottrina, ma invocava l'aiuto della grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore. ( Rm 7,24-25 )
Logicamente i vescovi credettero affermata da Pelagio questa grazia che sapevano notissima nella Chiesa cattolica, quando gli sentirono dire che l'uomo " una volta convertito dai suoi peccati, può vivere senza peccato con la propria fatica e con la grazia di Dio ".
Per me invece non è così.
Nel libro che mi diedero da confutare alcuni servi di Dio che erano stati discepoli di Pelagio e che, sebbene affezionatissimi a lui, assicurarono esser suo Pelagio pose a se stesso la questione della grazia di Dio, perché aveva già urtato moltissimi il fatto che parlasse contro di essa.
Ebbene in quel libro egli ha dichiarato apertissimamente: " Questa è che io dico grazia di Dio: la possibilità di non peccare che la nostra natura ha ricevuta nel momento d'esser creata, essendo stata creata con il libero arbitrio ".
Io dunque, dicevo, per questo libro, ma moltissimi nostri fratelli per le discussioni di Pelagio, delle quali essi dicono d'essere molto al corrente, siamo tuttora preoccupati dell'ambiguità di coteste sue parole, per paura che in esse si nasconda malauguratamente qualche tranello.
Abbiamo paura in realtà che in seguito Pelagio possa svelare ai suoi discepoli d'aver risposto in quel modo senza recare nessun pregiudizio al suo dogma, ragionando così: " Ho asserito, sì, che con la propria fatica e la grazia di Dio l'uomo può vivere senza peccato, ma voi conoscete benissimo che cosa chiamo grazia e rileggendo potrete rammentarvi che essa è la condizione nella quale siamo stati creati con il libero arbitrio ".
Mentre invece i vescovi, credendo che Pelagio parlasse non della grazia per la quale siamo stati fatti creature umane, ma di quella per la quale siamo stati adottati per diventare creature nuove - questa è appunto la grazia raccomandata con tanta evidenza dalla Scrittura divina -, senza avvedersi che Pelagio era eretico l'assolsero come cattolico.
Mi tiene in sospetto anche il fatto che Pelagio, mentre nel medesimo libro da me confutato aveva detto nella maniera più chiara che " il giusto Abele non peccò mai in nessun modo ", ora dichiara: " Non abbiamo detto invece che si trovi qualcuno che non abbia mai peccato dalla sua infanzia alla vecchiaia, ma che, una volta convertito dai suoi peccati, l'uomo può vivere senza peccato con la propria fatica e con la grazia di Dio ".
Del giusto Abele al contrario non aveva scritto che, una volta convertito dai suoi peccati, fu senza peccato per il resto della sua vita, ma che " non peccò mai in nessun modo ".
Perciò se quel libro è suo, dev'esser certamente corretto secondo la sua risposta.
Non lo voglio accusare d'aver mentito adesso, perché non venga fuori a dire d'aver dimenticato quello che aveva scritto nel libro.
Vediamo dunque il resto.
Seguono negli Atti ecclesiastici dei particolari con i quali possiamo dimostrare, aiutandoci Dio, che, anche discolpato Pelagio, come ad alcuni sembra, in quell'interrogatorio e assolto davanti a giudici che erano certamente soltanto degli uomini, questa siffatta eresia, che non vorremmo né veder progredire ulteriormente né diventare ancora peggiore di quello che è, fu senza dubbio condannata.
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