La città di Dio |
E a ragione in nessuna parte dei sacri libri canonici si può trovare che ci sia stato ordinato o permesso di ucciderci per raggiungere l'immortalità ovvero per evitare o liberarsi dal male.
Al contrario si deve intendere che ci è stato proibito in quel passo in cui la Legge dice: Non uccidere.
Da sottolineare che non aggiunge "il tuo prossimo", come quando proibisce la falsa testimonianza: Non fare falsa testimonianza contro il tuo prossimo. ( Es 20,13.16 )
Tuttavia se qualcuno testimoniasse il falso contro se stesso, non si può reputare immune da questo reato, perché chi ama ha ricevuto da se stesso la misura dell'amore al prossimo.
È stato detto appunto: Amerai il prossimo tuo come te stesso. ( Mt 22,39 )
Dunque non è meno reo di falsa testimonianza chi testimonia il falso di se stesso che se lo facesse contro il prossimo, sebbene nel comandamento con cui si proibisce la falsa testimonianza, è proibita contro il prossimo e a chi non interpreta rettamente potrebbe sembrare che non è proibito presentarsi come falso testimonio contro se stesso.
A più forte ragione dunque si deve intendere che non è lecito uccidersi, giacché nel precetto Non uccidere, senza alcuna aggiunta, nessuno, neanche l'individuo cui si dà il comandamento, si deve intendere escluso.
Da ciò alcuni tentano di estendere il comandamento anche alle bestie selvatiche e domestiche, sicché non sarebbe lecito ucciderne alcuna.30
Perché dunque non anche alle erbe e a tutti i vegetali che si alimentano attaccandosi al suolo con le radici?
Anche questi esseri, sebbene non abbiano sensazione, si considerano viventi e quindi possono anche morire e di conseguenza anche essere ammazzati, se si usa violenza contro di loro.
Per questo anche l'Apostolo, parlando dei loro semi, ha detto: Ciò che tu semini non prende vita se non muore; ( 1 Cor 15,36 ) e nel salmo è stato scritto: Uccise le loro viti con la grandine. ( Sal 78,47 )
Ma non per questo, quando si ode dire Non uccidere, si deve intendere che è proibito spezzare un ramoscello e prestar fede stupidamente all'errore dei manichei.
Lasciamo perdere queste teorie deliranti.
E quando si legge Non uccidere, non si deve intendere che sia stato detto degli alberi da frutto, perché non hanno senso, né degli animali irragionevoli che volano, nuotano, camminano, strisciano perché non sono congiunti a noi dalla ragione.
Non è stato dato loro di averla in comune con noi.
E per questo con giustissimo ordinamento del Creatore la loro vita e morte è stata subordinata alla nostra utilità.
Rimane dunque che s'intenda dell'uomo il detto Non uccidere, quindi né un altro né te.
Chi uccide se stesso infatti uccide un uomo.
Lo stesso magistero divino ha fatto delle eccezioni alla legge di non uccidere.
Si eccettuano appunto casi d'individui che Dio ordina di uccidere sia per legge costituita o per espresso comando rivolto temporaneamente a una persona.
Non uccide dunque chi deve la prestazione al magistrato.
È come la spada che è strumento di chi la usa.
Quindi non trasgrediscono affatto il comandamento con cui è stato ingiunto di non uccidere coloro che han fatto la guerra per comando di Dio ovvero, rappresentando la forza del pubblico potere, secondo le sue leggi, cioè a norma di un ordinamento della giusta ragione, han punito i delinquenti con la morte.
Così Abramo non solo non ha avuto la taccia di crudeltà ma è stato anche lodato per la pietà perché decise di uccidere il figlio non per delinquenza ma per obbedienza. ( Gen 22,1-19 )
E a buona ragione si discute se si deve considerare come comando di Dio il caso per cui Iefte sacrificò la figlia che gli andò incontro, giacché aveva fatto voto di immolare a Dio l'essere che per primo gli fosse andato incontro dopo la vittoria. ( Gdc 11,29-39 )
Non altrimenti è scusato Sansone per il fatto che si fece schiacciare assieme ai nemici nel crollo della casa, ( Gdc 16,30 ) giacché una ispirazione divina, che per suo mezzo compiva prodigi, glielo aveva comandato interiormente.
Eccettuati dunque questi casi, in cui una giusta legge in generale o in particolare Dio, sorgente stessa della giustizia, comandano di uccidere, è responsabile del reato di omicidio chi uccide se stesso o un altro individuo.
Coloro che si sono uccisi, se forse sono da ammirare per grandezza d'animo, non sono da lodare per rettitudine di giudizio.
E se si esamina attentamente la ragione, non si dovrà considerare neanche grandezza d'animo se qualcuno si uccide perché non è capace di sopportare le varie difficoltà o i peccati altrui.
Piuttosto si giudica come carattere debole quello che non può tollerare la difficile soggezione della propria sensibilità o la stolta opinione del volgo.
Si deve considerare animo più nobile quello che riesce a tollerare piuttosto che a fuggire la vita di stento e a disprezzare alla chiara luce della coscienza il giudizio degli uomini e soprattutto della massa che il più delle volte è avvolto nella foschia dell'errore.
E per questo se si deve ritenere un atto di coraggio quando un uomo si dà la morte, si riscontra che ebbe questa grandezza d'animo piuttosto Teombroto.31
Dicono che letto il libro di Platone, in cui questi ha disputato dell'immortalità dell'anima, si gettò da un muro e così da questa vita andò a quella che reputava migliore.
Non lo sovrastava nessun caso vero o falso di sventura o di diceria tale che, non potendolo sopportare, si dovesse uccidere.
A scegliere la morte e spezzare i dolci legami alla vita gli bastò la sola grandezza d'animo.
Tuttavia lo stesso Platone, che aveva letto, poteva insegnargli che fu un gesto più di coraggio che di onestà.32
Questi infatti l'avrebbe fatto certamente per singolare preferenza e anche comandato, se in base all'idea che ebbe dell'immortalità dell'anima non avesse giudicato che non si deve fare, anzi che si deve proibire.
Ma, dicono, molti si sono uccisi per non cadere in mano dei nemici.
Adesso non stiamo discutendo se è avvenuto ma se doveva avvenire.
La retta ragione si deve anteporre anche agli esempi.
Con essa possono concordare anche gli esempi, ma quelli che sono tanto più degni di imitazione quanto più segnalati per religiosità.
Non l'han fatto i patriarchi, non i profeti, non gli Apostoli.
Lo stesso Cristo Signore, quando consigliò quest'ultimi, se soffrivano persecuzione, di fuggire di città in città, ( Mt 10,23 ) poteva consigliarli di uccidersi per non cadere in mano dei persecutori.
E se egli non ha né comandato né consigliato che uscissero in questo modo dalla vita i suoi, ai quali, una volta usciti, aveva promesso di preparare una dimora nell'eternità, ( Gv 14,2 ) qualunque sia l'esempio che propongono i pagani i quali non conoscono Dio, è chiaro che non è lecito seguirlo da coloro che adorano l'unico vero Dio.
Ma anche essi, dopo Lucrezia sulla quale ho sufficientemente espresso la mia opinione, non trovano tanto facilmente qualcuno, sulla cui autorevolezza appoggiarsi, se non il famoso Catone che si uccise a Utica.33
Certamente non è il solo ad averlo fatto, ma siccome era stimato uomo dotto e onesto, a ragione si potrebbe ritenere che onestamente si sia potuto o si possa fare ciò che ha fatto.
Ma che dovrei dire del suo gesto?
Dico principalmente che i suoi amici, anche essi dotti, che più saggiamente lo sconsigliavano dal farlo, giudicarono il gesto più d'un uomo debole che forte perché in esso si rilevò non l'onestà che evita il disonore ma la debolezza che non regge all'avversità.
Lo indicò Catone stesso nei confronti del suo figlio carissimo.
Se era disonorevole vivere dopo la vittoria di Cesare, per qual motivo consigliò al figlio tale disonore giacché gli ordinò di affidarsi in tutto alla clemenza di Cesare?34
Perché non lo indusse a morire con sé?
Se Torquato, meritandosi lode, uccise il figlio, pur vincitore, che contro l'ordine aveva combattuto i nemici,35 perché Catone vinto risparmiò il figlio vinto se non risparmiò se stesso?
Oppure era più disonorevole esser vincitore contro il comando che tollerare contro l'onore un vincitore?
Dunque non ha affatto giudicato che fosse disonorevole vivere dopo la vittoria di Cesare.
Altrimenti con la propria spada avrebbe liberato il figlio da questo disonore.
Che dire allora? Ma che egli, quanto amò il figlio che desiderò e volle fosse risparmiato da Cesare, tanto invidiò la gloria dello stesso Cesare, o per parlare con maggiore indulgenza, si vergognò di essere perdonato da lui, come si racconta che Cesare stesso ebbe a dire.36
Questi nostri oppositori non vogliono che reputiamo migliori di Catone il santo uomo Giobbe, che preferì sopportare nel suo corpo mali tanto atroci anziché, dandosi la morte, liberarsi da tutte le sofferenze, o altri santi che, secondo la nostra letteratura, la più illustre per sicura autorevolezza e la più degna di fede, preferirono la schiavitù sotto il dominio dei nemici anziché darsi la morte.
Comunque stando alla loro letteratura preferirei a Marco Catone il già ricordato Marco Regolo.
Catone infatti non aveva mai vinto Cesare e vinto sdegnò di sottomettersi a lui e scelse di uccidersi per non sottomettersi.
Regolo invece aveva già vinto i Cartaginesi e da condottiero romano e con il comando di Roma non aveva riportato una biasimevole vittoria contro i concittadini ma una encomiabile vittoria sui nemici.
Ma in seguito vinto da loro preferì tollerarli nella schiavitù anziché sottrarsi ad essi con la morte.
Conservò quindi la sopportazione in balia dei Cartaginesi e la costanza nell'amore ai Romani perché non sottrasse dai nemici il corpo vinto e dai concittadini lo spirito invitto.
E che non volle uccidersi non lo fece per amore di questa vita.
Lo provò quando, a causa della promessa con giuramento, senza alcuna indecisione se ne tornò dagli stessi nemici che aveva danneggiato più con le parole in senato che con le armi in guerra.
Pertanto un così eroico sprezzatore della vita, per il fatto che preferì farla stroncare attraverso varie pene da crudeli nemici anziché uccidersi, senza dubbio ha insegnato che il suicidio è un grande delitto.
Tra tutti i loro uomini degni di lode e illustri per pregi di dignità umana i Romani non ne presentano uno più grande perché la fortuna non l'ha traviato, in quanto dopo una vittoria così splendida rimase molto povero,37 e la sfortuna non l'ha spezzato, in quanto seppe tornare intrepido verso torture così gravi.
Dunque uomini molto coraggiosi e difensori eccellenti della patria terrena, cultori non bugiardi di dèi bugiardi ai quali anzi prestavano un veritiero giuramento, potevano uccidere secondo l'usanza della guerra i nemici vinti, ma vinti dai nemici non vollero uccidersi e non temendo affatto la morte preferirono che gliela infliggessero i nemici anziché procurarsela da sé.
A più forte ragione quindi i cristiani, che adorano il vero Dio e sperano ardentemente la patria del cielo, si dovranno astenere da questo delitto se una disposizione divina, o per provarli o per correggerli, li rendesse schiavi per qualche tempo dei nemici.
Ma colui che, tanto alto, è venuto per loro a tanta bassezza non li abbandona a questa bassezza, soprattutto perché i diritti dell'autorità militare e dello stesso esercito non li obbligano a uccidere il nemico vinto.
Perché dunque dovrebbe insinuarsi un pregiudizio così malvagio che un individuo si debba uccidere o perché un nemico ha peccato o affinché non pecchi contro di lui, se egli non ardisce uccidere lo stesso nemico che ha peccato o peccherà?
Ma si deve temere ed evitare che il corpo sottoposto all'atto lussurioso adeschi la coscienza, con un piacere molto eccitante, ad acconsentire al peccato.
Dunque, affermano, ci si deve uccidere non a causa dell'altrui peccato ma del proprio prima di commetterlo.
Ma la coscienza, la quale fosse più sottomessa a Dio e alla sua sapienza che al corpo e alla sua concupiscenza, non giungerà al punto da acconsentire alla passione della propria carne accesa dalla passione altrui.
Tuttavia se è azione detestabile e delitto abominevole anche uccidersi, come dichiara l'evidente verità, non si può essere tanto insensati da dire: "Pecchiamo adesso per non peccare eventualmente dopo; adesso commettiamo un omicidio per non cadere dopo eventualmente in adulterio".
E se la disonestà è determinante al punto che non si scelga l'integrità ma il peccato, non è preferibile un adulterio incerto del futuro che un omicidio certo del presente?
Non è preferibile commettere una colpa che si espia col pentimento, anziché un delitto così grande, dopo il quale non si lascia il tempo a un salutare pentimento?
Ho detto queste cose per quelli o quelle che per evitare non l'altrui ma un proprio peccato e non consentire eventualmente alla propria passione provocata dall'altrui passione reputano di doversi infliggere una violenza tale da morirne.
Del resto non avvenga nella coscienza del cristiano che confida nel suo Dio e, posta la fiducia in lui, è sicuro nel suo aiuto, non avvenga, dico, che tale coscienza per qualsiasi diletto carnale ceda all'accettazione dell'atto disonesto.
La passione ribelle che sussiste ancora in un corpo moribondo ha il suo movimento quasi per una propria legge indipendentemente dalla legge del nostro volere.
A più forte ragione dunque è senza colpa nel corpo di chi non consente, se senza colpa può essere nel corpo di chi dorme.
Ma, dicono, alcune sante donne nel tempo della persecuzione, per sfuggire a coloro che insidiavano la loro pudicizia si sono gettate nel fiume che travolgendole le uccise, con quell'atto morirono e il loro martirio è ricordato con grande venerazione nella Chiesa cattolica.
Non oso giudicare arbitrariamente questi fatti.
Non so se un'autorità divina, sulla base di testimonianze degne di fede,38 ha indotto la Chiesa a onorare così la loro memoria.
Può anche essere che sia così. E se l'hanno fatto non perché umanamente ingannate ma perché ispirate, non per errore, ma per obbedienza?
Di Sansone, ad esempio, non è lecito credere diversamente.
Dio comanda e fa conoscere il suo comando senza possibilità di equivoco.
E allora chi potrebbe reputare reato l'obbedienza, chi potrebbe chiamare in causa l'ossequio della pietà?
Ma non per questo non commette delitto chi abbia deciso di sacrificare a Dio il proprio figlio con la giustificazione che Abramo l'avrebbe fatto meritandosi perfino lode.
Anche il soldato, quando obbedendo all'autorità sotto la quale è legittimamente costituito, uccide un individuo, non è reo di omicidio in base a qualche legge della sua città.
Anzi se non lo facesse, è reo di insubordinazione e di disprezzo all'autorità.
Che se lo fa di propria arbitraria autorità, incorrerebbe nel reato di spargimento di sangue umano.
Dunque per lo stesso motivo per cui è punito se lo ha fatto senza comando, sarà punito se non lo farà dopo il comando.
Che se è così per comando di un'autorità, a più forte ragione lo è per comando di Dio.
Chi dunque sa che non è lecito uccidersi, lo faccia pure se lo ha comandato uno di cui non è lecito trasgredire il comando.
Accerti soltanto che il comando divino non manchi di autenticità.
Noi ci rapportiamo alla coscienza mediante la parola, non possiamo arrogarci il giudizio dei pensieri nascosti.
Nessuno sa ciò che avviene nell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui. ( 1 Cor 2,11 )
Ma diciamo, affermiamo e dichiariamo in tutti i sensi che non ci si deve infliggere la morte volontaria col pretesto di sfuggire le sofferenze nel tempo perché si incorrerebbe in quelle eterne, o a causa del peccato di un altro perché si commette un proprio gravissimo peccato mentre l'altrui non contaminava, o a causa dei propri peccati passati giacché proprio per essi si ha maggior bisogno di questa vita allo scopo di riscattarli con la penitenza, o col pretesto del desiderio di una vita migliore che si spera dopo la morte perché la vita migliore non accoglie dopo la morte i responsabili della propria morte.
Avevo cominciato a parlare di un'altra ragione per cui si ritiene vantaggioso uccidersi, cioè per non cadere in peccato se il piacere lusinga o il dolore opprime.
Se si dovesse accettare questa ragione, essa si applicherebbe al punto da dover consigliare gli individui di uccidersi preferibilmente quando, mondati col lavacro della santa rigenerazione, hanno ottenuto il perdono di tutti i peccati.
Allora, quando sono stati rimessi tutti i peccati passati, è il momento di sfuggire a tutti i peccati futuri.
E se questo vantaggio si ottiene onestamente con la morte volontaria, perché non si ottiene preferibilmente allora?
Perché il battezzato si risparmia?
Perché espone ancora la propria persona ormai libera a tutti i pericoli di questa vita?
Sarebbe nel suo immediato potere col darsi la morte evitarli tutti, giacché è stato scritto: Chi ama il pericolo, cadrà in esso. ( Sir 3,27 )
Perché dunque si amano tanti e sì grandi pericoli o per lo meno, anche se non si amano, si accettano finché si rimane in questa vita, se è lecito andarsene?
O forse una strana bizzarria sconvolge il cuore e lo allontana dal considerare la verità?
Ci si dovrebbe uccidere per non cadere in peccato a causa del capriccio di un solo padrone e poi si decide che si deve vivere per sopportare il mondo pieno, a tutte le ore, di tentazioni, di quelle che si temono se si è in balia di un solo padrone e di altre innumerevoli, senza di cui questa vita non si tira avanti.
Per qual motivo dunque perdiamo il tempo nei consigli con cui, parlando ai battezzati, procuriamo di infervorarli sia alla integrità verginale sia alla continenza vedovile sia alla fedeltà del vincolo coniugale,39 se abbiamo delle scorciatoie migliori e lontane da tutti i pericoli di peccare?
Se potessimo convincere tutti costoro subito dopo la remissione dei peccati di affrontare la morte infliggendosela, li spediremmo più sani e puri al Signore.
Ma se qualcuno pensa di tentare e persuadere simile cosa, non dico che è un insensato, ma un pazzo.
Con quale faccia dice a un individuo: "Ammazzati per non aggiungere ai tuoi peccati leggeri uno più grave, giacché vivi sotto un padrone dissoluto per barbari costumi"?
Con grande disonestà viene a dire proprio questo: "Ammazzati ora che ti sono rimessi tutti i peccati per non commetterne altri eguali o anche peggiori, giacché vivi in un mondo dissoluto per tanti piaceri disonesti, forsennato per tante indicibili crudeltà, nemico per tanti errori e paure".
Poiché è nefandezza dirlo, è certamente nefandezza uccidersi.
Se infatti ci fosse una causa giusta per farlo deliberatamente, senza dubbio non ve ne sarebbe una più giusta.
Ma poiché questa non lo è, non ve n'è alcuna.
Quindi, o fedeli di Cristo, non sia di disgusto per voi la vostra vita perché la vostra castità è stata di ludibrio per i nemici.
Avete un grande e vero conforto se conservate la coscienza tranquilla per non avere acconsentito al peccato di coloro, ai quali fu concesso di peccare contro di voi.
E se eventualmente vi chiedete perché fu loro concesso, sublime è la provvidenza del creatore e ordinatore del mondo, i suoi giudizi non si possono conoscere e le sue vie non si possono scorgere. ( Rm 11,33 )
Interrogate tuttavia con sincerità la vostra anima se per caso vi siate insuperbite eccessivamente del bene della vostra integrità e continenza o pudicizia e, compiaciute delle lodi degli uomini, abbiate invidiato anche in questo bene le altre.
Non imputo ciò che ignoro e non posso ascoltare ciò che il vostro cuore interrogato vi risponde.
Tuttavia se vi rispondesse in quel senso, non vi meravigliate che abbiate perduto ciò per cui desideravate di piacere agli uomini e che vi sia rimasto ciò che non si può ostentare agli occhi degli uomini.
Se non avete acconsentito a chi peccava con voi, alla grazia divina affinché non fosse perduta si è aggiunto l'aiuto divino, alla gloria umana perché non fosse amata è subentrato l'umano disonore.
Consolatevi per l'uno e l'altro aspetto, o anime deboli, da una parte provate dall'altra castigate, da una parte trovate innocenti dall'altra colpevoli.
Il cuore di altre invece, se interrogato, potrebbe rispondere che non si sono inorgoglite del bene della verginità o della vedovanza o della fedeltà coniugale, ma nella comprensione verso donne di più bassa condizione hanno esultato del dono di Dio nel timore, ( Sal 2,11 ) non hanno invidiato ad alcuna il prestigio di eguale santità e castità.
Anzi non considerando la lode umana che di solito è accordata tanto più ampiamente quanto è più raro il bene che merita lode, hanno desiderato piuttosto che fosse maggiore il loro numero anziché distinguersi maggiormente in poche.
Anche quelle che sono così, se la dissolutezza dei barbari ne ha violentata alcuna, sappiano spiegarsi come il fatto è stato permesso, non pensino che Dio trascuri queste cose perché permette ciò che non si commette senza colpa.
Infatti certi pesi, per dir così, di malvagie passioni sono lasciati cadere per un attuale occulto giudizio divino e sono riservati a un giudizio ultimo palese.
Forse costoro che sono consapevoli di non avere avuto il cuore superbo per il dono della castità e tuttavia hanno subito violenza carnale, avevano qualche debolezza nascosta che poteva levarsi in orgoglio se fossero sfuggite all'umiliazione durante l'occupazione.
Come dunque alcuni sono stati tolti con la morte perché il male non corrompesse la loro intelligenza, ( Sap 4,11 ) così un qualche cosa è stato tolto ad esse con la violenza perché la buona sorte non corrompesse la loro moderazione.
Dunque alle une e alle altre, a quelle che erano già orgogliose del proprio corpo perché non aveva subito contatto disonesto di uomo e a quelle che forse potevano insuperbire se neanche dalla violenza dei nemici fosse stato toccato, è stata inculcata l'umiltà, non tolta la castità.
L'orgoglio delle prime è stato affrontato perché era dentro, a quello delle altre si è andato incontro perché stava per entrare.
Inoltre non si deve passar sotto silenzio questa considerazione.
Alcune delle donne violentate potevano ritenere che il bene della continenza è da annoverarsi fra i beni corporali, che rimane soltanto se il corpo non è contaminato da lussuria, che la santità del corpo e dello spirito non consiste nella forza della volontà aiutata da Dio e che non è un bene che si può togliere anche se lo spirito non vuole.
In tal caso questo loro errore è forse scomparso.
Quando riflettono infatti sulla coscienza con cui hanno prestato servizio a Dio e per fede incrollabile non pensano di lui che possa in alcun modo abbandonare coloro che prestano tale servizio e lo invocano e non possono dubitare in quale pregio egli tiene la castità, comprendono ciò che ne consegue.
Egli infatti non avrebbe permesso che quei fatti accadessero ai suoi santi, se in quel modo poteva esser perduta la santità che ha dato loro e che ama in loro.
Dunque tutta la servitù del sommo e vero Dio ha il suo conforto non menzognero e non fondato sulla speranza di cose incerte o caduche; ha anche la stessa vita terrena che non si deve affatto avere in uggia perché in essa la servitù stessa è educata alla vita eterna.
Come esule inoltre usa senza rendersene schiava dei beni terreni ed è o provata o purificata dai mali.
Ma alcuni insultano la sua moralità e le dicono, quando eventualmente incorre in determinate sciagure temporali: Dov'è il tuo Dio? ( Sal 42,4 )
Dicano loro piuttosto dove sono i loro dèi quando subiscono tali sventure giacché li onorano e si affaticano a farli onorare proprio per evitarle.
Essa può rispondere: "Il mio Dio è presente in ogni luogo, tutto in ogni luogo, non limitato nello spazio perché può esser presente senza rivelarsi, assente senza muoversi.
Quando mi sprona con le avversità, o soppesa i meriti o punisce i peccati e mi riserva una ricompensa eterna in cambio dei mali temporali religiosamente sopportati.
Ma voi chi siete ché si debba parlar con voi per lo meno dei vostri dèi e tanto meno del mio Dio?
Egli infatti è terribile su tutti gli dèi perché tutti gli dèi dei pagani sono demoni, il Signore invece ha creato i cieli ". ( Sal 96,4 )
Indice |
30 | Agostino, De haeres. 41, 1; Epifanio, Pan. 66, 28 |
31 | Cicerone, Tuscul. 1, 34, 84; Lattanzio, Div. inst. 3, 18, 9 |
32 | Platone, Fedone 61d; 66b ss |
33 | Seneca, Epp. 24, 6-8; 67, 7; De tranq. an. 16 |
34 | Livio, Per. 114; Appiano, De bello civ. 2, 98-99 |
35 | Livio, Ab Urbe cond. 8, 7, 20-21 |
36 | Plutarco, Cato minor 72; Appiano, De bello civ. 2, 99 |
37 | Livio, Per. 18; Valerio Massimo Facta et dicta mem. 4, 4 |
38 | Eusebio, Hist. eccl. 8, 12 |
39 | Agostino, Enarr. in ps. 45, 13; 57, 19; 60, 5; 136, 9; 143, 5: NBA, XXV; XXVI; XXVIII; Serm. 192, 2; 223, 1: NBA, XXXII/1 |