La città di Dio |
Mi pare di avere con i cinque libri precedenti disputato sufficientemente contro coloro che sostengono una moltitudine di falsi dèi.
Mentre la verità cristiana dimostra con evidenza che gli dèi sono idoli inutili o spiriti immondi e demoni funesti e comunque creature e non il Creatore, essi ritengono che si devono onorare e adorare per i vantaggi di questa vita mortale e dei beni terreni col servizio rituale che in greco si dice λατρεία e che si deve all'unico vero Dio.
Ma chi non sa che per la stupidità e caparbietà ad oltranza non possono bastare né i cinque libri già scritti né altri in qualsiasi numero?
Si ritiene appunto che gloria della menzogna sia non cedere alla forza della verità, a danno certamente di chi è dominato da un vizio così disumano.
Infatti è una malattia inguaribile a dispetto dell'abilità di chi la cura e quindi non per difetto del medico ma del malato incurabile.
Coloro invece che senza alcuna o almeno senza l'eccessiva ostinazione del vecchio errore soppesano le cose lette, dopo averle capite e meditate, giudicheranno facilmente che nella compilazione di questi cinque libri io ho sviluppato e svolto l'assunto di più che di meno di quanto l'argomento richiedesse.
C'è poi tutto il malanimo che gli illetterati si sforzano di creare per la religione cristiana dalle sventure di questa vita e dal rivolgimento della vicenda terrena.
I letterati, che sono invasati da una furiosa empietà, non solo fanno finta di non conoscerlo ma senz'altro, malgrado la propria consapevolezza, lo alimentano.
Però i lettori non ostinati non potranno dubitare che esso è vuoto di qualsiasi ragionevole riflessione e pieno di frivola avventatezza e di pericoloso livore.
Ora poiché in seguito, come esige il procedimento promesso, sono da confutare e ammaestrare anche coloro i quali ritengono che gli dèi del paganesimo, rovesciati dalla religione cristiana, si devono adorare non per questa vita ma per quella che verrà dopo la morte, mi è gradito prendere lo spunto del mio discorso dalla parola veritiera di un salmo: Beato l'uomo la cui speranza è Dio Signore e non ha volto lo sguardo alle vanità e a menzognere follie. ( Sal 40,5 )
Comunque fra tante vanità e menzognere follie è di gran lunga più sopportabile ascoltare i filosofi che rifiutarono le false credenze popolari.
I vari popoli infatti hanno formato idoli per le varie divinità, hanno inventato nei confronti di coloro che consideravano dèi immortali molti fatti falsi e indegni oppure li hanno creduti, se già inventati, e una volta creduti li hanno inseriti nel loro culto e riti misterici.
Dunque con uomini i quali, quantunque non insegnando liberamente ma comunque borbottando nelle proprie congreghe, hanno affermato di riprovare simili ubbie, non è affatto inconveniente trattare la seguente questione: se per la vita che si avrà dopo la morte è necessario adorare non un solo Dio, che ha prodotto ogni creatura spirituale e materiale, ma molti dèi che, secondo il pensiero di alcuni loro filosofi più alti e rinomati,1 da lui sono stati creati e posti in un grado più alto.
D'altronde è impossibile sostenere l'affermazione che quegli dèi, di cui alcuni ne ho nominati nel quarto libro,2 ai quali singolarmente sono affidate particolari mansioni su cose minute, possano conferire ad alcuno la vita eterna.
Uomini veramente colti e intelligenti si vantano, come se avessero reso un gran servizio, di avere informato su tali mansioni mediante un'opera, affinché si sapesse la ragione per cui si deve supplicare ciascun dio e che cosa a ciascuno si deve chiedere; altrimenti con una sconveniente irragionevolezza, quale si ha di solito nell'istrione, si chiederebbe l'acqua a Libero e il vino alle Linfe.3
Ma questi autori non vorranno certamente suggerire all'individuo che supplica gli dèi che quando chiederà il vino alle Linfe e quelle gli risponderanno: "Noi abbiamo l'acqua, il vino chiedilo a Libero", egli possa ragionevolmente ribattere: "Se non avete il vino, datemi almeno la vita eterna".
Sarebbe il colmo dell'assurdità.
Certamente esse sghignazzando, giacché abitualmente sono facili al riso,4 a meno che come demoni non vogliano ingannare, risponderanno all'orante: "O uomo, pensi proprio che sia in nostro potere avere la vita, quando sai bene che non abbiamo in potere neanche la vite?".
È dunque segno di spudorata stupidità chiedere o attendere la vita eterna da simili dèi.
Di loro si afferma appunto che proteggono particolari settori di questa vita travagliata nella sua brevità, posto che si diano cose competenti a darle sostegno e sicurezza.
Ne consegue che se si chiede a un dio un bene che è sotto la specifica tutela di un altro, s'incorre in una sconvenienza e assurdità tali da sembrare molto simili alla buffonata di un istrione.
E quando questo si fa da istrioni consapevoli, meritatamente sono accolti dal riso in teatro, ma quando si fa da sciocchi inconsapevoli, meritatamente sono accolti da scherno nel mondo.
Dunque dai dotti è stato con diligenza scoperto e consegnato alla tradizione il bene per cui si deve invocare l'uno o l'altro dio o dea, per quanto attiene agli dèi introdotti dai vari stati, ad esempio, che cosa si deve chiedere a Libero, alle Linfe, a Vulcano e agli altri che in parte ho ricordato nel quarto libro e in parte ho ritenuto di tralasciare.
Quindi se è un errore chiedere il vino a Cerere e il pane a Libero, l'acqua a Vulcano e il fuoco alle Linfe, ha il significato di un'enorme follia il chiedere a qualcuno di loro la vita eterna.
Quando parlando del dominio terreno ho esaminato quali dèi o dee potrebbero conferirlo agli uomini, in seguito a un'analisi completa si dimostrò che è ben lungi dalla verità ritenere che anche i regni terreni possano essere assegnati da qualcuna delle molte false divinità.5
È dunque segno di una folle irreligiosità il credere che la vita eterna, la quale senza alcun dubbio o raffronto è da considerarsi superiore a tutti i domini terreni, possa esser data all'uomo da qualcuno di costoro.
E non si ritenne certamente che simili dèi non possano dare il dominio terreno perché essi sono grandi e sublimi ed esso piccolo e spregevole che in così grande altezza non si degnerebbero di curare.
Al contrario, quantunque in considerazione della caducità umana si debba giustamente disprezzare l'effimera grandezza del dominio terreno, quegli dèi si sono manifestati tali da sembrare del tutto incapaci che si affidassero alla loro elargizione e difesa perfino i beni terreni.
E per questo se, come hanno dimostrato gli argomenti trattati nei due ultimi libri, nessun dio di quella schiera di dèi quasi plebei o quasi aristocratici è capace di dare regni mortali a mortali, tanto meno da mortali può rendere immortali.
Ma poiché stiamo trattando con coloro i quali ritengono che gli dèi non si devono adorare per questa vita ma per quella che si avrà dopo la morte, ne consegue che essi non si devono adorare neppure per quei beni che, in base a un'assurda credenza e non a un vero ragionamento, vengono assegnati come specifici e propri al potere dei vari dèi.
Lo credono coloro che ritengono il loro culto indispensabile ai vantaggi di questa vita mortale.
Contro di essi ho discusso sufficientemente, nei miei limiti, con i cinque libri precedenti.
Stando così le cose, supponiamo che l'età giovanile degli adoratori della dea Giovinezza sia straordinariamente vigorosa e che al contrario i suoi denigratori muoiano entro gli anni della giovinezza oppure che in essa languiscano per senile torpidezza; poniamo anche che Fortuna barbata copra le gote dei suoi adoratori con garbo e finezza e che si vedano coloro che la disprezzano glabri o mal barbati.6
Anche in questa ipotesi si direbbe molto giustamente che le due dee possono fino a quel punto, ciascuna nel proprio ruolo, che sono strettamente limitate alle proprie mansioni e che pertanto non si può chiedere la vita eterna a Giovinezza che non sa dare neanche la barba e che non si può attendere da Fortuna barbata il bene dopo questa vita, perché in questa vita non ha neanche il potere di concedere per lo meno l'età in cui cresce la barba.
Quindi la loro adorazione non è necessaria neppure per questi beni che, a sentire i pagani, sono loro affidati, perché molti adoratori della dea Giovinezza in quell'età non ne ebbero affatto il vigore e molti che non l'adorano godono di una gagliarda giovinezza; allo stesso modo molti adoratori di Fortuna barbata non sono potuti arrivare all'età della barba oppure sono giunti a una barba insignificante e se alcuni la venerano per avere la barba sono scherniti dai barbuti che la disprezzano.
Ma possibile che il cuore umano sia tanto sciocco?
Sa per esperienza infatti che il culto di questi dèi ai fini dei beni temporali ed effimeri, ai quali, secondo loro, sovraintendono personalmente i vari dèi, è inutile e ridicolo e poi vorrebbe credere che sia vantaggioso per la vita eterna.
Non osarono affermare che la possano dare neanche i pagani che per farli adorare dalle masse incolte, attribuirono loro, divise a pezzetti, le varie mansioni temporali.
Ma di dèi ne avevano inventati un po' troppi e nessuno di loro doveva rimanere a sedere nell'inerzia.
Chi ha ricercato queste tradizioni con maggiore interesse di Marco Varrone?
Chi le ha rintracciate con maggiore erudizione?
Chi le ha esaminate con maggiore attenzione?
Chi le ha classificate con maggiore capacità critica?
Chi le ha tramandate più diligentemente ed esaurientemente?
E sebbene egli sia meno elegante nella forma, è tuttavia così ricco di contenuti d'erudizione che nell'universale cultura, che noi chiamiamo profana ed essi liberale, egli informa lo studioso di storia nella medesima misura che Cicerone diletta lo studioso di lingua.
Inoltre lo stesso Cicerone gli tributa un tale attestato di lode da dire nei libri Sugli Accademici che ha tenuto la discussione in essi contenuta con Marco Varrone, l'uomo senz'altro più intelligente e indubbiamente più colto.7
Non ha detto eloquente o buon parlatore, perché in realtà in questa attitudine è molto inferiore ma senz'altro il più intelligente di tutti; e nei libri citati, cioè Sugli Accademici, dove sostiene il dubbio universale aggiunge: E indubbiamente il più dotto.
Era così certo di questo fatto da eliminare il dubbio che abitualmente applica a tutte le affermazioni come se soltanto per questo caso si fosse dimenticato di essere accademico nell'atto stesso che si accingeva a dissertare a favore del dubbio accademico.
Nel primo libro nell'encomiare le opere letterarie di Varrone, dice: Giacché eravamo esuli stranieri nella nostra stessa città, i tuoi libri ci hanno ricondotto a casa nostra come ospiti, affinché potessimo conoscere chi e dove siamo.
Tu ci hai svelato l'età della patria, le vicende del passato, la legge del culto, il regolamento della casta sacerdotale, della casa e dello Stato, l'ubicazione dei rioni e degli edifici e i nomi, le classificazioni, i compiti e la ragione della religione e cultura in generale.8
Quest'uomo fu dunque di cultura tanto insigne e superiore che di lui anche Terenziano con un elegantissimo verso ha detto scultoreamente: Varrone l'uomo più dotto per ogni riguardo.9
Lesse tanto da farci meravigliare che abbia avuto tempo di scrivere, ha scritto tanto quanto appena si crederebbe che sia possibile leggere.
Ma se costui, dico io, uomo di tanto ingegno e di tanta cultura, avesse attaccato fino a distruggere i supposti valori religiosi, di cui ha scritto, e avesse detto che non appartengono alla religione ma alla superstizione, non so se avrebbe passato in rassegna tanti aspetti che in essi sono degni di scherno, di disprezzo e di esecrazione.
Egli poi ha onorato gli dèi e ha reputato che si dovessero onorare fino a confessare, in quella stessa opera letteraria, il proprio timore che essi andassero in rovina non per un assalto nemico ma per indifferenza dei cittadini.
E afferma che per suo mezzo sono liberati da quella che egli crede una perdita e che mediante i suoi libri saranno accuratamente conservati nella memoria dei buoni attraverso un interesse con esito più felice di quello con cui, come è stato tramandato, Metello salvò la statua di Vesta dal fuoco ed Enea i penati dall'incendio di Troia.10
Egli comunque presenta alla conoscenza dei secoli tradizioni che colti e ignoranti dovrebbero rifiutare e che sono giudicate assolutamente contrarie ai valori religiosi.
Che cosa altro dobbiamo pensare dunque se non che egli, uomo di grande intelligenza e cultura, ma non libero per grazia dello Spirito Santo, fu condizionato dal costume e dalle leggi della sua patria e che tuttavia, col pretesto d'inculcare la religione, non volle tacere quelle pratiche da cui egli era turbato?
Ha scritto quarantuno libri di Antichità e li ha distribuiti in cultura e religione.
Ne ha assegnati venticinque alla cultura e sedici alla religione, usando nella partizione il seguente criterio.
Ha scritto sei libri per ognuna delle quattro parti della cultura, descrivendo coloro che compiono un'attività, dove e quando la compiono e l'attività stessa.
Ha scritto quindi i primi sei libri per trattare delle persone, i sei successivi dei luoghi, gli altri sei dei tempi, gli ultimi sei delle attività.
Quindi sei per quattro fanno ventiquattro.
In principio tuttavia ne ha posto uno che trattasse, come introduzione generale, tutti gli argomenti.
Nella religione egualmente usò la medesima tecnica di partizione, per quanto attiene al culto che si offre agli dèi.
Infatti dagli uomini, negli edifici, in tempi determinati si offrono riti sacri.
Ha raccolto le quattro componenti in tre libri per ciascuna.
Ha scritto infatti i primi tre per trattare degli uomini, i tre successivi degli edifici, in terzo luogo dei tempi e in quarto luogo dei riti sacri.
Anche in essi attraverso un'acuta classificazione ricorda coloro che offrono, dove, quando e che cosa offrono.
Ma poiché, e questo soprattutto ci si attendeva, era opportuno parlare degli esseri ai quali gli uomini offrono i riti, ha scritto gli ultimi tre libri anche sugli dèi.
Quindi tre per cinque fanno quindici.
Ma in tutto, come ho detto, sono sedici perché ne aggiunse uno in principio che come loro introduzione trattasse tutti gli argomenti.
Scritto questo, in base alla distribuzione in cinque parti suddivise i primi tre libri riguardanti gli uomini nella seguente maniera: il primo tratta dei pontefici, il secondo degli àuguri, il terzo della commissione di quindici uomini per i riti; gli altri tre riguardanti gli edifici, così: in uno parla dei tempietti, in un altro dei templi, nel terzo dei luoghi di culto; inoltre i tre seguenti riguardanti i tempi, cioè i giorni festivi, così: uno lo ha dedicato ai giorni di riposo, il secondo agli spettacoli del circo, il terzo agli spettacoli teatrali; dei tre della quarta parte riguardanti i riti sacri ha assegnato al primo i sacrifici, al secondo il culto privato, all'ultimo il culto pubblico.
Gli dèi seguono per ultimi in questo quasi corteo di omaggi nei tre libri che rimangono perché ad essi è dedicato il culto nel suo complesso; nel primo libro vengono gli dèi certi, nel secondo gli incerti, nell'ultimo gli dèi superiori ed eminenti per rango.
Dalle cose già dette e da dirsi in seguito appare facilmente a qualsiasi uomo, il quale non sia nemico di se stesso per l'ostinazione del cuore, che in tutta la serie della classificazione e distinzione, per quanto attraente nella sua accuratezza, si cerca invano la vita eterna e sarebbe pazzesco aspettarsela o desiderarla.
Queste istituzioni sono quindi degli uomini o dei demoni, non di quelli che i pagani considerano demoni buoni ma, per parlare schiettamente, degli spiriti immondi e indiscutibilmente malvagi.
Essi con una malevolenza che desta meraviglia inculcano nascostamente nelle coscienze degli infedeli e talora fanno apparire apertamente ai sensi e con false apparizioni, se possono, ribadiscono false opinioni con le quali l'anima umana si svuota sempre di più e si rende incapace di volgersi adeguatamente all'immutabile eterna verità.
Lo stesso Varrone conferma che prima ha trattato della cultura e poi della religione, perché prima furono istituite le città e poi da esse furono istituiti i culti.
La vera religione al contrario non fu istituita da una qualche città terrena ma fu essa a istituire la città celeste.
La vivifica e istruisce il vero Dio che dà la vita eterna ai suoi veri adoratori.
La giustificazione di Varrone nel confessare di aver parlato prima dei valori culturali e poi di quelli religiosi, per il fatto che questi sono stati istituiti dagli uomini, è la seguente: Come, egli dice, il pittore è prima del quadro e il muratore prima dell'edificio, così le città sono prima delle cose istituite dalle città.11
Afferma inoltre che prima avrebbe scritto degli dèi e poi degli uomini se avesse scritto dell'universale natura degli dèi, quasi che nell'opera parli di una particolare e non universale natura, ovvero come se anche la particolare natura degli dèi, quantunque non universale, non debba essere anteriore a quella degli uomini.
Per quale motivo dunque negli ultimi tre libri, trattando esaurientemente degli dèi certi, incerti e scelti non omette, come è evidente, nessuna natura divina?
Ci chiediamo dunque quale significato abbia questa sua frase: Se scrivessi sulla universale natura degli dèi e degli uomini, prima di accennare all'umanità, avrei trattato a fondo della divinità.
Infatti o tratta dell'universale o particolare natura degli dèi o non ne tratta affatto.
Se tratta dell'universale natura, essa deve essere trattata prima della cultura; se al contrario della particolare, per quale motivo anche essa non dovrebbe esser prima della cultura?
Forseché una qualche caratteristica degli dèi è immeritevole di essere considerata prima dell'universale natura umana?
E se è eccessivo onore che una qualche caratteristica divina si tratti prima dell'universale cultura umana, forse quella caratteristica è meritevole dell'onore almeno per i Romani.
Varrone scrisse infatti i libri della cultura non in riferimento al mondo ma alla sola Roma.
Ha affermato tuttavia di averli giustamente anteposti alla compilazione dei libri sulla religione, come il pittore al quadro e il muratore all'edificio.
Così veniva ad ammettere apertamente che anche certi valori religiosi, sull'esempio della pittura e della costruzione, sono stati istituiti dagli uomini.
Rimane che non ha inteso affatto parlare di una qualche natura divina ma che non l'ha voluto dichiarare apertamente e l'ha lasciato capire a chi poteva.
Il significato comune del termine "non ogni" è "qualche" ma può essere anche "nessuna", perché una cosa che è "nessuna" è tanto "non ogni" che "non qualche".
Infatti se, come Varrone stesso dice, la natura degli dèi di cui parla fosse l'universale, ne avrebbe dovuto trattare prima della cultura; ed anche se, come la verità stessa afferma malgrado il silenzio di Varrone, non fosse universale ma particolare, dovrebbe certamente venir prima della cultura romana; al contrario viene giustamente dopo; dunque non c'è affatto.
Pertanto non intese anteporre la cultura alla religione ma non anteporre la leggenda ai fatti storici.
Nel trattare infatti della cultura si conformò alla storia, mentre nel trattare di quella che definisce religione si conformò soltanto alle invenzioni della leggenda.
Questo è indubbiamente quanto con sottile intenzione ha voluto mostrare non soltanto nel trattare della religione dopo della cultura ma anche nell'addurre la ragione per cui lo ha fatto.
Se l'avesse taciuta, questo suo modo di procedere da qualcuno sarebbe stato forse interpretato in altro senso.
Ma nella giustificazione che ne ha dato, non ha permesso ad alcuno di interpretare arbitrariamente e ha mostrato assai chiaramente che gli uomini hanno posto se stessi prima dei propri istituti e non l'umanità prima della divinità.
Ha confessato così di avere scritto i libri della religione non sulla base della verità che compete alla natura ma della finzione che compete all'errore.
Altrove ha dichiarato più apertamente, come ho ricordato nel quarto libro, che avrebbe scritto secondo la norma della natura se avesse fondato egli stesso una nuova città, ma poiché si era trovato in una vecchia città era stato costretto a seguirne l'usanza.
Inoltre quale significato ha la sua affermazione che vi sono tre generi di teologia, cioè del discorso relativo agli dèi, che si definiscono mitico, fisico e civile?
Se in latino l'uso lo ammettesse, dovremmo chiamare fabulare il genere che Varrone ha collocato al primo posto, chiamiamolo fabuloso ma perché mitico deriva etimologicamente da fabulazione; il greco μΰθος si traduce appunto favola.
Ormai l'usuale modo di dire consente che il secondo genere si dica naturale.
Varrone stesso ha espresso in latino il terzo col termine di civile.
Poi soggiunge: Chiamano mitico il genere creato prevalentemente dai poeti, fisico dai filosofi, civile dagli Stati.
Nel primo che ho detto, egli continua, si hanno molti fatti leggendari contro la dignità e la natura degli dèi.
Vi si trova infatti che un dio è nato dalla testa, un altro dal femore e un altro da gocce di sangue; vi si trova anche che gli dèi sono stati ladri, adulteri e a servizio di un uomo; inoltre vi si attribuiscono agli dèi tutti quei fatti che possono verificarsi non solo in un uomo qualsiasi ma anche nel più abietto.12
In questo caso, giacché ebbe possibilità e ardire e ritenne che non fosse colpa, manifestò senza alcun sottinteso l'oltraggio che si recava alla divinità con favole menzognere.
Parlava appunto non della teologia naturale o civile ma della fabulosa e ritenne di poter liberamente accusarla.
Vediamo che cosa pensa della seconda.
Il secondo genere di cui ho parlato, egli dice, è quello sul quale i filosofi hanno molti scritti.
Vi si ricercano l'essere degli dèi, la sede, la nozione e la proprietà; se gli dèi hanno cominciato ad esistere nel tempo o nell'eternità; se derivano dal fuoco, come pensa Eraclito, o dai numeri, come sostiene Pitagora, o dagli atomi come dice Epicuro.
Allo stesso modo vi si espongono altri concetti che è più facile udire fra le pareti di una scuola che in pubblico nel foro.13
Non rimproverò nulla a questo genere, perché lo chiamano fisico ed è di competenza dei filosofi; si limitò a ricordare le loro polemiche, perché si ebbe una molteplicità di sètte dissidenti.
Considerò tuttavia questo genere disadatto alla piazza, cioè alle masse, e lo volle ristretto alle pareti di una scuola.
E invece non considerò disadatto ai cittadini l'altro per quanto sconcio nella sua falsità.
O religiosi orecchi delle masse e fra di essi anche quelli romani!
Non riescono ad accogliere ciò che i filosofi discutono sugli dèi immortali, però non solo accolgono ma ascoltano anche volentieri ciò che i poeti cantano e gli istrioni rappresentano, e sono leggende contrarie alla sublime natura degli immortali, perché possono verificarsi non solo in un uomo qualsiasi ma anche nel più abietto.
Non basta ma giudicano che siano gradite agli dèi e che mediante esse si debbano propiziare.
Si dirà: "I due generi mitico e fisico, cioè il fabuloso e il naturale, si dovrebbero separare dal civile, di cui ora si viene a trattare, perché anche Varrone li ha separati da esso e vediamo in qual senso propone il civile".
Riconosco il motivo per cui si debba separare il fabuloso, perché è falso, sconcio e sconveniente.
Ma voler separare il genere naturale dal civile significa soltanto ammettere che anche il civile è scorretto.
Perché se esso è naturale, non ha mende per essere escluso.
Se poi il genere detto civile non è naturale, non ha meriti per essere accettato.
Questo è appunto il motivo per cui ha trattato prima la cultura e poi la religione, cioè perché nella religione non si è conformato alla natura ma agli istituti umani.
Ma esaminiamo la teologia civile.
Il terzo genere, egli dice, è quello di cui i cittadini e soprattutto i sacerdoti devono conoscere la funzione.
Gli spetta stabilire quali dèi si devono adorare pubblicamente, i riti e i sacrifici che si devono compiere secondo le rispettive competenze.
Consideriamo la frase seguente: La prima teologia, egli dice, è soprattutto adatta al teatro, la seconda al mondo, la terza alla città.
Chi non vede a quale ha accordato la preferenza?
Certo alla seconda che, come precedentemente ha detto, è dei filosofi.
Egli dichiara infatti che essa appartiene al mondo che, secondo il pensiero dei pagani, è l'aspetto più nobile della realtà.
Ha poi unito oppure separato la teologia prima e terza, cioè quella del teatro e quella della città?
Infatti non necessariamente ciò che è proprio della città può appartenere anche al mondo, sebbene le città, come è evidente, sono nel mondo.
Può avvenire appunto che nella città, secondo determinati pregiudizi, si adorino e si ammettano esseri, la cui natura non esiste in alcun luogo né nel mondo né fuori del mondo.
Il teatro al contrario si trova soltanto nella città ed è stata la città ad istituirlo e lo ha istituito per gli spettacoli teatrali.
E gli spettacoli teatrali appartengono alla religione sulla quale con tanta diligenza sono scritti i libri citati.
O Marco Varrone, sei l'uomo più intelligente e indubbiamente il più colto, ma sei comunque un uomo e non Dio e non sei stato elevato dallo Spirito di Dio nella verità che ci libera per contemplare e diffondere valori religiosi.
Scorgi però che i significati religiosi si devono distinguere dalle vuote fandonie umane, ma temi di offendere le depravate ubbie popolari e le usanze del superstizioso culto pubblico.
Eppure, nell'analizzarle a fondo, senti, e ti fa eco tutta la vostra letteratura, che esse ripugnano alla natura degli dèi, perfino di quelli che la debolezza dell'animo umano suppone di scorgere negli elementi di questo mondo.
Che cosa fa a questo punto un ingegno umano per quanto altissimo?
In che cosa ti aiuta la cultura umana, per quanto multiforme e straordinaria?
Desideri onorare gli dèi di una religione naturale e sei costretto a onorare quelli dello Stato.
Ne hai trovati altri leggendari, contro cui sfogare il tuo risentimento ma, volere o no, coinvolgi anche quelli dello Stato.
Affermi che gli dèi della teologia mitologica sono commisurati al teatro, quelli della naturale al mondo e quelli della civile alla città.
Eppure il mondo è creazione divina mentre le città e i teatri sono degli uomini; inoltre non sono altri gli dèi ridicolizzati nei teatri da quelli che sono adorati nei templi e voi offrite spettacoli ai medesimi dèi ai quali immolate vittime.
Avresti distinto con maggiore indipendenza e senso critico se avessi detto che si danno dèi naturali e dèi inventati dagli uomini e che di quest'ultimi parlano diversamente la tradizione dei poeti e quella dei sacerdoti e che entrambe tuttavia sono così amiche fra di loro per comunanza col falso, da essere egualmente gradite ai demoni cui è propria la dottrina nemica del vero.
Accantonando dunque un po' la teologia chiamata naturale di cui si dovrà parlare in seguito, si può insegnare forse alla fin fine che si chiede o si attende la vita eterna dagli dèi della poesia, del teatro, dello spettacolo e del dramma?
Certamente no, anzi il vero Dio ci scampi da una così enorme ed empia follia.
E che? Si dovrebbe chiedere la vita eterna a dèi che sono rallegrati e placati da spettacoli, in cui sono rappresentati i loro crimini?
Nessuno, come penso, è impazzito fino all'abisso di una così frenetica empietà.
Dunque non si conquista la vita eterna con la teologia fabulosa né con quella civile.
La fabulosa infatti semina sconcezze sugli dèi con l'invenzione, la civile le miete col plauso; quella dissemina menzogne, questa le raccoglie; quella offende la religione inventando dei delitti, questa include nella religione le rappresentazioni di quei delitti; quella diffonde con l'umana poesia leggende infami sugli dèi, questa le dedica alle feste degli dèi stessi; quella canta la delinquenza e la dissolutezza degli dèi, questa le ama; quella le divulga o le inventa, questa o le riconosce come vere o se ne compiace anche se false.
Entrambe sconce, entrambe biasimevoli, ma la teologia fabulosa, che è del teatro, propone la pubblica immoralità, mentre la civile che è della città si fa bella della sua immoralità.
Non si può dunque attendere da esse la vita eterna, perché proprio da esse viene contaminata la breve vita nel tempo.
La compagnia di dissoluti contamina la vita se essi si insinuano nei nostri sentimenti e convinzioni.
A più forte ragione macchia la vita il trattare con demoni che per i loro delitti sono adorati, sebbene tanto malvagi se questi delitti sono veri, con tanta malvagità se sono falsi.
Quando parliamo così, può sembrare a qualcuno ignaro dei fatti che siano sconvenienti alla maestà divina, ridicole e oscene soltanto le favole dei canti poetici e le rappresentazioni teatrali celebrate in onore degli dèi e che i riti compiuti non dai mimi ma dai sacerdoti siano purgati e immuni da immoralità.
Se così fosse, nessuno mai penserebbe di dover celebrare le sconcezze dello spettacolo in onore degli dèi e mai essi comanderebbero che fossero loro presentate.
Al contrario non si ha alcun pudore nel compierle in ossequio degli dèi nei teatri perché se ne compiono eguali nei templi.
Inoltre sebbene l'autore citato tentasse di distinguere dalla teologia fabulosa e naturale quella civile come terza con un ruolo specifico, volle tuttavia far capire che essa deriva piuttosto da una commistione che da una distinzione dell'una e dell'altra.
Ha affermato appunto che le composizioni poetiche sono inefficienti a determinare il modo di pensare dei cittadini, al contrario le dottrine filosofiche sono superiori alle possibilità di capire della massa.
Non le capiscono, egli dice, tuttavia dell'uno e dell'altro genere sono stati presi non pochi elementi come principi della teologia civile.
Pertanto tratteremo assieme ai principi propri della teologia civile quelli che sono in comune con le altre, ma dobbiamo trovare un maggiore accordo con i filosofi che con i poeti.14
Dunque c'è un accordo anche con i poeti.
E tuttavia in un altro testo afferma15 in merito alla teogonia che i popoli si sono rivolti più ai poeti che ai naturalisti.
Quindi in questo passo ha detto ciò che dovrebbe essere, nell'altro ciò che di fatto è.
Ha affermato anche che i naturalisti hanno scritto con intento pratico e i poeti con intento estetico.
E per questo i delitti degli dèi sono fantasticherie dei poeti che i cittadini non debbono accettare; ma soddisfano esteticamente i cittadini e gli dèi.
I poeti, come egli dice, scrivono con intento estetico e non pratico, ma scrivono cose che gli dèi richiedono e i cittadini offrono.
Dunque la teologia della favola, del teatro e dello spettacolo, farcita di indecenza e oscenità, è ricondotta alla teologia civile.
L'intera teologia fabulosa quindi, che giustamente è giudicata meritevole di censura e disapprovazione, è parte della civile che si ritiene meritevole di elogio e di approvazione e non è, come ho iniziato a dimostrare, una parte impropria e che diversa dal resto del corpo le è stata forzatamente applicata a sproposito, ma parte del tutto corrispondente e conveniente, unita come membro al corpo stesso.
E che altro significano l'immagine, l'aspetto, l'età, il sesso e l'atteggiamento degli dèi?
Forseché i poeti presentano un Giove con la barba e un Mercurio senza barba e i sacerdoti non li presentano così?
Forseché gli istrioni hanno eseguito e i sacerdoti non hanno eseguito dei riti veramente osceni per Priapo?
Oppure costui come statua immobile da adorarsi nei luoghi sacri è diverso da quando nei teatri si muove attraverso l'azione di un buffone?
Forseché il vecchio Saturno e l'efebo Apollo sono tanto maschere degli istrioni da non essere anche statue dei templi?
Perché Forcolo che protegge la porta di fuori e Limentino che protegge il limitare sono maschi e fra di essi Cardea che protegge il cardine è una femmina?
E queste credenze non si hanno forse nei libri della religione, sebbene i poeti autorevoli nei loro carmi le hanno considerate sconvenienti?
Forseché la Diana del dramma porta le armi, mentre quella che si vede per la città è figurata soltanto come una bella ragazza?
Forseché l'Apollo nelle scene è suonatore di cetra, mentre quello di Delfo non attende a quell'arte?
Ma queste cose sono abbastanza oneste in confronto con le oscene.
Che cosa pensarono di Giove coloro che posero la sua nutrice in Campidoglio?
Non diedero forse atto ad Evemero che ha dimostrato non con la ciancia della favola ma con serietà storica che tutti gli dèi furono uomini e mortali?
E coloro che hanno fatto sedere alla mensa di Giove gli dèi conviviali, suoi scrocconi, che fecero altro se non fare la farsa delle cose sacre?
Se un mimo infatti avesse parlato degli scrocconi di Giove seduti a un suo banchetto, avrebbe cercato, come è evidente, di far ridere.
Ma l'ha detto Varrone e non l'ha detto per far ridere su di loro ma per onorarli; e che egli ha trattato questo argomento, lo documentano i libri della religione e non quelli dell'umana cultura, e non dove esponeva gli spettacoli teatrali ma dove rendeva noti i diritti del Campidoglio.
Infine Varrone si sente abbattuto da tali considerazioni e confessa che i Romani, come hanno raffigurato gli dèi con aspetto umano, così hanno creduto che godessero dei piaceri umani.16
Infatti anche gli spiriti maligni non sono venuti meno alla propria opera nel confermare queste nefaste credenze ingannando le coscienze umane.
A proposito si ha un episodio. Un custode del tempio di Ercole nel suo giorno di riposo giocò da solo con i dadi.
Usando l'una e l'altra mano, ad una di esse assegnò Ercole, all'altra se stesso, a questa condizione che se avesse vinto lui, coi proventi del tempio si sarebbe pagata una cena e avrebbe condotto l'amante; se invece si fosse avuta la vittoria di Ercole, col proprio denaro avrebbe offerto la medesima cosa allo spasso di Ercole.
Essendosi vinto da sé, ma secondo il patto da Ercole, offrì al dio la cena dovuta e la bellissima cortigiana Larentina.
Lei dormì nel tempio e sognò che Ercole le si era unito e le aveva detto anche che, uscendo di lì, avrebbe avuto la paga dal giovane che per primo avesse incontrato.
Lei doveva credere che le fosse stata sborsata da Ercole.
Mentre si allontanava le si fece incontro Taruzio, un giovane ricchissimo, che la tenne con sé come amante per lungo tempo.
Alla sua morte divenne erede.
Ed ella, conseguita l'ingente ricchezza, per non sembrare ingrata alla paga del dio e pensando di fare una cosa gradita alla divinità, costituì erede il popolo romano.
Scomparve e si trovò il suo testamento.
Narrano che per questa benemerenza meritò anche gli onori divini.
Se i poeti inventassero questi fatti e se i mimi li rappresentassero, si direbbe che indubbiamente appartengono alla teologia della favola e si giudicherebbe che essi si devono considerare disgiunti dalla teologia civile.
Ora queste oscenità non dei poeti ma dei cittadini, non dei mimi ma dei sacerdoti, non dei teatri ma dei templi, cioè non della teologia della favola ma della civile, sono rese note da un maestro così insigne.
Ma allora non sono gli istrioni a rappresentare senza ragione con le arti dello spettacolo la sconcezza degli dèi che è tanta, ma sono i sacerdoti che senza ragione tentano di rappresentare con riti creduti sacri l'onestà degli dèi che non esiste affatto.
Ci sono i misteri di Giunone che si celebravano nella sua diletta isola di Samo perché in essa era stata maritata a Giove.
Ci sono i misteri di Cerere, durante i quali si va in cerca di Proserpina rapita da Plutone.
Ci sono i misteri di Venere, nei quali si fa lamento sul suo amante Adone, giovane bellissimo, ucciso dalle zanne di un cinghiale.
Ci sono i misteri della Madre degli dèi, durante i quali Attis, bel giovane da lei amato ed indotto ad evirarsi dalla femminile gelosia, è oggetto di lamento da parte di individui anche essi evirati che chiamano Galli.
Questi misteri sono più indecenti di qualsiasi oscenità del teatro.
Perché si sforzano allora di segregare le favolose invenzioni dei poeti sugli dèi, che sono di competenza del teatro, dalla teologia civile che, a sentir loro, spetta alla città, come si segregano cose indecenti e oscene dalle convenienti e oneste?
Si dovrebbe piuttosto essere grati agli attori che hanno avuto riguardo per gli spettatori e negli spettacoli non hanno messo a nudo il complesso dei riti misterici che si compiono fra le pareti dei luoghi sacri.
Che cosa si deve pensare di bene dei loro riti compiuti nel buio, quando sono tanto detestabili quelli che si offrono alla luce?
D'altronde se la vedano loro che cosa fare di nascosto mediante gli evirati e gli effeminati ma non hanno potuto tenere nascosti questi individui così miseramente mutilati e così sconciamente dissoluti.
Convincano, se ci riescono, che mediante tali individui compiono un rito santo, poiché non possono negare che si trovano nel numero delle loro cose sante.
Non conosciamo quale rito compiano ma sappiamo per mezzo di quali individui lo compiono.
Conosciamo le rappresentazioni che si compiono sulla scena ma in essa non è mai entrato un evirato o un effeminato, sia pure nel coro delle cortigiane.
Eppure persone dissolute e infami compiono quelle rappresentazioni, poiché non si dovevano compiere da persone onorate.
Di che razza sono dunque quei misteri alla cui esecuzione la sacralità ha scelto individui che perfino il lascivo costume delle attrici non ha ammesso?
Ma questi riti hanno determinate interpretazioni fisiologiche, come essi dicono, cioè di concetti naturali.
Però noi in questa disputa non indaghiamo sulla fisiologia ma sulla teologia e cioè non sul concetto di natura ma di Dio.
E sebbene il vero Dio non è Dio in base a un modo di pensare ma per natura, tuttavia non ogni natura è un dio, poiché v'è una natura dell'uomo, della bestia, della pianta, della pietra, ma nessuna di esse è un dio.
Se poi il vero senso di questa interpretazione, quando si tratta dei misteri della Madre degli dèi, è indubbiamente che madre degli dèi è la terra, non si dà motivo ad ulteriore ricerca e discussione.17
È infatti il discorso più evidente a sostegno di coloro i quali affermano che tutti gli dèi furono uomini.
Gli uomini nascono appunto dalla terra, quindi la terra è loro madre.
Ma nella vera teologia la terra è opera di Dio e non madre.
Tuttavia comunque interpretino e rapportino alla natura i misteri della Madre degli dèi, è certo che non è secondo natura ma contro natura che i maschi siano considerati di sesso femminile.
Questo male, questo crimine, questo obbrobrio hanno in quei misteri un proprio compito, mentre nell'umana delinquenza vengono confessati soltanto fra i tormenti.
Se poi questi misteri che, come è dimostrato, sono più sconci delle oscenità del teatro, sono discolpati con la giustificazione che hanno una loro interpretazione con cui si spiega che significano la natura, perché anche i canti poetici non sono discolpati con la medesima giustificazione?
Molti infatti li hanno interpretati in base al medesimo criterio e perfino il mito veramente disumano e mostruoso di Saturno che avrebbe divorato i propri figli.
Alcuni lo interpretano nel senso che la lunghezza di tempo,18 che è significato dal concetto di Saturno, distrugge tutto ciò che produce; oppure interpretano, come anche Varrone, nel senso che Saturno si riferisce ai semi che ricadono sulla terra da cui nascono.19
Alcuni interpretano diversamente e così pure gli altri miti.
Tuttavia è considerata teologia fabulosa e nonostante tutte queste interpretazioni viene biasimata, respinta, condannata.
Inoltre affinché sia giustamente rifiutata in base al fatto che ha inventato cose indegne degli dèi, viene distinta non solo dalla teologia naturale che è dei filosofi ma anche dalla civile, di cui stiamo trattando e che appartiene, come essi affermano, alle città e agli Stati.
Ma indubbiamente si ebbe il seguente criterio.
Gli individui veramente intelligenti e colti, da cui furono esposte queste teorie, intendevano che entrambe fossero riprovate, cioè tanto la teologia fabulosa che la civile, però avevano il coraggio di rifiutare la prima ma non la seconda.
Allora esposero la fabulosa in modo che fosse biasimata e le posero in confronto la civile che le somiglia, e non allo scopo che la civile fosse accettata nel riscontro con l'altra ma affinché si intendesse che anch'essa era da rifiutare.
Così senza rischio di coloro che temevano di riprovare la teologia civile, col respingere l'una e l'altra si otteneva che trovasse accoglienza negli spiriti più onesti quella teologia che chiamano naturale.
Infatti tanto la civile che la fabulosa sono entrambe fabulose, entrambe civili.
Si scoprirà che sono entrambe fabulose, se si considereranno con saggezza le frivolezze e le oscenità di entrambe, e che sono ambedue civili, se si osserveranno gli spettacoli teatrali caratteristici della teologia fabulosa nelle feste degli dèi dello Stato e nella religione delle città.
Non si può dunque assolutamente attribuire il potere di dare la vita eterna ad uno qualsiasi degli dèi dello Stato, perché i loro idoli e misteri provano infallibilmente che per aspetto, età, sesso, atteggiamento, matrimonio, discendenza e riti sono del tutto simili a quelli della favola, dichiaratamente rifiutati.
Dall'insieme infatti si capisce che furono uomini, che con attenzione alla vita e alla morte di ognuno furono istituiti per loro misteri e feste e che questo errore si è diffuso allo scopo d'ingannare le coscienze umane mediante ripetute suggestioni demoniache, quanto dire mediante qualsiasi occasione presentatasi allo spirito più immondo.
Anche le competenze degli dèi, sminuzzate in incarichi così vili e frammentari per il fatto che, come essi credono, bisogna propiziarle secondo la particolare incombenza, su cui ho detto parecchio ma non tutto,20 sono più convenienti alla buffoneria istrionesca che alla dignità divina.
Se un tizio impiegasse per un bimbo due nutrici, di cui una gli offrisse soltanto da mangiare e l'altra soltanto da bere, come i Romani allo scopo hanno impiegato due dee, Educa e Potina, sembrerebbe che sia uscito di senno e che a casa sua si comporta come un istrione.
Affermano che Libero derivi etimologicamente da liberazione, perché i maschi nell'atto sessuale col suo favore si liberano effondendo il seme.
Dicono che la medesima cosa fa con le femmine Libera, che sarebbe anche Venere, perché, a sentir loro, anche essa fa uscire il seme.
E per questo motivo, dicono, è posta nei templi la parte virile del corpo per Libero e la femminile per Libera.
Oltre queste cose assegnano a Libero le baccanti e il vino per stimolare la libidine.
Per questo motivo i baccanali sono celebrati con indescrivibile frenesia.
Varrone stesso confessa che soltanto in stato di follia in essi possono esser commesse dalle baccanti azioni così vergognose.21
Ma in seguito essi non furono graditi a un senato più ragionevole, il quale ordinò che fossero soppressi.22
Almeno in questo caso finalmente capirono forse il potere che sulla coscienza umana hanno gli spiriti immondi, quando sono ritenuti dèi.
Questi fatti non avverrebbero in teatro perché lì giocano, non delirano, sebbene somiglia al delirio avere dèi che prendono gusto a tali giochi.
Che significa poi la notizia che ci fornisce Varrone?
Egli distingue l'uomo religioso dal superstizioso in base al criterio che dal superstizioso gli dèi sono temuti, mentre dal religioso sono soltanto rispettati come i genitori e non temuti come nemici.
Aggiunge che essi sono tutti così buoni da perdonare più facilmente i colpevoli che punire un innocente.23
Tuttavia ricorda che sono impiegati a protezione della donna sgravata tre dèi affinché il dio Silvano non entri durante la notte per farle violenza.
Afferma che per indicare i tre dèi protettori, tre uomini di notte girano attorno al limitare della casa, e che dapprima percuotono il limitare con la scure, poi col pestello, e infine la spazzano con la scopa.
Così mediante tre segni della coltura si proibirebbe al dio Silvano di entrare, perché gli alberi non si tagliano o potano senza la scure, la farina non si ottiene senza il pestello, le biade non si ammucchiano senza la scopa.
Da questi tre oggetti sarebbero stati denominati i tre dèi, Intercidona dal taglio della scure, Pilunno dal pestello e Deverra dalla scopa.
Con la loro protezione si difenderebbero i neonati dalla violenza del dio Silvano.24
Quindi non basterebbe la protezione degli dèi buoni contro la crudeltà di un dio che fa del male, se non fossero in più contro di uno solo e non resistessero a lui aspro, fiero e incolto, in quanto abitante nella selva, con i segni della coltura che gli sono contrari.
E questa sarebbe la bontà degli dèi, questa la loro concordia?
Queste sarebbero le divinità tutelari delle città, oggetto più di scherno che di spettacolo nei teatri?
Quando un maschio e una femmina si uniscono, viene interessato il dio Giogatino, e vada.
Ma occorre portare la sposa nell'ambiente domestico e s'impiega il dio Domiduco; perché vi si trattenga, il dio Domizio; perché rimanga col marito, la dea Manturna.
Che si vuole di più? Si abbia riguardo al ritegno umano; compia il resto la concupiscenza della carne e del sangue nel nascondimento creato dal pudore.
A che scopo si riempie la camera da letto di una folla di divinità se perfino i paraninfi se ne allontanano?
E si riempie non allo scopo che col pensiero della loro presenza sia maggiore l'attenzione alla castità, ma affinché mediante la loro collaborazione senza difficoltà sia tolta la verginità della donna debole per il sesso e tremante per la novità.
Sono presenti nientemeno che la dea Verginiese, il dio padre Subigo, la dea madre Prema, la dea Pertunda e Venere e Priapo.
Ma che faccenda è questa? Se al limite era necessario che l'uomo trovandosi in difficoltà in quell'atto fosse aiutato dagli dèi, non ne bastava uno o una?
E se ci fosse stata soltanto Venere, sarebbe forse stata, da poco, anche perché si sostiene che deriva il nome dal fatto che senza la violenza una donna non cesserebbe d'esser vergine?25
Se negli uomini c'è il ritegno che non esiste nelle divinità, quando i coniugati pensano che sono presenti e assistono alla faccenda tanti dèi dell'uno e dell'altro sesso, non sono forse trattenuti dal pudore al punto che egli si senta meno acceso e lei opponga maggiore resistenza?
E se è presente la dea Verginiese perché sia sciolta la cintura di castità alla vergine, se è presente il dio Subigo perché si assoggetti al marito, se è presente la dea Prema perché una volta assoggettata non resista e si lasci comprimere, la dea Pertunda che cosa ci sta a fare?
Si vergogni, vada via, lasci fare qualche cosa anche al marito.
È molto disonesto che l'atto che la denomina lo compia un altro che non sia lui.
Ma forse è sopportata perché è una dea e non un dio.
Se fosse creduta un maschio e si chiamasse Pertundo, il marito chiederebbe contro di lui per il pudore della moglie un aiuto più valido di quello che i neonati chiedono contro Silvano.
Ma perché dico questo, quando vi è presente anche Priapo, che è maschio di troppo, tanto che sul suo enorme e sconcio membro virile doveva sedere la sposa novella secondo l'onestissima e religiosissima usanza delle matrone?
Ma gli scrittori andrebbero avanti e si sforzerebbero quasi, con la sottigliezza di cui sono capaci, di segregare la teologia civile dalla fabulosa, le città dai teatri, i templi dalla scena, i riti dei pontefici dai carmi dei poeti, come si segregano le cose oneste dalle turpi, le vere dalle false, le nobili dalle futili, le serie dalle frivole, le cose che si devono volere da quelle che si devono evitare.
Capisco ciò che intendono. Sanno che la teologia del teatro e della favola tragica dipende dalla civile e che le viene restituita dai carmi dei poeti come da uno specchio.
Quindi dopo la trattazione della teologia civile che non osano condannare direttamente, disapprovano e riprendono più liberamente questa sua immagine affinché coloro che li sanno capire rifiutino anche il sembiante di cui la fabulosa è l'immagine riflessa.
Però gli dèi guardandosi nel medesimo specchio prediligono la fabulosa affinché appaia meglio nell'una e nell'altra chi e che cosa essi sono.
Perciò hanno costretto con duri comandi i suoi cultori a dedicare loro l'oscenità della teologia fabulosa, a includerla nelle loro feste, a conservarla nella religione.
Così hanno mostrato più evidentemente di essere spiriti immondi e hanno reso la teologia del teatro, per quanto riprovata nella sua abiettezza, una suddivisione e parte della teologia delle città, considerata nobile e apprezzata.
In questo modo, sebbene nel suo complesso disonesta ed erronea ed abbia come contenuto falsi dèi, una sua parte consiste nelle tradizioni dei sacerdoti e l'altra nelle composizioni dei poeti.
Se abbia altre parti ancora è un'altra questione.
Per adesso, stando alla partizione di Varrone, ho dimostrato esaurientemente, a mio parere, che la teologia della città e quella del teatro fanno parte della sola teologia civile.
Quindi poiché sono entrambe di eguale bruttura, irragionevolezza, sconvenienza e falsità, le persone veramente religiose non devono attendere la vita eterna né dall'una né dall'altra.
Infine lo stesso Varrone comincia a catalogare ed enumerare gli dèi dal concepimento dell'uomo.
Ha iniziato la loro numerazione da Giano e ha condotto la serie fino alla morte dell'uomo decrepito.
Chiude l'elenco degli dèi protettori dell'uomo con la dea Nenia che si canta nei funerali dei vecchi.
Poi comincia a enumerare altri dèi che non apparterrebbero agli uomini ma alle cose spettanti all'uomo, come sono il vitto e vestiario e tutte le altre cose indispensabili alla vita fisica, esponendo di tutti il ruolo specifico e il motivo per cui debbano essere resi propizi.26
Ma nonostante tutta questa sua accuratezza non ha mostrato o nominato dèi dai quali si dovesse chiedere la vita eterna.
Invece noi soltanto per essa siamo cristiani.
Dunque questo uomo espone e chiarisce tanto accuratamente la teologia civile, dimostra che è simile alla fabulosa, che è sconveniente e disonesta, e insegna con sufficiente evidenza che la stessa teologia fabulosa ne è una parte.
Chi dunque è tardo al punto di non capire che egli ha preparato nelle coscienze degli uomini il luogo soltanto a quella naturale che, come egli dice, è di competenza dei filosofi?
E l'ha fatto con tanto acume che condanna la teologia mitologica, non ardisce condannare la civile ma attraverso l'esposizione fa capire che la esclude così che, condannata l'una e l'altra secondo il giudizio di coloro che sanno ben capire, rimanga da accettare soltanto la teologia naturale.
Di essa a suo luogo si dovrà trattare più diligentemente con l'aiuto di Dio.27
La libertà che mancò a Varrone, nel rifiutare a pari merito la teologia della città e quella molto simile del teatro, non mancò ad Anneo Seneca che, come sappiamo da certe indicazioni, si distinse al tempo dei nostri Apostoli.
L'ebbe se non del tutto almeno parzialmente.
L'ebbe appunto come scrittore, ne difettò come uomo.
Infatti nel libro scritto contro le superstizioni egli attaccò la teologia dello Stato e della città in modo più esauriente e violento di quello con cui Varrone aveva attaccato la teologia della favola e del teatro.28
Trattando degli idoli, dice: Raffigurano gli esseri augusti immortali e inviolabili in materia molto vile e immobile, danno loro figura di uomini, di bestie e di pesci ed alcuni li rappresentano perfino ermafroditi nella diversa struttura fisica.
Li chiamano numi ma se essi vivificandosi si muovessero all'improvviso, sarebbero presi per mostri.
Poco dopo, nel trattare la teologia naturale, esposte le teorie di alcuni filosofi, si pose una domanda con le seguenti parole: A questo punto qualcuno può dire: E io dovrei credere che il cielo e la terra sono dèi e che ve ne sono alcuni sopra la luna e alcuni sotto?
E io dovrei ascoltare o Platone o il peripatetico Stratone, di cui il primo ha insegnato che il dio è senza corpo e l'altro che è senza spirito?
E, rispondendo alla domanda, soggiunge: Ma perché alla fin fine ti sembrano più veri i sogni di Tito Tazio o di Romolo o di Tullo Ostilio?
Tazio dedicò un tempio alla dea Cloacina, Romolo a Pico e Tiberino, Ostilio a Pavore e a Pallore, che sono banali condizionamenti umani di cui il primo è il movimento psicologico della paura, l'altro neanche un male fisico ma soltanto un colorito naturale.
Preferiresti credere che gli dèi sono questi e penseresti che siano in cielo?
Dei misteri stessi, abominevoli per crudeltà, ha scritto con molta libertà: Uno si evira, l'altro si incide le braccia.
In che senso temono gli dèi coloro che se li propiziano in questa maniera?
Se gli dèi esigono questa forma di culto, non si devono adorare affatto.
È così grande la frenesia della coscienza sconvolta e fuori di sé da far propiziare gli dèi con atti con cui non infieriscono neanche gli individui più disumani, neppure quelli di una crudeltà consegnata alle favole.
I tiranni hanno straziato il corpo di alcuni ma non hanno comandato ad alcuno di straziare il proprio corpo.
Alcuni sono stati evirati per soddisfare la libidine di un re ma nessuno per comando di un padrone ha compiuto l'atto con cui togliersi la virilità.
Si dilaniano da sé nei templi, supplicano con le proprie ferite sanguinanti.
Se qualcuno ha tempo di andare a vedere quel che fanno e quel che patiscono, osserverà azioni veramente disgustose per le persone oneste, indegne di persone libere, sconvenienti a persone assennate da non far dubitare nessuno che sono pazzi furiosi se lo fossero in pochi.
Ma oggi garanzia di assennatezza è la folla dei dissennati.
Nessuno crederebbe ai fatti che, come Seneca narra, si verificavano abitualmente in Campidoglio e che egli con vero coraggio stimmatizza, se non fossero stati compiuti da buffoni e da pazzi.
Egli derideva che nei misteri egiziani si piangesse lo smarrimento di Osiride e che all'improvviso si manifestasse una grande gioia nel ritrovarlo, poiché il suo smarrimento e ritrovamento erano nell'immaginazione, invece venivano manifestati di fatto il dolore e la gioia da individui che non avevano smarrito e ritrovato nulla.
Ma per questa follia, egli dice, è stabilito un tempo ed è tollerabile uscir di senno una volta all'anno.
Ma va' in Campidoglio, ti farà vergognare della frenesia esposta al pubblico ciò che una stravagante mania si è attribuita come dovere.
Un tale fa vedere alcuni nomi a un dio, un altro notifica le ore a Giove, qualcuno fa il gesto del littore, un altro unge, giacché un inutile movimento delle braccia imita chi spalma l'unguento.
Vi sono delle donne che pettinano i capelli a Giunone e a Minerva; in piedi lontano dal tempio e non soltanto dalla statua muovono le dita col gesto delle acconciatrici.
Altre sostengono lo specchio.
Vi sono alcuni che invitano gli dèi ad andare con loro per ottenere la cauzione, altri fanno vedere loro lo scritto di ricorso e fanno loro conoscere il processo che li riguarda.
Un colto primo attore, ormai vecchio decrepito, eseguiva ogni giorno in Campidoglio una sua rappresentazione, convinto che gli dèi lo seguissero di buon grado, perché gli uomini avevano cessato di farlo.
Ogni categoria di artigiani se ne sta lì con le mani in cintola a lavorare per gli dèi immortali.
E poco dopo aggiunge: Ma costoro non offrono al dio un'attività abominevole o infame, anche se inutile.
Però alcune donne si soffermano in Campidoglio perché sono convinte di essere amate da Giove; non si spaventano neanche col pensiero di Giunone che, se si vuol credere ai poeti, era furiosamente gelosa.
Varrone non ebbe questa libertà, osò attaccare soltanto la teologia dei poeti e non quella dello Stato che invece Seneca infamò.
Ma se abbiamo riguardo al vero, sono peggiori i templi in cui si compiono azioni abominevoli che i teatri in cui si rappresentano.
E per questo in merito ai misteri della teologia dello Stato Seneca ha preferito assegnare al saggio il dovere di non accettarli nella religione interiore ma di simularli mediante atti esterni.
Dice infatti: Il saggio osserverà tutte le prescrizioni perché comandate dalle leggi e non perché gradite agli dèi.
E poco dopo osserva: Che dire che combiniamo matrimoni fra gli dèi e, contro ogni diritto, fra fratelli e sorelle?
Uniamo in matrimonio Bellona a Marte, Venere a Vulcano, Nettuno a Salacia.
Però ne lasciamo alcuni scapoli, come se non si fosse presentata l'occasione, tanto più che vi sono alcune vedove, come Populonia, Fulgora e la ninfa Rumina, ma non mi meraviglio che costoro non abbiano avuto un pretendente.
Noi dunque adoreremo questa popolana folla di dèi, che una lunga superstizione durata molto tempo ha ammucchiata, ma ricordiamoci che il culto relativo riguarda la consuetudine e non la religione.
Dunque né le leggi né la consuetudine istituirono nella teologia dello Stato un rito che fosse accetto agli dèi o che riguardasse la religione.
Ma questo uomo che i filosofi riuscirono quasi a render libero, tuttavia, poiché era un illustre senatore del popolo romano, onorava ciò che biasimava, compiva atti che satireggiava, adorava ciò che accusava.
La filosofia, cioè, gli aveva insegnato una grande verità, di non essere superstizioso di fronte al mondo ma, in vista delle leggi civili e dell'umana consuetudine, di non fare, certamente, l'attore drammatico ma di imitarlo nel tempio.
Tanto più riprovevole era la sua condotta in quanto il popolo riteneva che compisse per convinzione quegli atti che al contrario compiva in quel modo soltanto per falso conformismo, mentre l'attore, anziché trarre in errore con l'inganno, dilettava con lo spettacolo.
Tra le altre superstizioni della teologia dello Stato Seneca riprende anche i riti degli Ebrei e soprattutto il sabato.
Pensa che si comportino senza senso pratico, perché con quei giorni ricorrenti ogni settimo perderebbero nel riposo circa una settima parte della vita e in questo modo sarebbero lesi molti interessi che incalzano nel tempo.
Non ha voluto nominare né in un senso né nell'altro i cristiani che già da allora erano profondamente odiati dai Giudei, tanto per non lodarli contro l'antica usanza della sua patria, quanto per non biasimarli forse contro la propria intenzione.
Parlando dei Giudei, ha detto: Essendo frattanto invalsa l'usanza di un popolo di mascalzoni al punto che è stata accolta in tutti i paesi, i vinti hanno dettato leggi ai vincitori.
Si meravigliava nel dire queste parole e non sapendo ciò che avveniva per divina disposizione ha aggiunto una frase con cui svelò la propria opinione sul significato di quei riti.
Dice infatti: Quelli sanno tuttavia le ragioni del proprio culto, invece la maggior parte del nostro popolo compie dei riti e non conosce il motivo per cui li compie.
Ma ho parlato altrove, soprattutto nella polemica contro i manichei,29 sull'argomento del culto giudaico, cioè sulla ragione e sul limite con cui è stato istituito dall'autorità divina e per cui a tempo opportuno dalla medesima autorità è stato loro sottratto dal popolo di Dio, al quale è stato rivelato il mistero della vita eterna.
Comunque anche in questa opera se ne dovrà parlare a suo luogo.30
Ora sull'argomento delle tre teologie, che i Greci chiamano mitica, fisica e politica e che in latino si possono tradurre in fabulosa, naturale e civile, è stato dimostrato che la vita eterna non si deve attendere né da quella della favola, perché con grande libertà l'hanno attaccata perfino gli adoratori degli dèi del politeismo, né da quella dello Stato, perché si è dimostrato che la prima è una sua parte e che questa le è molto simile o anche peggiore.
Ma se a qualcuno non basta la dimostrazione esposta in questo volume, vi aggiunga anche la tesi, sostenuta con un lungo discorso nei libri precedenti e soprattutto nel quarto, su Dio datore della felicità.31
Infatti se la felicità è una dea, soltanto a lei gli uomini dovrebbero consacrarsi per conseguire la vita eterna.
Ma poiché non è una dea ma un dono di Dio, soltanto a quel Dio che dà la felicità ci dobbiamo consacrare noi che con religiosa carità amiamo la vita eterna in cui si ha vera e piena felicità.
Da quanto è stato detto non si può assolutamente dubitare, come io penso, che dia la felicità qualcuno degli dèi che sono adorati tanto oscenamente e che più oscenamente ancora si sdegnano se non sono adorati in quel modo e che per tal motivo mostrano di essere spiriti immondi.
Ora chi non dà la felicità non può dare neanche la vita eterna.
Si considera appunto vita eterna quella in cui si ha una felicità senza fine.
Se infatti l'anima vive nelle pene eterne, con le quali saranno puniti anche gli spiriti immondi, quella è piuttosto una morte eterna che vita.
Non si ha infatti una morte maggiore e peggiore che là dove la morte non muore.
Ma poiché l'essere dell'anima, per il fatto che è stata creata eterna, non si può concepire senza una qualunque vita, la sua morte più vera è l'alienazione dalla vita di Dio nell'eternità della pena.
Quindi soltanto colui che dà la vera felicità dà la vita eterna, cioè felice senza fine.
Ora è stato dimostrato che gli dèi adorati dalla teologia civile non possono dare la felicità, e non solo ai sensi dei beni temporali e terreni, come ho dimostrato nei primi cinque libri, ma a più forte ragione ai sensi della vita eterna che si avrà dopo la morte, come ho trattato in questo unico libro anche con la collaborazione dei loro scrittori.
Quindi gli dèi non si devono adorare.
Ma la forza di una vecchia usanza ha radici molto profonde.
Perciò, se a qualcuno sembra che ho trattato poco della necessità di respingere decisamente la teologia civile, volga l'attenzione all'altro volume che con l'aiuto di Dio segue immediatamente a questo.
Indice |
1 | Platone, Timeo. 41 a-d |
2 | Sopra 4,11; Sopra 4,21; Sopra 4,23 |
3 | Varrone, Antiq. (rer. div. 1), fr. 120 (solo in Agostino); De ling. lat. 5, 71; cf. sopra 4, 22 |
4 | Virgilio, Ecl. 3, 9; Varrone, De ling. lat. 7, 87 |
5 | Sopra 4,8 |
6 | Sopra 4,11 |
7 | Cicerone, Acad. 3, fr. 22; Lattanzio, Div. inst. 1, 6, 6 |
8 | Cicerone, Acad. 1, 3, 9 |
9 | Terenziano Mauro, De metris 2846 |
10 | Varrone, Antiq. (rer. div. 1), fr. 119 (solo in Agostino) |
11 | Varrone, Antiq. (rer. div. 1), fr. 109 (solo in Agostino) |
12 | Varrone, Antiq. (rer. div. 1), fr. 111 (solo in Agostino); Q. Muzio Scevola, Iur. civ., fr. 71; vedi sopra 4, 27 |
13 | Tertulliano, Ad nat. 2, 2, 1 |
14 | Varrone, Antiq. (rer. div. 1), fr. 118 (solo in Agostino) |
15 | Varrone, De ling. lat. 10, 55 |
16 | Varrone, Antiq. (rer. div. 6), fr. 154 (solo in Agostino) |
17 | Hymn. hom. Gea Matr.: Esiodo, Theog. 125-153; Lucrezio, De rer. nat. 2, 599ss.; vedi appresso 7, 23-24 |
18 | Esiodo, Theog. 452-462; Platone, Cratilo 402b |
19 | Varrone, De ling. lat. 5, 64; Macrobio, Saturn. 7, 25; 10, 19; Arnobio, Adv. nat. 4, 9; Tertulliano, Ad nat. 2, 12, 13; Cicerone, De nat. deor. 2, 25, 64; vedi appresso 7, 13. |
20 | Sopra 4,8; Sopra 4,11; Sopra 4,21; Sopra 6,1.2 |
21 | Varrone, De ling. lat. 7, 87 [?] |
22 | Livio, Ab Urbe cond. 39, 8, 5-8 |
23 | Varrone, Antiq., fr. 133 (solo in Agostino) |
24 | Varrone, Antiq. (rer. div. 14), fr. 196 (solo in Agostino) |
25 | Varrone, Antiq. (rer. div. 14), fr. 195 (solo in Agostino) |
26 | Varrone, Antiq., fr. 190 (solo in Agostino) |
27 | Vedi appresso 7, 5-6. 9 |
28 | Seneca, Dial. de sup., frr. 31-43 (opera perduta e cit. in Tertulliano, Apol. 12, 6) |
29 | Agostino, C. Faustum, passim |
30 | Vedi appresso 17,3ss |
31 | Vedi sopra 4,24-26 |