La città di Dio |
Per quanto riguarda la prima origine, la vita stessa, se di vita si deve parlare, piena di tanti e grandi mali, attesta che tutta la discendenza di esseri soggetti alla morte fu condannata.
Che altro significa infatti un certo abisso dell'ignoranza, da cui promana l'errore che ha accolto tutti i figli di Adamo in una specie di baratro tenebroso sicché l'uomo non se ne può liberare senza fatica, sofferenze, timore?
Che cosa sta ad indicare l'amore di tante cose inutili e nocive?
Da esso infatti derivano le preoccupazioni affannose, i turbamenti, le afflizioni, i timori, le pazze gioie, le discordie, le liti, le guerre, i tradimenti, i furori, le inimicizie, l'inganno, l'adulazione, la frode, il furto, la rapina, la slealtà, la superbia, l'ambizione, l'invidia, gli omicidi, i parricidi, la crudeltà, la spietatezza, l'ingiustizia, la lussuria, l'insolenza, la sfrontatezza, l'impudicizia, le fornicazioni, gli adultèri, gli incesti e contro la natura dell'uno e dell'altro sesso i tanti stupri e atti impuri che è vergogna perfino parlarne, i sacrilegi, le eresie, le bestemmie, gli spergiuri, le oppressioni degli innocenti, le calunnie, gli inganni, le concussioni, le false testimonianze, le condanne ingiuste, le violenze, i furti e ogni altro tipo di malvagità che non viene in mente e tuttavia non scompare dalla vita umana nel tempo.
Per la verità sono colpe proprie degli uomini malvagi, ma provengono da quella radice dell'errore e dell'amore pervertito, con cui nasce ogni figlio di Adamo.
Difatti chi ignora con quanta ignoranza della verità, che è già palese nei bambini, e con quale eccesso di cattiva inclinazione, che comincia già ad apparire nei fanciulli, l'uomo viene all'esistenza?
Perciò se gli si consente di vivere come vuole e di fare tutto ciò che vuole, giunge a tutti o a molti di questi delitti che ho enumerato o che non mi è stato possibile di enumerare.
Ma in virtù dell'ordinamento divino, che non abbandona completamente i colpevoli e nella bontà di Dio, che non trattiene nella propria ira gli atti della sua benignità, ( Sal 77,10 ) la correzione e l'apprendimento vegliano sulle facoltà stesse del genere umano contro le tenebre, nelle quali veniamo all'esistenza e, sebbene anch'essi siano pieni di affanni e di dolori, si oppongono agli impulsi.
Che cosa infatti vogliono ottenere i molteplici spauracchi, che si adoperano per reprimere la frivolezza dei piccoli, che cosa vogliono raggiungere gli educatori, gli insegnanti, le bacchette, le sferze, gli scudisci, che cosa il castigo con cui la sacra Scrittura dice che si devono battere le costole dell'amato figliolo affinché non cresca senza essere corretto, poiché in seguito, restio a essere corretto, o lo potrebbe con difficoltà o non lo potrebbe affatto? ( Sir 30,12 )
Che cosa si vuole ottenere con tutte queste punizioni, se non che sia debellata l'ignoranza e frenata la cattiva inclinazione, mali con i quali veniamo al mondo?
Cosa significa infatti che ricordiamo con fatica, dimentichiamo con facilità, apprendiamo con fatica, senza fatica rimaniamo ignoranti, con fatica siamo intraprendenti, senza fatica inerti?
Da questi fatti non si evidenzia forse in quale senso e come per un peso sia incline e incurvata la natura viziata e di quale soccorso abbia bisogno per essere liberata?
L'accidia, l'indolenza, la pigrizia, la negligenza sono certamente vizi con cui si evita il lavoro poiché il lavoro, anche quello che dà profitto, è una punizione.
Ma oltre alle punizioni dei fanciulli, senza le quali non si può apprendere quel che vogliono gli anziani, i quali non del tutto utilmente vogliono qualcosa, chi può esporre a parole con quante e grandi pene, che non riguardano la malvagità e la cattiveria dei disonesti, ma la infelice condizione di tutti, sia sconvolto l'uman genere?
Chi lo può esprimere col pensiero?
Provengono grande paura e disgrazia dal pianto dovuto alle perdite, dai danni e condanne, dagli inganni e imposture degli uomini, dai falsi sospetti, da tutti i misfatti e delitti della violenza degli altri.
Avvengono quindi il saccheggio e l'asservimento, i ceppi e le prigioni, gli esili e le torture, l'amputazione di membra e la privazione di sensi, la violenza carnale per appagare l'oscena passione di chi usa violenza e molti altri fatti raccapriccianti.
Che di più? Provengono anche dalle numerose contingenze che si temono per il corpo dall'esterno, dal freddo e caldo, dalle tempeste, rovesci improvvisi, inondazioni, lampi, tuoni, grandine, fulmine, da terremoti con squarci del suolo, dagli schiacciamenti di edifici che crollano, dalle reazioni e paura o anche cattiveria dei giumenti, dai tanti veleni delle piante, dell'acqua, dell'aria e delle bestie, dal morso soltanto fastidioso o anche mortale delle belve, da idrofobia che si attacca da un cane rabbioso al punto che anche una bestia graziosa e amica del suo padrone si fa temere talora più intensamente e dolorosamente dei leoni e serpenti e rende l'uomo, che per caso ha addentato, così rabbioso per trasmissione virale che dai genitori, coniuge e figli è temuto più di qualsiasi bestia.
Quanti pericoli subiscono i naviganti, quanti coloro che compiono viaggi per terra!
Chi cammina senza essere soggetto a impensate evenienze da ogni parte?
Un tale, nel tornare a piedi dalla piazza a casa, cadde, si fratturò un piede e per quella ferita chiuse la propria vita.
Che cosa è più sicuro di uno che sta seduto?
Eppure il sacerdote Eli cadde dallo scranno in cui sedeva e morì.( 1 Sam 4, 18 )
Gli agricoltori, anzi tutti gli uomini temono molti e gravi incidenti per i prodotti dei campi dal cielo, dalla terra e dagli animali nocivi.
Però di solito sono tranquilli sul grano raccolto e riposto.
Ma ad alcuni, che conosciamo, il fiume all'improvviso, mentre gli uomini se la davano a gambe, trascinò e asportò dai granai un'ottima produzione di grano.
Chi si fida della propria coscienza contro i multiformi attacchi dei demoni?
Appunto perché nessuno si fidi di essa tormentano talora perfino i bimbi battezzati, che certamente sono gli esseri più innocenti, in modo che soprattutto in essi si renda palese, Dio permettendolo, che è da compiangere l'infelicità di questa vita e da desiderare la felicità dell'altra.
Dal corpo stesso provengono le sofferenze delle malattie, così numerose che neanche nei libri dei medici sono elencate al completo. In molte di esse, e quasi in tutte, anche le stesse terapie e le medicine sono un tormento, sicché gli uomini sono tirati fuori dal danno delle pene con il soccorso di una pena.
E un caldo spaventoso non ha forse costretto gli uomini a bere l'orina umana o perfino la propria?
E la fame non ha forse costretto gli uomini a non potersi astenere dalla carne umana e a cibarsi non di uomini trovati morti, ma uccisi allo scopo e non estranei, ma perfino le madri i figli con l'incredibile crudeltà causata dalla fame rabbiosa?
Chi infine può spiegare a parole in quali proporzioni turbi il sonno?
Esso infatti, che in senso proprio ha avuto il nome di riposo, è spesso affannoso per le visioni illusorie dei sogni e sconvolge l'anima e i sensi con grandi spaventi, sia pure con fatti apparenti che presenta e in certo senso rappresenta in modo tale che non è possibile distinguerli da quelli reali.
Da illusorie visioni anche gli individui svegli sono agitati in modo più compassionevole mediante disturbi nevrotici, sebbene con una multiforme varietà d'inganno i malvagi demoni talora raggirino uomini anche sani con simili visioni illusorie.
In tal modo, anche se mediante esse non possono accalappiarli fra le cose proprie, per lo meno frustrano la loro coscienza col solo impulso di una qualunque illusoria apparenza.
Dal quasi inferno di una vita tanto infelice ci libera soltanto la grazia di Cristo Salvatore, Dio e Signore nostro.
E questo nome è lo stesso Gesù, che significa appunto il Salvatore. ( Mt 1,21; Lc 1,31-32 )
Si ottiene così che dopo questa vita non ci colga una vita eterna più infelice, che non è vita ma morte.
Infatti in questa, sebbene vi siano i grandi soccorsi dei rimedi mediante i sacramenti e i santi, tuttavia non sempre gli stessi sono accordati a coloro che li chiedono affinché non si pratichi la religione per questi motivi, giacché si deve piuttosto praticare per l'altra vita, in cui non vi sarà alcun male.
E proprio per questo la grazia aiuta i più buoni nelle pene della vita affinché siano sopportate con un sentimento tanto più coraggioso quanto più religioso.
I dotti della cultura profana affermano che all'intento è utile anche la filosofia, poiché quella vera, dice Cicerone, gli dèi l'hanno concessa a pochi e agli uomini, soggiunge, non è stato da loro dato un dono più grande né poteva essere dato.31
Anche coloro, contro i quali stiamo discutendo, sono stati costretti in certo senso ad ammettere la grazia divina nel professare non una qualsiasi, ma la vera filosofia.
Se a pochi infatti, per dono divino, è stato concesso l'unico soccorso della vera filosofia contro le infelicità di questa vita, anche da questo fatto appare che il genere umano è stato condannato ad espiare le pene dell'infelicità.
E poiché pari a questo, come ammettono, non è stato concesso un dono divino più grande, così si deve credere che da nessun dio si può concedere se non da colui, del quale anch'essi, che onorano molti dèi, affermano che non ve n'è uno più grande.
Oltre i mali di questa vita, che sono comuni ai buoni e ai cattivi, i giusti hanno, mentre essa scorre, alcune particolari attenzioni con cui si schierano contro i vizi e si voltano e rivoltano nelle prove e pericoli di simili lotte.
Ora più impetuosamente, ora più blandamente, ma ognora la carne non desiste ad avere desideri contrari allo spirito e lo spirito contrari alla carne, ( Gal 5,17 ) sicché non facciamo quel che vogliamo se acconsentiamo a ogni cattivo impulso; invece non acconsentendo, per quanto ci è possibile con l'aiuto della grazia di Dio, lo assoggettiamo a noi stando all'erta con una costante attenzione.
E questo affinché non inganni l'infondata certezza di ciò che sembra vero, non suggestioni un discorso scaltro, non offuschino le tenebre di qualche errore, non si creda male ciò che è bene e bene ciò che è male, il timore non distolga dalle azioni che si devono compiere, il sole non tramonti sulla nostra ira, ( Ef 4,26 ) le inimicizie non spingano a ricambiare male per male, ( Rm 12,17 ) non avvilisca una disonesta o smodata tristezza, una mente ingrata non induca all'indifferenza del bene che si deve compiere, una buona coscienza non sia importunata dalle dicerie della maldicenza, un nostro sospetto temerario sull'altro non c'inganni e il falso dell'altro su di noi non ci butti a terra, non regni il peccato nel nostro corpo mortale per obbedire ai suoi desideri, non siano usate le nostre membra come armi di malvagità per il peccato, ( Rm 6,12-13 ) l'occhio non ceda alla sensualità, non vinca il desiderio di vendicarsi, la vista e il pensiero non si soffermino in ciò che attrae alla cattiveria, non si ascolti liberamente un discorso ingiusto o indecente, non si faccia ciò che non è lecito, anche se piace, in questa aperta battaglia di affanni e sofferenze non si speri di ottenere la vittoria con le nostre forze o, una volta ottenutala, non si attribuisca alle nostre forze, ma alla grazia di colui, di cui dice l'Apostolo: Rendiamo grazie a Dio, che ci concede la vittoria mediante il Signore nostro Gesù Cristo; ( 1 Cor 15,57 ) e in un altro passo: In tutte queste cose siamo più che vincitori in virtù di colui che ci ha amati. ( Rm 8,37 )
Cerchiamo di capire tuttavia che, sebbene resistiamo ai vizi col grande coraggio della lotta o anche se li superiamo e debelliamo, non è possibile, finché siamo in questo corpo, che manchi il motivo di dover dire: Rimetti a noi i nostri debiti. ( Mt 6,12 )
Nel regno dei cieli, in cui saremo col corpo non soggetto a morire, non avremo né lotte né debiti ed essi non sarebbero in nessun luogo e in nessun tempo, se la natura si fosse mantenuta retta come è stata creata.
Quindi anche questo nostro conflitto, nel quale corriamo un rischio e da cui aneliamo liberarci con la vittoria finale, appartiene ai mali di questa nostra vita, di cui costatiamo la punizione attraverso la testimonianza di tanti e sì grandi mali.
Ed ora si deve esaminare di quali e quanti beni la bontà di colui, che governa tutte le cose che ha creato, ha colmato l'infelicità del genere umano, nella quale ha lode la giustizia di lui che punisce.
Prima di tutto segnaliamo la benedizione che proferì prima del peccato dicendo: Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra, ( Gen 1,28 ) e che dopo il peccato non ha voluto rievocare e rimase nella discendenza condannata la fecondità concessa.
Neanche la disobbedienza del peccato, con la quale ci è piombata addosso la fatale legge del morire, è riuscita ad eliminare la meravigliosa energia dei semi, anzi quella più meravigliosa, con cui essi si producono, inserita e in un certo senso intessuta nel corpo umano.
Ma in questo quasi fiume impetuoso corrono insieme l'uno e l'altro: il male che è derivato dal progenitore, il bene che è concesso dal Creatore.
Nel male di origine si hanno due significati: il peccato e il castigo; nel bene di origine altri due: la propagazione e la conservazione della forma.
Ma per quanto attiene al nostro intento in atto, abbiamo già parlato abbastanza dei mali, di cui uno deriva dalla nostra temerità, cioè il peccato, l'altro dal giudizio di Dio, cioè la punizione.
Ora ho deciso di parlare dei beni che Dio ha accordato anche alla natura corrotta e punita o fino ad ora accorda.
Difatti punendo o non ha tolto il tutto che aveva concesso, altrimenti esso non esisterebbe affatto; o non ha escluso la natura dal suo potere, anche se per pena l'ha assoggettata al diavolo, poiché neanche lui ha respinto dal suo ordinamento.
Difatti Egli, che esiste nel tutto dell'essere e fa che esista tutto ciò che in qualche modo esiste, fa che persista nell'essere anche la natura del diavolo.
Egli dunque con la sua benedizione ha accordato all'inizio delle opere del mondo la propagazione di quei due beni che, come abbiamo detto, sgorgano come dalla sorgente della sua bontà anche nella natura viziata dal peccato e condannata alla pena.
Da tali opere Egli si è riposato al settimo giorno, ma la conservazione della forma persiste nell'opera con cui fino ad ora dà l'essere. ( Gv 5,17 )
Se sottraesse dalle cose l'efficienza del suo potere, esse non potrebbero conservarsi e con movimenti misurati far fluire il tempo e certamente non si conserverebbero fino a un certo punto nella specie in cui sono state create.
Dunque Dio ha creato l'uomo in modo da aggiungere anche la fecondità con cui realizzare la procreazione di altri uomini, inserendo anche in essi la possibilità non la necessità di procreare.
Ha sottratto però la fecondità ad individui che ha voluto e sono stati sterili, ma non ha sottratto la fecondità concessa all'inizio ai primi due coniugi con una benedizione per tutti.
La propagazione, sebbene non sottratta col peccato, tuttavia non è quella quale sarebbe stata, se non vi fosse stato il peccato.
Dal momento in cui l'uomo, fregiato di dignità, per avere trasgredito è stato eguagliato alle bestie, ( Sal 49,13 ) genera come loro, tuttavia in lui non si è spenta una determinata quasi scintilla dell'intelligenza, nella quale è stato creato a immagine di Dio. ( Gen 1,27 )
Se alla propagazione non si applicasse la conservazione della forma, neanche la propagazione si svolgerebbe nelle forme e modalità dovute al suo genere.
Se gli uomini non si fossero accoppiati e, ciò nonostante, Dio volesse riempire la terra di uomini, come ne ha creato uno senza l'unione di maschio e femmina, potrebbe creare tutti allo stesso modo e coloro che si accoppiano non possono procreare se egli non crea.
L'Apostolo riguardo all'educazione spirituale, con cui l'uomo si forma alla religione e alla moralità, dice: Non chi attende alla semina e alla irrigazione è qualcosa, ma Dio che fa crescere. ( 1 Cor 3,7 )
Egualmente si può dire al caso nostro: "Non l'uomo che si accoppia e sparge il seme è qualcosa, ma Dio che dà la forma; non la madre che gesta il feto e nutrisce il nato è qualcosa, ma Dio che fa crescere".
Infatti con il medesimo atto, con cui attua fino al presente, ottiene che i semi raggiungano la quantità dovuta e da nascosti, invisibili involucri, risultino nelle forme visibili della bellezza che ammiriamo.
Ed Egli, congiungendo e unendo con misure ammirevoli, rende essere animato la natura incorporea e la corporea, quella in alto, questa in basso.
E quest'opera è tanto grande e meravigliosa che a chi ben riflette impone l'ammirazione del pensiero e suscita la lode al Creatore, non solo riguardo all'uomo perché è un animale ragionevole e perciò superiore e più nobile di tutti gli esseri animati della terra, ma anche riguardo al più piccolo moscerino.
Egli ha dunque concesso la facoltà di pensare all'anima umana, nella quale, per quanto riguarda il bambino, la ragione e l'intelligenza sono senza funzione, come se non esistessero.
Tale facoltà si deve quindi stimolare e sviluppare col crescere dell'età in modo che sia capace di ragionamento e istruzione e disponibile all'apprendimento della verità e dell'amore del bene, e con tale capacità raggiunga la sapienza, sia dotata delle virtù mediante le quali, con prudenza, fortezza, temperanza, giustizia si opponga agli errori e agli altri vizi congeniti e vinca soltanto nel desiderio del Bene sommo e immutabile.
Ed anche se non raggiunge lo scopo, chi può dire o pensare con competenza quale grande bene sia la capacità, disposta per dono di Dio nella creatura ragionevole, di raggiungere tali beni e quanto meravigliosa sia l'opera dell'Onnipotente?
Oltre alle arti del bene vivere e giungere alla felicità eterna, che si definiscono virtù e sono concesse ai figli del regno e della promessa soltanto con la grazia di Dio che è in Cristo, forse che dall'ingegno umano non sono state inventate ed esercitate molte e insigni arti, in parte legate al bisogno, in parte al piacere?
Ma il prestigioso vigore della mente e ragione, anche attraverso i beni superflui, anzi pericolosi e dannosi che appetisce, attesta quale grande bene abbia nella natura, dalla quale ha potuto derivare, imparare o esercitare queste arti.
L'umana operosità è giunta a confezioni meravigliose e stupende di abbigliamenti ed edifici, ha progredito nell'agricoltura e nella navigazione, ha ideato ed eseguito opere nella produzione di varie ceramiche ed anche nella varietà di statue e pitture, ha allestito nei teatri azioni e rappresentazioni ammirevoli per gli spettatori, incredibili per gli uditori; ha usato molti e grandi mezzi per catturare, uccidere e domare gli animali irragionevoli; ha inventato tutti i tipi di veleni, di armi, di strumenti contro gli uomini stessi; per difendere e ricuperare la salute molte medicine e sussidi; ha scoperto molti condimenti e stimoli della gola per il piacere del gargarozzo; per suggerire e inculcare i pensieri una grande moltitudine e varietà di segni, fra cui prevalgono le parole e lo scritto; per dilettare gli animi i magnifici ornamenti del discorso e una grande abbondanza di varie composizioni poetiche; per incantare l'udito ha ideato tanti strumenti musicali e magnifici ritmi di canto; ha esposto con grande acutezza d'ingegno l'esatta conoscenza della geometria e dell'aritmetica e il corso di collocazione degli astri; si è arricchita di una profonda conoscenza della fisica.
Ma chi potrebbe esporre tutto, specialmente se non vogliamo trattare tutti gli argomenti sommariamente, ma esaminarli uno per uno?
Infine, chi potrebbe giudicare con criterio come si distinse l'ingegno di filosofi ed eretici nel difendere errori e assurdità?
Parliamo infatti della natura dell'intelligenza umana, con cui si sublima questa vita destinata a finire, non della fede e del cammino della verità con cui si raggiunge l'immortalità beata.
Poiché il creatore di questa natura tanto eminente è Dio vero e sommo dal momento che Egli dirige al fine tutti gli esseri che ha creato ed ha potere e giustizia al di là di ogni limite, la natura umana certamente non sarebbe nella infelicità presente e da essa non andrebbe alla infelicità eterna, esclusi soltanto coloro che si salveranno, se non fosse avvenuto precedentemente il peccato troppo grande del primo uomo, dal quale gli altri discendono.
Quanta bontà di Dio e quanta provvidenza del grande Creatore si manifesta nel corpo stesso, sebbene esso per la soggezione al morire sia comune con le bestie e più debole nell'uomo che in molte di esse.
Infatti in esso la posizione dei sensi e le altre membra non sono forse così disposte, l'aspetto, l'atteggiamento e la statura di tutto il corpo non sono forse così regolati che esso si rivela organizzato per il servizio dell'anima razionale?
Notiamo appunto che l'uomo non è stato creato come gli animali privi di ragione e chini verso la terra, ma la forma del corpo, che si erge verso il cielo, fa pensare che egli capisca le cose dell'alto. ( Col 3,1ss )
La sorprendente facilità di movimento, che è stata assegnata alla lingua e alle mani, appropriata e congiunta al parlare e allo scrivere e a compiere le opere di molte tecniche e servizi, non dimostra forse chiaramente a quale anima, per esserle sottomesso, è stato unito un corpo simile?
Però, a parte le inevitabili contingenze dell'agire, l'accordo di tutte le parti è così ritmico e attraente e si corrisponde con tale limpida simmetria che non sai se nel formarlo è stato osservato di più il criterio dell'utilità che della bellezza.
Difatti possiamo notare che nulla è stato creato nel corpo per motivo di utilità che non abbia anche una nota di bellezza.
Sarebbe per noi più evidente se conoscessimo i ritmi delle dimensioni per cui tutte le componenti sono tra di loro connesse e proporzionate.
L'umana ingegnosità potrebbe compiere un'indagine su tali ritmi con attenzione a quelli che si manifestano all'esterno, ma nessuno può reprimere quelli che sono nascosti e non accessibili alla nostra osservazione, come il grande groviglio di vene, nervi e viscere, nascondiglio di funzioni vitali.
Infatti una spietata indagine dei medici, che chiamano anatomisti,32 ha lacerato i corpi dei morti o anche di coloro che morivano sotto le mani di chi li spaccava per osservare e ha frugato molto disumanamente nelle carni umane le funzioni nascoste per imparare che cosa, con quali mezzi e in quali parti si deve curare.
Ma che dovrei dire? Nessuno è riuscito a trovare, poiché nessuno ha osato ricercare i ritmi, di cui sto parlando e da cui si compone, dentro e fuori, l'accordo, che in greco, come se fosse uno strumento musicale, si dice άρμονία, di tutto il corpo.
Se potessero essere noti anche negli intestini, che non presentano alcuna attrattiva, darebbe tanto diletto la bellezza della proporzione la quale, su giudizio dell'intelligenza che impegna la vista, prevarrebbe su ogni formosità apparente che piace alla vista.
Vi sono alcune parti così disposte nel corpo che hanno soltanto attrattiva, non utilità, come il petto virile che ha le mammelle, il viso la barba, la quale non è di difesa ma di prestigio, come indicano le facce glabre delle donne che, essendo più deboli, conveniva proteggere con un più sicuro riparo.
Dunque fra le membra ragguardevoli, delle quali nessuno dubita, non ve n'è alcuna che non sia proporzionata a una determinata funzione e al tempo stesso anche formosa; ve ne sono alcune invece che hanno soltanto attrattiva e non utilità.
Penso quindi che si debba capire che nella formazione del corpo ha prevalso la prestanza sulla funzione.
Passerà dunque la soggezione alla contingenza e verrà il tempo in cui godremo senza passione della bellezza altrui scambievolmente.
E dobbiamo volgere il fatto in ringraziamento al Creatore, al quale si dice in un Salmo: Sei rivestito di gloria e di attrattiva. ( Sal 104,1 )
Poi con quale discorso si può esprimere la restante bellezza e utilità della realtà creata che dalla bontà di Dio è stata accordata all'uomo, sebbene gettato alla condanna negli affanni e nell'infelicità del tempo, per ammirarla e usarla?
Nella multiforme e varia bellezza del cielo, della terra e del mare, nella grande profusione e meraviglioso splendore della luce stessa nel sole e luna e nelle stelle, nella ombrosità dei boschi, nel colore e odore dei fiori, nella diversità e numero degli uccelli ciarlieri e variopinti, nella diversa vaghezza di tanti e tanto grandi animali, fra i quali destano maggiore ammirazione quelli che hanno il minimo della grossezza, perché ammiriamo di più l'operosità delle formiche e delle api che i corpi immensi delle balene, e nella immensa veduta del mare quando, come di una veste, si ricopre di vari colori e talvolta è verde nelle varie gradazioni, talora color porpora, talora azzurro.
Si ammira anche con molta soddisfazione quando è in tempesta perché affascina chi guarda appunto perché non lo sbatte e sconvolge come navigante.
Che cosa suggerisce contro la fame la svariatissima abbondanza di cibi?
Che cosa contro la schifiltosaggine la diversità dei sapori, diffusa dalla ricchezza della natura e non dalla tecnica e lavoro dei cuochi?
Che cosa nelle varie circostanze i sussidi per difendere o recuperare la salute?
Com'è gradevole l'avvicendarsi del giorno e della notte, la carezzevole tiepidezza delle brezze!
Quant'è grande la provvista, in arbusti e bestiame minuto, per confezionare tessuti!
Chi potrebbe passare in rassegna tutto?
Se volessi spiegare e sviluppare soltanto quegli argomenti che da me, come involucri piegati, sono stati accatastati in una specie di mucchio, mi sarebbe indispensabile una sosta prolungata perché in essi sono contenute molte cose da dire.
Eppure tutti questi beni sono sollievi d'infelici e condannati, non premio dei beati.
Che cosa sarà dunque quel bene se questi sono tanti, così considerevoli e grandi?
Che cosa darà a coloro che ha predestinato alla vita colui che li ha anche dati a coloro che ha predestinato alla morte?
Quali beni farà avere nella vita beata a coloro per i quali in questa vita infelice ha voluto che il suo Figlio unigenito soffrisse tanti mali fino alla morte?
Per questo l'Apostolo, parlando dei predestinati al regno dei cieli, dice: Egli che non ha perdonato il suo Figlio unigenito, ma l'ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? ( Rm 8,32 )
Quando si adempirà questa promessa, saremo una grande realtà, un grande valore!
Quale bene riceveremo nel regno dei cieli dal momento che con la morte di Cristo per noi abbiamo ricevuto una simile caparra.
Quanto nobile sarà l'anima dell'uomo perché essa non avrà più alcuna passione, alla quale sia soggetta, alla quale ceda o contro la quale, sia pure lodevolmente, debba contendere, in quanto è perfetta di una virtù pienamente garante di pace.
Vi sarà una grande, abbagliante, certa scienza di tutte le cose, senza errore e inquietudine, perché lì si berrà la sapienza dalla sua stessa sorgente con somma serenità, senza difficoltà.
Grande perfezione avrà il corpo che, completamente soggetto allo spirito e da lui con pienezza vivificato, non avrà bisogno di cibi.
Difatti non sarà animale ma spirituale perché ha certamente l'essere della carne ma senza la soggezione della carne al divenire.
I celebri filosofi non dissentono da noi riguardo ai beni spirituali, di cui l'anima sommamente felice godrà dopo questa vita; si oppongono sulla risurrezione della carne, la negano com'è loro possibile.
Ma i molti che la credono hanno abbandonato i pochissimi che la negano e a Cristo, che ha mostrato con la sua risurrezione ciò che a costoro sembra assurdo, con sentimento di fede si sono convertiti i dotti e gli indotti, i sapienti del mondo e gli insipienti.
Il mondo ha creduto ciò che ha predetto Dio, il quale ha predetto anche che il mondo avrebbe creduto questa verità.
E non dalle magiche falsificazioni di Pietro è stato costretto a preannunziare quelle verità con il riconoscimento dei credenti tanto tempo prima.
Egli è quel Dio che, come ho già detto alcune volte,33 e non mi rincresce di ripetere, le divinità stesse paventano per ammissione di Porfirio, che pretende provarlo con gli oracoli dei propri dèi, eppure lo ha riconosciuto al punto di chiamarlo Dio, Padre e Re.34
Ma non sia mai che le predizioni di Dio si debbano intendere nel senso inteso da costoro, i quali non hanno creduto col mondo la verità che, come ha predetto, il mondo avrebbe creduto.
Ma perché non s'intende piuttosto nel senso in cui il mondo l'avrebbe creduta, come è stato predetto tanto tempo prima, e non nel senso in cui pochissimi cianciano perché non hanno voluto credere questa verità col mondo che, come predetto, l'avrebbe creduta?
Ma supponiamo che essi affermino che quelle parole si debbano interpretare in altro senso per non recare ingiuria, se dicessero che sono state ispirate dalle bugie, a quel Dio a cui rendono una sì grande testimonianza.
Ma gli recano una eguale e più grave ingiuria, se affermano che le parole si devono interpretare in senso diverso da come le ha credute il mondo, perché egli ha raccomandato e attestato che il mondo avrebbe creduto e lo ha attuato.
Forse che Egli non può fare che la carne risorga e viva in eterno o non si deve credere che lo farà appunto perché è un male ed è indegno di Dio?
Abbiamo già parlato molto della sua onnipotenza che può operare tanti e grandi fatti al di là della conoscenza umana.
Se vogliono riscontrare qualcosa che l'Onnipotente non può fare, l'hanno sicuramente, lo dirò io: non può mentire.
Crediamo dunque a quel che può non credendo a quel che non può.
Dunque non credendo che possa mentire credano che compirà quel che ha promesso di compiere e così credano come ha creduto il mondo, di cui Egli ha predetto che avrebbe creduto, a cui ha raccomandato di credere ed ha assicurato che avrebbe creduto e fa notare che ha già creduto.
E come possono insistere che la risurrezione è un male?
Nell'eternità non vi sarà la soggezione al divenire che è il male del corpo.
Abbiamo già discusso della disposizione degli elementi, abbiamo già parlato delle altre supposizioni degli uomini.
Nel libro tredicesimo dell'opera abbiamo dimostrato abbastanza, come penso, dal confronto con l'attuale buona salute, che certamente non si può paragonare a quella immortalità, quanto sia grande la facilità di movimento del corpo non soggetto al divenire.35
Coloro che non hanno letto o vogliono ripassare quel che hanno letto, leggano gli argomenti di quest'opera già trattati.
Ma Porfirio dice, soggiungono, che perché l'anima sia felice si deve abbandonare ogni corpo.36
Quindi non giova nulla dire che il corpo sarà immune dal divenire se l'anima non sarà felice, qualora non abbia evitato ogni corpo.
Ma anche di questo ho discusso quanto conveniva nel libro citato,37 però al momento ne richiamerò un solo assunto.
Platone, maestro di tutti costoro, corregga i suoi libri e dica che i loro dèi, per essere felici, abbandoneranno il proprio corpo, cioè moriranno perché ha detto che sono uniti a corpi celesti.
Tuttavia Dio, da cui sono stati posti nell'essere, ha promesso ad essi l'immortalità, cioè la persistenza nel medesimo corpo, non perché lo comporta la loro natura ma perché prevale la sua decisione.38
In quel passo rovescia anche l'altra loro affermazione che la risurrezione della carne non si deve credere perché è impossibile.
Infatti molto apertamente, secondo il medesimo filosofo, nel testo in cui Dio increato promise l'immortalità agli dèi da lui creati, affermò che avrebbe compiuto ciò che è impossibile.
Platone narra che parlò in questi termini: Poiché avete avuto un inizio, non potete essere immortali e immuni dal disfacimento; tuttavia ne sarete immuni e non vi stroncheranno i destini di morte e non saranno più potenti della mia decisione che per la perennità è un vincolo superiore a quelli con i quali siete uniti.39
Se non solo non sono stonati, ma neanche sordi coloro che ascoltano queste parole, non dubitano che a quegli dèi, creati dal Dio che li ha creati, fu promesso ciò che secondo Platone è impossibile.
Chi dice: "Voi non potete essere immortali ma per il mio volere lo sarete", non dice altro che: "Con la mia azione voi sarete ciò che è impossibile che avvenga".
Dunque risusciterà la carne immune dal divenire, immortale, spirituale colui che, secondo Platone, ha promesso di fare ciò che è impossibile.
Perché dunque affermano ancora essere impossibile che Dio ha attestato una tal cosa, che il mondo ha creduto alla sua attestazione e che di esso è stato attestato che avrebbe creduto, quando noi affermiamo che lo compirà Dio che, anche secondo Platone, compie opere impossibili?
Dunque perché le anime siano felici non si deve abbandonare ogni corpo, ma ricevere un corpo immune dal divenire.
E in quale corpo immune dal divenire si allieteranno più convenientemente che in quello in cui, quando era soggetto al divenire, hanno sofferto?
In tal modo non vi sarà in loro quella disumana passione che Virgilio ha desunto da Platone con le parole: E di nuovo incomincino a voler tornare nei corpi.40
In tal modo, ripeto, le anime non avranno la passione di ritornare al corpo, poiché il corpo, con cui desiderano tornare, l'avranno con sé e l'avranno in modo da averlo per non lasciarlo mai più con una morte qualsiasi, sia pure per breve tempo.
Platone e Porfirio, ciascuno per conto proprio, hanno esposto dei pensieri che se avessero potuto concertare fra di loro, probabilmente sarebbero divenuti cristiani.
Platone ha detto che le anime non possono rimanere in eterno senza il corpo.
Perciò ha detto anche che l'anima dei sapienti dopo un periodo, sia pure lungo, sarebbe tornata al corpo.
Porfirio ha detto che l'anima monda per catarsi, quando sarà tornata al Padre, non tornerà più al male di questo mondo.41
Perciò se Platone avesse trasmesso a Porfirio la verità che ha intuito, cioè che anche le anime dei giusti e sapienti, monde per catarsi, torneranno al corpo umano e viceversa se Porfirio avesse trasmesso a Platone la verità che ha intuito, cioè che le anime sante non torneranno all'infelicità del corpo soggetto al divenire in modo che non l'uno o l'altro separatamente, ma tutti e due insieme affermassero l'una e l'altra verità, penso che noterebbero la conseguente deduzione, che cioè le anime ritornino al corpo ed abbiano un corpo in cui vivranno una felice immortalità.
Infatti secondo Platone anche le anime sante torneranno al corpo umano, secondo Porfirio le anime sante non torneranno al male di questo mondo.
E allora Porfirio dica con Platone: Torneranno al corpo; e Platone con Porfirio: Non torneranno al male, e siano d'accordo che torneranno a quei corpi, in cui non subiscano alcun male.
Questo sarà dunque quel bene che il Signore assicura, che cioè le anime beate vivranno in eterno con la propria carne eterna.
Come penso tutti e due ci accorderebbero facilmente questa conclusione: cioè che essi, i quali ammetterebbero che le anime dei santi torneranno a corpi immuni da morte, consentano che esse tornino al proprio corpo, in cui hanno sopportato il male di questo mondo, in cui con devozione e fede hanno onorato Dio per essere immuni da quel male.
Alcuni dei nostri, che prediligono Platone per il magnifico tono di eloquenza e per alcune verità che ha enunciato, dicono che egli ha avuto qualche idea, simile a quella di noi cristiani, sulla risurrezione dei morti.42
Lo accenna anche Cicerone nei libri su Lo Stato per rilevare che intese piuttosto presentare una parabola che esporre una verità.43
Platone dice che un uomo tornò in vita e svelò alcuni fatti che appoggiavano le teorie platoniche.44
Anche Labeone afferma che due uomini morirono nello stesso giorno e che s'incontrarono a un bivio, poi fu loro ordinato di tornare al proprio corpo e stabilirono di vivere da amici e così avvenne fino alla loro morte.45
Ma questi scrittori hanno narrato che la risurrezione dei morti avvenne nella forma simile a quella di coloro che, come sappiamo, sono risuscitati e che furono restituiti a questa vita, ma non in maniera che non morissero più.
Marco Varrone espone una credenza più ammirevole nei libri che intitolò: La razza del popolo romano.
Ho ritenuto di citare testualmente le sue parole.
Alcuni astrologi, dice, hanno scritto che per il ritorno in vita degli uomini v'è una ricorrenza, che i Greci definiscono παλιγγενεσία; hanno scritto che con essa si effettua che ogni quattrocentoquarant'anni il medesimo corpo e la medesima anima, che una volta furono uniti in un uomo, tornano nella medesima forma ad unirsi.46
Varrone o quegli astrologi, non saprei quali, perché non ha citato i nomi ma si è limitato a riportarne l'opinione, hanno sostenuto certamente un errore.
Infatti quando una volta soltanto le anime saranno tornate al corpo che ebbero, non lo lasceranno più in seguito.
Tuttavia abbatte e scredita molte dimostrazioni sull'impossibilità, riguardo alla quale i platonici cianciano contro di noi.
A coloro che la pensano o la pensarono così, non è sembrato impossibile che tornino ad essere ciò che erano i cadaveri dispersi nell'aria, nella polvere, nella cenere, nell'acqua, nel corpo delle bestie e perfino di uomini che se ne sono nutriti.
Perciò Platone e Porfirio, o piuttosto coloro che li prediligono e ancora vivono, se sono d'accordo con noi che le anime sante torneranno al corpo, come dice Platone, ma non torneranno ad alcun male, come dice Porfirio, in modo che si abbia la conclusione sostenuta dalla fede cristiana, cioè che le anime riavranno il corpo in cui vivano in eterno, senza alcun male, nella felicità, aggiungano anche da Varrone che tornano al medesimo corpo in cui erano prima.
Così anche nel loro sistema il problema della risurrezione della carne sarà integralmente risolto.
Ora esaminiamo, nei limiti in cui il Signore si degna di aiutarci, cosa faranno i santi nel corpo immortale e spirituale, quando la loro carne non vivrà ancora carnalmente, ma spiritualmente.
Non so, se volessi dire il vero, quale sarà il loro stato, o meglio riposo e serenità.
Non ne ho mai avuto esperienza con i sensi del corpo.
Se dicessi di conoscerlo con il pensiero, cioè con l'intelligenza, quanto è alta e che cos'è la nostra intelligenza nei confronti di quella sublimità?
Ivi è la pace di Dio la quale, come dice l'Apostolo, sorpassa ogni intelligenza; ( Fil 4,7 ) soltanto la nostra o anche quella degli angeli santi? Certamente non di Dio.
Se dunque i santi vivranno nella pace di Dio, certamente vivranno in quella pace che sorpassa ogni intelligenza.
Non v'è dubbio che sorpassa la nostra; se poi sorpassa anche quella degli angeli, sicché appaia che chi ha detto ogni intelligenza non ha escluso neanche loro, dobbiamo interpretare la frase con questo criterio che né noi né gli angeli possiamo conoscere la pace di Dio, con la quale Dio stesso è nella pace, come la conosce Dio.
Sorpassa dunque ogni intelligenza fuorché indubbiamente la propria.
Ma poiché anche noi, divenuti partecipi nel nostro limite della sua pace, conosciamo la pace nel suo grado più alto in noi, fra di noi e con lui, in quello che per noi è il grado più alto, con questo limite e secondo il proprio limite la conoscono gli angeli santi; gli uomini per ora molto al di sotto, sebbene si distinguano per il progredire del pensiero.
Si deve tener conto di quel che diceva un grande uomo: In parte conosciamo e in parte apprendiamo per ispirazione, fino a che giunga ciò che è perfetto; ( 1 Cor 13,9-10 ) e ancora: Ora vediamo come attraverso uno specchio in un simbolo oscuro, allora faccia a faccia. ( 1 Cor 13,12 )
Così già vedono gli angeli santi, che sono stati considerati anche i nostri angeli perché noi, essendo liberati dal potere delle tenebre e, ricevuta la caparra dello Spirito, trasferiti nel regno di Cristo, ( Col 1,13 ) abbiamo cominciato ad appartenere a quegli angeli, assieme ai quali avremo in comune la santa, amabilissima città di Dio, sulla quale ho già scritto tanti libri.
Così dunque sono i nostri angeli perché sono gli angeli di Dio, come il Cristo di Dio è il nostro Cristo.
Sono di Dio perché non lo hanno abbandonato, sono nostri perché hanno cominciato a considerarci loro concittadini.
Ha detto Gesù Signore: Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli.
Vi dico infatti che i loro angeli in cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è in cielo. ( Mt 18,10 )
Come vedono loro, anche noi vedremo, ma ancora non vediamo in quel modo.
Per questo l'Apostolo ha espresso il pensiero che ho citato poco fa: Vediamo ora come attraverso uno specchio in un simbolo oscuro, allora faccia a faccia.
Come premio della fede è riservata a noi questa visione, di cui parlando l'apostolo Giovanni dice: Quando si sarà manifestato, saremo simili a lui perché lo vedremo come egli è. ( 1 Gv 3,2 )
La faccia del Signore si deve interpretare come la manifestazione, non come quella determinata parte, che noi abbiamo nel corpo e designiamo con questo nome.
Perciò quando mi si chiede cosa faranno i beati nel corpo spirituale, non dico quel che già conosco, ma dico quel che credo secondo l'espressione che leggo in un Salmo: Ho creduto e per questo ho parlato. ( Sal 116,10 )
Perciò dico: È nel corpo stesso che vedranno Dio, ma non è un piccolo problema se lo vedranno mediante esso, come ora mediante il corpo vediamo il sole, la luna, le stelle, il mare, la terra e gli oggetti che sono in essa.
È astruso dire che i beati nell'eternità avranno un corpo tale che non possano chiudere e aprire gli occhi quando vorranno; è più astruso dire che chi di là chiuderà gli occhi non vedrà Dio.
Il profeta Eliseo, fisicamente assente, vide il suo inserviente Giezi mentre riceveva un regalo datogli da Naaman il Siro che il suddetto profeta aveva liberato dalla deformità della lebbra.
Era un gesto che il disonesto inserviente si illudeva di aver fatto di nascosto perché il suo padrone non lo vedeva. ( 2 Re 5,8-27 )
Tanto meglio i beati nel corpo spirituale vedranno ogni cosa, non solamente se chiudono gli occhi ma anche da dove sono assenti.
Nell'eternità infatti sarà perfetto quello stato, di cui parlando l'Apostolo ha detto: In parte conosciamo, in parte attendiamo nella fede, ma quando giungerà ciò che è perfetto, ciò che è in parte sarà eliminato. ( 1 Cor 13,9-10 )
E per presentare con una analogia in una forma possibile, quanto sia differente questa vita da quella futura, non di uomini di qualsiasi fatta, ma anche di quelli che al presente sono dotati di santità, aggiunge: Essendo bambino, ragionavo da bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino; ma divenuto uomo ho smesso i tratti che erano propri del bambino.
Ora vediamo come attraverso uno specchio in un simbolo oscuro, allora faccia a faccia.
Ora conosco in parte, allora conoscerò come sono stato conosciuto. ( 1 Cor 13,11-12 )
Dunque in questa vita, nella quale l'attesa nella fede di uomini meravigliosi è paragonabile all'altra vita, come quella del bambino a quella dell'adulto, Eliseo ha visto, in un luogo in cui non era presente, il suo inserviente che accettava un regalo.
E allora forse che quando giungerà quel che è perfetto e il corpo non più soggetto al divenire non appesantirà l'anima ma, essendo immune dal divenire, non la ostacolerà affatto, i beati, per gli oggetti che si devono vedere, avranno bisogno degli occhi del corpo, dei quali non ebbe bisogno Eliseo per vedere il suo inserviente?
Secondo i Settanta queste sono le parole del profeta a Giezi: Forse che il mio cuore non è venuto con te, quando l'uomo del cocchio ti è venuto incontro e hai ricevuto il denaro? ( 2 Re 5,26 )
Invece ha così tradotto dall'ebraico il sacerdote Girolamo: Forse che il mio cuore non era in presenza, quando l'uomo si è mosso dal suo cocchio incontro a te?
Dunque il profeta ha detto di aver visto il fatto con il suo cuore attivato, senza alcun dubbio, miracolosamente da Dio.
Molto più largamente tutti useranno abbondantemente di questo dono nell'eternità, quando Dio sarà tutto in tutti. ( 1 Cor 15,28 )
Però anche gli occhi del corpo avranno la loro funzione, saranno al proprio posto e ne userà la coscienza mediante il corpo spirituale.
Infatti il suddetto profeta, sebbene non ebbe bisogno degli occhi per vedere l'assente, non li usò per vedere gli oggetti presenti che, anche se li chiudeva, poteva tuttavia scorgere con la coscienza come ha visto gli oggetti assenti dove egli non era assieme a loro.
Non pensiamo dunque che i beati nella vita eterna, se chiudono gli occhi, non vedranno Dio perché lo contempleranno perennemente con lo spirito.
Ma v'è anche il problema se vedranno anche mediante gli occhi del corpo quando li terranno aperti.
Se infatti anche gli occhi spirituali avranno nel corpo spirituale il medesimo potere che hanno questi nella forma in cui ora li abbiamo, senza dubbio con essi non si potrà vedere Dio.
Saranno dunque di ben altro potere se mediante essi si vedrà l'incorporea natura di Dio, la quale non è limitata dallo spazio, ma è tutta in ogni spazio.
Noi diciamo che Dio è in cielo e in terra, l'ha detto egli stesso attraverso il profeta: Io riempio il cielo e la terra. ( Ger 23,24 )
Ma non per questo potremo dire che ha una parte in cielo e un'altra in terra; ma egli è tutto nel cielo e tutto in terra e non in tempi diversi, ma l'insieme nel medesimo tempo, ciò che non può alcuna natura corporea.
Quindi il vigore degli occhi dei beati sarà più funzionale, non nel senso che veggono più acutamente di come si dice che veggono alcuni serpenti e aquile, sebbene questi animali con qualsivoglia acutezza di vista non possono vedere altro che i corpi, ma nel senso che veggono anche gli esseri incorporei.
E forse questo grande vigore della vista fu momentaneamente concesso, ancora nel corpo soggetto a morire, agli occhi del santo uomo Giobbe, quando disse al Signore: Io prima avevo udito parlare di te, ma ora il mio occhio ti vede, perciò mi sono sdegnato con me stesso, mi sento distrutto e ho stimato me stesso polvere e cenere.
Tuttavia niente impedisce che nel passo s'intenda l'occhio del cuore.
Di simili occhi l'Apostolo esorta ad avere illuminati gli occhi del vostro cuore. ( Ef 1,18 )
Che con essi si veda Dio, quando si vedrà, non ne dubita il cristiano che accetta con fede quel che ha detto il divino Maestro: Beati i misericordiosi, poiché essi vedranno Dio. ( Mt 5,8 )
Nella successiva ipotesi esaminiamo se Dio si veda anche con gli occhi del corpo.
Il passo della Scrittura: E ogni carne vedrà la salvezza di Dio, ( Lc 3,6 ) senza alcun imbarazzo si può interpretare così: "Ogni uomo vedrà il Cristo di Dio".
Egli infatti è stato visto nel corpo e sarà veduto nel corpo quando giudicherà i vivi e i morti.
Vi sono molte altre testimonianze della Scrittura che egli è la salvezza di Dio.
Più esplicitamente esprimono questo concetto le parole del venerando vecchio Simeone il quale, avendo ricevuto fra le braccia Cristo bambino, disse: Ora tu permetti, Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza. ( Lc 2,29-30 )
Il pensiero che ha espresso Giobbe, di cui sopra, come si rinviene nei codici che provengono dal testo ebraico e cioè: E nella mia carne vedrò Dio, ( Gb 19,26 ) ha senza dubbio preannunziato la risurrezione della carne, però non ha detto: "Mediante la mia carne".
Se l'avesse detto, si potrebbe ravvisarvi Cristo Dio che vedrà nella carne mediante la carne.
Ora: Nella mia carne vedrò Dio potrebbe essere interpretato come se avesse detto: "Sarò nella mia carne quando vedrò Dio".
E la frase dell'Apostolo: Faccia a faccia ( 1 Cor 13,12 ) non c'induce a credere che vedremo Dio attraverso il viso di questo corpo, in cui vi sono gli occhi del corpo, perché lo vedremo senza interruzione con la mente.
Se il viso non fosse anche dell'uomo interiore, l'Apostolo non direbbe: E noi, a viso scoperto riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati nella medesima immagine, di gloria in gloria, come dall'azione dello Spirito del Signore. ( 2 Cor 3,18 )
Non interpretiamo diversamente anche quel che praticamente si dice in un Salmo: Accostatevi a lui e sarete illuminati e i vostri volti non arrossiranno. ( Sal 34,6 )
Ci si accosta a Dio con la fede, la quale è certamente del cuore, non del corpo.
Ma noi ignoriamo i validi modi che il corpo spirituale ha di accostarsi al Signore, poiché parliamo di una realtà fuori dell'esperienza e in merito non ci sovviene e non ci aiuta un passo autorevole della sacra Scrittura che non possa essere interpretato in altro senso.
È necessario quindi che avvenga in noi ciò che si legge nel libro della Sapienza: I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni. ( Sap 9,14 )
C'è una teoria dei filosofi con la quale essi sostengono che gli oggetti intelligibili sono percepiti con l'intuizione della mente e quelli sensibili, cioè del corpo, con il senso, sicché la mente non può conoscere gli oggetti intelligibili tramite il corpo né i dati sensibili da se stessa.
Se questa teoria fosse per noi assolutamente certa, sarebbe certo anche che in nessun modo si può vedere Dio mediante gli occhi del corpo, sia pure spirituale.
Ma tanto un retto criterio di verità come l'autorità della rivelazione respingono una simile teoria.
Chi sarebbe così alieno dal vero da dire che Dio non conosce gli oggetti corporei?
Avrebbe dunque il corpo per poter apprendere mediante gli occhi?
Poi quel che abbiamo detto poco fa del profeta Eliseo47 forse che non indica abbastanza che gli oggetti corporei si possono percepire anche con la mente senza l'interferenza del corpo?
Quando l'inserviente accettò la mancia, si ebbe un gesto mediante il corpo, però il profeta lo avvertì non mediante il corpo, ma con la mente.
Dunque se risulta che i corpi sono percepiti con lo spirito, che difficoltà v'è se sarà così forte il potere del corpo spirituale che col corpo sia veduto anche l'essere spirituale? Dio infatti è spirito.
Inoltre ciascuno con la propria coscienza, e non mediante gli occhi del corpo, avverte la propria vita, con cui ora vive nel corpo e con cui vegeta e fa vivere gli organi avvinti alla terra, ma mediante il corpo osserva la vita degli altri, sebbene non sia oggetto della vista.
Infatti da che cosa distinguiamo i corpi viventi dai non viventi, se non vedessimo insieme corpi e vita che possiamo percepire soltanto mediante il corpo?
Con gli occhi del corpo non vediamo infatti una vita che non sia nel corpo.
Perciò può avvenire ed è assai credibile che noi nell'eternità vedremo i corpi del mondo di un nuovo cielo e di una nuova terra in modo da vedere con luminosa chiarezza, per ogni dove volgiamo gli occhi, tramite il corpo che avremo e attraverso quelli che osserveremo, Dio che è presente ovunque e che dirige al fine tutte le cose anche corporee.
E questo avverrà non come nel tempo, in cui le invisibili perfezioni di Dio sono contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come attraverso uno specchio, ( Rm 1,20; 1 Cor 13,12 ) in un oscuro simbolo e solo in parte, perché qui può più la fede con cui crediamo che la rappresentazione degli oggetti del mondo corporeo che formuliamo mediante gli occhi del corpo.
Noi nell'atto che vediamo gli uomini, che vivono ed eseguono movimenti vitali e in mezzo ai quali viviamo, non per fede apprendiamo che vivono, ma li vediamo, sebbene non possiamo senza i corpi osservare la loro vita, ma la rileviamo al di là di ogni incertezza tramite i corpi.
Allo stesso modo, da qualsiasi parte nell'eternità faremo muovere la luminosità spirituale dei nostri corpi, contempleremo, anche mediante i corpi, Dio che è incorporeo e dirige il tutto al fine.
Dunque o Dio si vedrà mediante quegli occhi nel senso che essi abbiano in così alta sublimità una funzione simile al pensiero e con cui si possa conoscere anche la natura incorporea, ed è difficile, o meglio impossibile, chiarire tale funzione con esempi o con testi della sacra Scrittura.
Ovvero, ed è un'idea più facile a comprendersi, Dio sarà a noi noto con tanta evidenza che sarà veduto con la facoltà spirituale da ognuno di noi, da uno nell'altro, in se stesso, nel nuovo cielo e nella nuova terra e in ogni creatura che esisterà nell'eternità, sarà veduto anche mediante il corpo in ogni corpo, in qualunque direzione saranno volti gli occhi del corpo spirituale con un'acutezza che raggiunge l'oggetto.
Si sveleranno anche i nostri pensieri dall'uno all'altro.
Allora si adempirà il pensiero dell'Apostolo che, dopo aver detto: Non giudicate nulla prima del tempo, soggiunge: Finché venga il Signore e illuminerà i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora vi sarà lode per ognuno da Dio. ( 1 Cor 4,5 )
Sarà grande la serenità dove non vi sarà alcun male, non mancherà alcun bene, si attenderà alle lodi di Dio che sarà tutto in tutti. ( 1 Cor 15,28 )
Non so che altro si faccia in uno stato, in cui non si desisterà per inerzia, non ci si affannerà dal bisogno.
Sono avvertito anche da un brano poetico della sacra Scrittura, in cui leggo o ascolto: Beati quelli che abitano nella tua casa, ti loderanno per sempre. ( Sal 84,5 )
Tutte le parti palesi o riposte del corpo immune dal divenire, che ora vediamo adibite alle varie soddisfazioni della soggezione al bisogno, poiché allora non vi sarà tale soggezione, ma piena, certa, sicura, perenne serenità, saranno attente alle lodi di Dio.
Tutti i ritmi dell'armoniosa proporzione del corpo, dei quali ho già parlato,48 che ora sono latenti, allora non lo saranno.
Essi, disposti dentro e fuori in tutte le parti del corpo, assieme alle altre cose che nell'eternità appariranno grandi e meravigliose, infiammeranno col lirismo della bellezza intelligibile fondata sul numero le intelligenze capaci del numero alla lode di un sì grande Artefice.
Non oso stabilire quali saranno i movimenti dei corpi perché non sono capace di immaginarlo, tuttavia movimento e pausa, come pure la figurazione, qualunque sia, sarà conveniente perché lì quel che non sarà conveniente non vi sarà affatto.
Certamente dove vorrà l'anima spirituale, vi sarà immediatamente il corpo; e l'anima spirituale non vorrà qualcosa che potrebbe non convenire né a lei né al corpo.
Vi sarà vera gloria perché nell'eternità nessuno sarà lodato per un errore di chi loda o per adulazione.
Vi sarà vero onore che non sarà negato a chi ne è degno, non sarà concesso a chi ne è indegno, ma un indegno non lo bramerà perché lì non è ammesso un uomo indegno.
Vi sarà una vera pace perché non vi sarà contrasto né da sé né dall'altro.
Premio della virtù sarà colui che ha dato la virtù e alla virtù ha dato se stesso, del quale nulla vi può essere di più buono e di più grande.
Difatti quel che ha promesso mediante il profeta: Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo ( Lv 26,12; Ez 36,28; Ez 37,27 ) non significa altro che: "Io sarò colui da cui saranno appagati, io sarò tutte le cose che dagli uomini sono desiderate onestamente: vita, benessere, vitto, ricchezza, gloria, onore, pace e ogni bene".
In questo senso si interpretano rettamente anche le parole dell'Apostolo: Affinché Dio sia tutto in tutti. ( 1 Cor 15,28 )
Egli sarà il compimento di tutti i nostri desideri, perché sarà veduto senza fine, amato senza ripulsa, lodato senza stanchezza.
Questo dono, questo amore, questa azione saranno comuni a tutti, come la stessa vita eterna.
Del resto chi è in grado di pensare e tanto meno di esprimere quali saranno in proporzione al merito della ricompensa i diversi gradi di onore e di gloria?
Però non si deve dubitare che vi saranno.
E la felice città vedrà in sé questo gran bene, che l'essere inferiore non invidierà quello superiore, come ora gli altri angeli non invidiano gli arcangeli.
E ciascuno non vorrà essere quel che non ha ricevuto, quantunque sia legato a chi lo ha ricevuto da un pacatissimo vincolo di concordia, come anche nel corpo l'occhio non vuol essere quel che è il dito, poiché l'intero organismo pacato include l'uno e l'altro organo. ( 1 Cor 12,14-26 )
Così l'uno avrà un dono più piccolo dell'altro, ma in modo di avere come dono di non volere di più.
Non perché i peccati non potranno attrarli, i beati non avranno il libero arbitrio, anzi sarà tanto più libero dall'attrazione del peccato perché reso libero fino all'inflessibile attrazione del non peccare.
Il primo libero arbitrio, che fu dato all'uomo quando all'inizio fu creato innocente, poteva non peccare ma anche peccare; l'ultimo sarà tanto più libero perché non potrà peccare, ma anche questo per dono di Dio e non per una sua personale prerogativa.
Un conto è essere Dio e un altro essere partecipi di Dio.
Dio per natura non può peccare; chi invece partecipa di Dio ha ricevuto da lui di non poter peccare.
Si dovevano conservare gli ordinamenti del dono divino in modo che all'inizio si desse il primo libero arbitrio, con cui l'uomo potesse non peccare e il finale con cui l'uomo non potesse peccare e che il primo fosse attinente ad acquistare merito, l'altro a ricevere il premio.
Ma poiché l'umana natura ha peccato quando poteva peccare, viene resa libera con una grazia più generosa in modo da essere condotta a quella libertà per cui non è libera di peccare.
Siccome la prima immortalità, che Adamo ha perduto col peccato, consisteva nel poter non morire, l'ultima sarà non poter morire, così il primo libero arbitrio nel poter non peccare, l'ultimo nel non poter peccare.
Così infatti sarà inamissibile la volontà di rispetto a Dio e al prossimo, come è inamissibile quella della felicità.
Col peccato appunto non abbiamo conservato né rispetto né felicità, ma neanche con la perdita della felicità abbiamo perduto la volontà della felicità.
Ma forse che si deve negare che Dio ha il libero arbitrio perché non può peccare?
Vi sarà dunque nella città dell'alto una sola libera volontà in tutti e inseparabile in ognuno, resa libera da ogni male e ripiena di ogni bene, che gode senza fine della dolcezza delle gioie eterne, immemore delle colpe, immemore delle pene, ma non della sua liberazione affinché non sia ingrata al suo liberatore.
Per quanto attiene alla conoscenza intellettuale, è memore anche dei suoi mali trascorsi e per quanto attiene alla conoscenza sensibile, completamente immemore.
Infatti anche un medico molto bravo conosce quasi tutte le malattie del fisico, come sono esposte nella teoria; ma come si sperimentano nel fisico, ignora le molte che non ha avuto.
Sono due dunque le conoscenze dei mali, una per cui non sono nascosti alla facoltà della mente, l'altra per cui essi sono connessi ai sensi di chi apprende per esperienza; difatti in un modo si conoscono tutti i vizi mediante l'insegnamento della saggezza e in un altro attraverso la pessima condotta dello stolto.
Così sono due i modi di dimenticare i mali.
In un modo infatti dimentica la persona istruita e colta, in un altro quella che ha esperimentato e sopportato; quella se trascura la competenza, questa se si rende immune dall'infelicità.
In base a questa dimenticanza, che ho posto al secondo posto, i beati non saranno memori dei mali trascorsi; infatti saranno immuni da tutti al punto che i mali saranno completamente eliminati dalla loro sensibilità.
Tuttavia col potere della conoscenza, che sarà grande in essi, non solo non sarà nascosta a loro la propria infelicità passata, ma neanche quella eterna dei dannati.
Altrimenti se ignoreranno d'essere stati infelici, in che senso, come dice il Salmo: Canteranno in eterno le misericordie del Signore? ( Sal 89,2 )
E per la città dell'alto nulla certamente sarà più gioioso di questo cantico a lode di Cristo, dal cui sangue siamo stati liberati.
Lì si avvererà: Riposate e sappiate che io sono Dio. ( Sal 46,11 )
E sarà veramente il sabato infinito perché non ha tramonto.
Lo fece notare il Signore all'inizio delle opere della creazione nel passo: E Dio si riposò nel giorno settimo da tutte le sue opere che ha compiuto e Dio benedisse il settimo giorno e lo rese sacro, perché in esso si riposò da tutte le sue opere che aveva iniziato a compiere. ( Gen 2,2-3 )
Anche noi saremo il settimo giorno quando saremo da lui pienamente restituiti al bene e alla santità.
Lì in riposo sapremo che egli è Dio.
Noi invece pretendemmo di esserlo per noi, quando ci staccammo da lui perché demmo ascolto al seduttore: Sarete come dèi, ( Gen 3,5 ) e ci allontanammo da lui, mentre con la sua azione saremmo dèi partecipandone, non abbandonandolo.
Che cosa quindi abbiamo fatto senza di lui se non che ci siamo disfatti nella sua ira?
Da lui restituiti all'essere e con una grazia maggiore stabiliti nella pienezza, saremmo nel riposo in eterno perché vedremo che egli è Dio, di cui saremo pieni quando egli sarà tutto in tutti. ( 1 Cor 15,28 )
Infatti quando si comprende che anche le nostre stesse buone opere sono piuttosto di lui e non nostre, proprio allora ci sono assegnate a conseguire questo sabato.
Se le attribuiremo a noi, saranno da schiavi, mentre del sabato si dice: Non farete in esso nessun lavoro da schiavi. ( Dt 4,14 )
Perciò anche tramite il profeta Ezechiele si dice: Diedi loro anche i miei sabati come un segno tra me e loro perché sappiano che io sono il Signore che li considero cose sante. ( Ez 20,12 )
Lo sapremo con pienezza quando saremo nel riposo con pienezza e con pienezza vedremo che egli è Dio.
Se anche il numero delle epoche, confrontato ai giorni, si calcola secondo i periodi di tempo che sembrano espressi dalla sacra Scrittura, questo sabatismo acquisterebbe maggiore evidenza dal fatto che è al settimo posto.
La prima epoca, in relazione al primo giorno, sarebbe da Adamo fino al diluvio, la seconda dal diluvio fino ad Abramo, non per parità di tempo ma per numero di generazioni, perché si riscontra che ne hanno dieci ciascuna.
Da quel tempo, come delimita il Vangelo di Matteo, si susseguono fino alla venuta di Cristo tre epoche, che si svolgono con quattordici generazioni ciascuna: la prima da Abramo fino a Davide, la seconda da lui fino alla deportazione in Babilonia, la terza fino alla nascita di Cristo.49
Sono dunque in tutto cinque epoche.
La sesta è in atto, da non misurarsi con il numero delle generazioni per quel che è stato detto: Non spetta a voi conoscere i tempi che il Padre ha riservato al suo potere. ( At 1,7 )
Dopo questa epoca, quasi fosse al settimo giorno, Dio riposerà quando farà riposare in se stesso, come Dio, il settimo giorno, che saremo noi.
Sarebbe lungo a questo punto discutere accuratamente di ciascuna di queste epoche; tuttavia la settima sarà il nostro sabato, la cui fine non sarà un tramonto, ma il giorno del Signore, quasi ottavo dell'eternità, che è stato reso sacro dalla risurrezione di Cristo perché è allegoria profetica dell'eterno riposo non solo dello spirito ma anche del corpo.
Lì riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo.
Ecco quel che si avrà senza fine alla fine.
Infatti quale altro sarà il nostro fine, che giungere al regno che non avrà fine?
Mi sembra di avere, con l'aiuto del Signore, adempiuto l'impegno di questa opera così importante.
Coloro per i quali è poco e coloro per i quali è troppo mi scusino; coloro per i quali è sufficiente rendano grazie rallegrandosi non con me, ma con Dio assieme a me. Amen.
Indice |
31 | Cicerone, De fin. 5, 21; Acad. post. 1, 2, 7; Tim. 14, 52 |
32 | Macrobio, Saturn. 7, 15, 1 |
33 | Vedi sopra 18,53ss; Sopra 19,23 |
34 | Porfirio, De abst. 2, 40, 46, 50; Sententiae ad intellegibilia ducentes 32 |
35 | Vedi sopra 13,18 |
36 | Porfirio, Sententiae ad intellegibilia ducentes 7; Vedi sopra 12 |
37 | Vedi sopra 13,16-17 |
38 | Platone, Timeo 41c |
39 | Platone, Timeo 41a.Vedi sopra 13, 16; Serm. 241, 8: NBA, XXXII/2 |
40 | Virgilio, Aen. 6, 751 |
41 | Platone, Politeia 614a-617d; Porfirio, Ep. ad Marc. 33; Sententiae ad intellegibilia ducentes 30 |
42 | Eusebio, Praep. evang. 11, 33 |
43 | Cicerone, De rep. 6, fr. 4; Macrobio, In somnium Scipionis 1, 1-2 |
44 | Platone, Politeia 614b |
45 | Plinio, Nat. hist. 7, 53 |
46 | Varrone, De gente pop. rom., fr. 4 |
47 | 2 Re 5,26; Vedi sopra 29.2 |
48 | Vedi sopra 12,24,4 |
49 | Mt 1,17; Agostino, De Gen. c. Man. 1, 23 |