Contro le due lettere dei Pelagiani |
È già tempo ora che esaminiamo l'altra lettera, non di Giuliano soltanto, ma comune a lui con molti altri vescovi pelagiani, spedita da loro a Tessalonica, ed è tempo che rispondiamo ad essa, come possiamo, con l'aiuto del Signore.
Ma questo nostro lavoro non deve prolungarsi più di quanto richiede la stessa necessità della causa.
Che bisogno c'è infatti di confutare anche quelle parti che non contengono gli insidiosi veleni del loro dogma, ma hanno la sola apparenza di elemosinare il consenso dei vescovi orientali in appoggio a loro o in difesa della fede cattolica contro "la profanità dei manichei", com'essi la chiamano?
Unico loro intento è quello di nascondersi come nemici della grazia a lode della natura dietro il paravento dell'orribile eresia, di cui si atteggiano ad avversari.
Ma chi mai ha mosso questione contro di loro su questo argomento?
O a chi dei cattolici costoro dispiacciono appunto perché condannano quelli di cui l'Apostolo predisse ( 1 Tm 4,1-4 ) che si sarebbero allontanati dalla fede, bollati a fuoco nelle loro coscienze, proibizionisti del matrimonio, astensionisti dai cibi che credono immondi e negatori che tutto sia stato creato da Dio?
Chi li ha mai forzati a negare che sia buona ogni creatura di Dio e che non esista nessuna sostanza che non sia stata fatta dal sommo Dio, all'infuori dello stesso Dio, il quale non è stato fatto da nessuno?
Non sono queste le tesi che si riprendono e si condannano in costoro, tesi che risultano cattoliche.
L'empietà dei manichei, fin troppo stolta e dannosa, non è detestata solo dalla fede cattolica, ma anche da tutti gli eretici che non sono manichei.
Perciò anche cotesti pelagiani fanno bene ad anatematizzare i manichei e ad opporsi ai loro errori.
Ma fanno due mali, per cui anch'essi sono da anatematizzare: l'uno d'incriminare i cattolici con l'imputazione di manichei, il secondo d'introdurre anch'essi l'eresia di un nuovo errore.
Né infatti la mancanza in loro del morbo manicheo basta a renderli possessori della sanità della fede.
Come per i corpi, così anche per le menti non esiste una malattia soltanto.
Come dunque un medico del corpo non avrebbe dichiarato subito fuori pericolo, perché non idropico, chi gli fosse risultato affetto da un'altra malattia mortale, così alla verità per congratularsi con costoro non basta che non siano manichei, se hanno addosso la malattia di un altro errore.
Pertanto una cosa è ciò che anatematizziamo con loro, un'altra è ciò che anatematizziamo in loro.
Con loro infatti detestiamo ciò che dispiace giustamente anche a loro, in loro tuttavia detestiamo ciò per cui essi dispiacciono giustamente a noi.
I manichei negano che il Dio buono sia creatore di tutte le nature; i pelagiani negano che Dio sia negli uomini purificatore, salvatore, liberatore di tutte le età.
La Cattolica redarguisce gli uni e gli altri difendendo la creatura di Dio, sia contro i manichei perché nessuna creatura sia sottratta alla creazione di lui, sia contro i pelagiani, perché la natura umana che si è smarrita sia ricercata in tutte le sue età.
I manichei vituperano la concupiscenza della carne, non come vizio accidentale, ma come natura cattiva esistente dall'eternità; i pelagiani non considerano vizio la concupiscenza della carne, ma per giunta la lodano come un bene naturale.
La Cattolica redarguisce gli uni e gli altri dicendo ai manichei: Non è natura, ma vizio, e dicendo ai pelagiani: Non viene dal Padre, ma dal mondo, perché gli uni e gli altri permettano la cura di questa sorta di malattia, smettendo i manichei di credere inguaribile la natura e i pelagiani di celebrarne le lodi.
I manichei negano che il male abbia avuto inizio per l'uomo buono dal libero arbitrio, i pelagiani dicono che l'uomo anche cattivo possiede a sufficienza il libero arbitrio per osservare un buon precetto.
La Cattolica redarguisce gli uni e gli altri dicendo ai manichei: Dio ha fatto l'uomo retto, ( Qo 7,29 ) e dicendo ai pelagiani: Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. ( Gv 8,36 )
I manichei dicono che l'anima, particella di Dio, ha il peccato per commistione di una natura cattiva; i pelagiani dicono che l'anima giusta, certamente non particella di Dio, ma sua creatura, è senza peccato anche in questa vita corruttibile.
La Cattolica redarguisce gli uni e gli altri dicendo ai manichei: O voi fate buono l'albero e sarà buono anche il suo frutto, o voi fate cattivo l'albero e sarà cattivo anche il suo frutto: ( Mt 12,33 ) e questo non si direbbe all'uomo, incapace di fare la natura, se non perché il peccato non è una natura, ma un vizio, e dicendo ai pelagiani: Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. ( 1 Gv 1,8 )
Per questi morbi tra loro contrari si combattono manichei e pelagiani con dissimile volontà e con simile vanità, separati da diversità d'opinione, ma vicini per perversità d'intenzione.
Tant'è vero che impugnano insieme la grazia del Cristo, vanificano insieme il suo battesimo, avviliscono insieme la sua carne, ma anche tutto questo con modi e motivi diversi.
I manichei infatti propongono che l'aiuto divino sia propiziato dai meriti della natura buona, i pelagiani invece dai meriti della volontà buona.
I manichei dicono: "Dio lo deve alle fatiche delle sue membra"; i pelagiani dicono: "Dio lo deve alle virtù dei suoi servi".
Alle membra dunque e ai servi il salario non viene calcolato come dono, ma come debito. ( Rm 4,4 )
I manichei dicono che è superfluo il lavacro della rigenerazione, cioè l'acqua stessa, e con cuore sacrilego sostengono che non giova a nulla; i pelagiani invece asseriscono che quanto nel battesimo si dice per rimettere i peccati non giova affatto ai bambini che non hanno nessun peccato.
Pertanto nel battesimo dei bambini, per ciò che concerne la remissione dei peccati, i manichei eliminano l'elemento visibile, i pelagiani invece anche il sacramento invisibile.
I manichei avviliscono la carne del Cristo bestemmiando contro il parto della Vergine, i pelagiani invece uguagliando la carne dei redenti alla carne del Redentore.
Per questa ragione appunto il Cristo è nato, non certo nella carne del peccato, ma in una carne simile a quella del peccato: ( Rm 8,3 ) perché la carne di tutti gli altri uomini nasce come carne del peccato.
I manichei detestando dunque ogni carne senza eccezione tolgono alla carne del Cristo l'evidenza esterna della sua verità, i pelagiani invece affermando che nessuna carne nasce come carne del peccato tolgono alla carne del Cristo la sua propria dignità.
La smettano dunque i pelagiani di rinfacciare ai cattolici d'essere quello che non sono, ma essi stessi piuttosto si affrettino ad emendare quello che sono, né vogliano passare per amabili con l'avversare l'odioso errore dei manichei, ma riconoscano d'essere meritamente odiosi per non rivoltarsi contro il proprio errore.
Possono infatti i due errori essere contrari tra loro, ma sono da detestare ambedue, perché sono ambedue contrari alla verità.
Infatti, se la ragione di dover amare i pelagiani fosse che costoro odiano i manichei, anche i manichei sarebbero da amare perché odiano i pelagiani.
Ma non sia mai che la Cattolica, la quale è madre, scelga di amare gli uni perché odiano gli altri, poiché per volontà del Signore e con il suo aiuto deve evitare gli uni e gli altri e desiderare di guarire gli uni e gli altri.
Costoro attaccano per giunta i chierici romani scrivendo: "Per paura di un editto non si vergognarono di commettere un crimine di tradimento, così da dichiarare successivamente che la natura umana è cattiva, contro la propria precedente sentenza con la quale avevano sostenuto in giudizio il dogma cattolico".
La verità è piuttosto un'altra: i pelagiani si erano illusi con la falsa speranza di poter far accettare alla coscienza cattolica di alcuni romani il nuovo ed esecrabile dogma pelagiano o celestiano in un momento in cui, sembrando che quelle teste, benché pervertite da un nefando errore e non tuttavia disprezzabili, si dovessero correggere amorevolmente piuttosto che condannare sbrigativamente, furono trattate un po' più blandamente di quanto domandava la disciplina della Chiesa un po' più severa.
Nel correre infatti e nel ricorrere di tanti e così importanti scritti ecclesiastici tra la Sede Apostolica e i vescovi africani, nella celebrazione anche di un processo su questa causa presso quella Sede dov'era presente e replicava Celestio, quale lettera mai si trova da parte del Papa Zosimo di veneranda memoria, quale mai sentenza interlocutoria, dove abbia comandato di dover credere che l'uomo nasce senza nessun vizio di peccato originale?
Non l'ha mai detto assolutamente in nessuna occasione, non l'ha mai scritto assolutamente in nessun documento.
Ma, avendolo posto Celestio nel suo libello, tra i punti soltanto sui quali confessava di dubitare ancora e di voler essere istruito, in un uomo d'ingegno molto acuto, che senza dubbio avrebbe giovato a tantissime persone se si fosse corretto, fu approvata la volontà dell'emendazione, non la falsità del dogma.
Ed è questa la ragione per cui il suo libello fu detto cattolico: è proprio di mente cattolica anche il non definire con assoluta certezza, ma respingere, appena se ne scopre e se ne dimostra l'errore, quelle opinioni che accade eventualmente d'avere diverse da come esige la verità.
Non infatti ad eretici, ma a cattolici parlava l'Apostolo dove ha detto: Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illumini anche su questo. ( Fil 3,15 )
Ciò si credeva che fosse avvenuto in Celestio, quando rispose d'essere d'accordo con la lettera del papa Innocenzo di beata memoria, con la quale ogni dubbio sulla questione era stato spento.
E ci si aspettava che questa sua risposta si sarebbe completata e resa più manifesta con il prossimo arrivo della lettera dall'Africa, la provincia dove la furberia di Celestio si era fatta conoscere con un po' più di evidenza.
Arrivò la lettera a Roma. Vi si diceva che era insufficiente per le persone più tarde e più preoccupate che Celestio confessasse genericamente d'essere d'accordo con la lettera del vescovo Innocenzo, ma doveva anatematizzare apertamente gli errori da lui messi nel suo libello.
Altrimenti, se non l'avesse fatto, molti, poco intelligenti, avrebbero creduto che quei veleni presenti nel libello erano approvati dalla Sede Apostolica, per il fatto che aveva qualificato come cattolico quel libello, e non già ritrattati da Celestio per il fatto che aveva risposto d'essere d'accordo con la lettera del papa Innocenzo.
Ed allora, quando si chiedeva la sua presenza, perché da risposte certe e chiare venisse alla luce o l'astuzia o la ritrattazione di Celestio e non rimanesse ambigua per nessuno, costui si sottrasse e si negò all'esame.
Né si sarebbe dovuta rimandare ancora, come si fece, una decisione che giovava ad altri, se non poteva giovare alla cocciutaggine e alla follia di gente troppo perversa.
Se invece allora, e lo dico per assurdo, nella Chiesa romana si fosse giudicato di Celestio o di Pelagio in modo che i loro dogmi, già condannati in loro e con loro dal papa Innocenzo, si fossero dichiarati da approvare e da ritenere, allora, sì, proprio per questo ci sarebbe da imprimere a fuoco il marchio di tradimento sui chierici di Roma.
Ora però, atteso che per prima la lettera del beatissimo papa Innocenzo, in risposta alla lettera dei vescovi africani, ha condannato alla pari di essi questo errore che costoro tentano di far accogliere; atteso che anche il successore d'Innocenzo, il santo papa Zosimo, non ha mai detto e non ha mai scritto doversi ritenere ciò che costoro pensano nei riguardi dei bambini; atteso inoltre che Celestio, affannato nel giustificarsi, fu costretto da Zosimo con ripetute sentenze interlocutorie a sottomettersi alla suddetta lettera della Sede Apostolica, certamente tutto ciò che nel corso delle vicende fu fatto nei riguardi di Celestio con troppa indulgenza, salva restando unicamente la fermezza dell'antichissima e robustissima fede, fu un mitissimo tentativo di suasione a correggersi, non una funestissima approvazione dell'errore.
E la condanna con la quale Celestio e Pelagio furono colpiti successivamente dal medesimo sacerdote con il ripristino della sua autorità, fu un provvedimento di quella severità che, allentatasi per poco, era necessario dimostrare, e non il rinnegamento di un precedente giudizio sulla verità o un suo nuovo giudizio.
Ma che bisogno c'è che ci fermiamo più a lungo a parlare su questo argomento, quando esistono alla fonte da una parte e dall'altra gli atti processuali e i documenti scritti, dove si possono conoscere o riconoscere tutti quei fatti esattamente come si sono svolti?
Infatti dalle interrogazioni del tuo santo predecessore e dalle risposte con le quali Celestio dichiarò d'esser d'accordo con la lettera del beato papa Innocenzo, chi non vede come Celestio sia stato ridotto alle strette e messo con un vincolo salutarissimo nell'impossibilità d'avere il coraggio di sostenere ulteriormente che nel battesimo dei bambini non si rimette il peccato originale?
Del venerabile vescovo Innocenzo sono appunto su questo tema le seguenti parole al concilio di Cartagine: L'uomo, danneggiato alle sue origini dal libero arbitrio, quando volle usare imprudentemente dei suoi beni, caduto e sommerso nell'abisso della prevaricazione, non trovò nulla per poter risorgere da quella caduta, e ingannato per sempre dalla sua libertà sarebbe rimasto schiacciato da quella rovina, se poi non l'avesse liberato per sua grazia la venuta del Cristo, che mediante la purificazione d'una nuova rigenerazione ha mondato ogni vizio di prima con il lavacro del suo battesimo.
Che cosa più chiaro e più esplicito di questa sentenza della Sede Apostolica?
D'accordo con essa si dichiarò Celestio quando, avendogli chiesto il tuo predecessore: Condanni tutti gli errori che sono stati diffusi sotto il tuo nome? egli rispose: Li condanno secondo la sentenza del tuo predecessore Innocenzo di beata memoria.
Ora, tra tutti gli errori che erano stati diffusi sotto il suo nome, il diacono Paolino aveva accusato Celestio di dire che "il peccato di Adamo aveva nociuto solamente a lui stesso e non al genere umano, e che i bambini al momento della nascita sono nel medesimo stato in cui era Adamo prima del peccato".
Perciò, se condannava con la sincerità del cuore e della bocca, secondo la sentenza del beato papa Innocenzo, gli errori che gli addebitava Paolino, cosa gli rimaneva per sostenere in seguito che dalla passata trasgressione del primo uomo non deriva nei bambini nessun vizio da cancellare nel sacro battesimo per mezzo della purificazione di una nuova rigenerazione?
Ma d'aver risposto in modo falso lo dimostrò con la sua ultima uscita, quando si sottrasse all'esame, per non essere costretto a ripetere e anatematizzare secondo i rescritti africani proprio le medesime parole usate da lui sulla medesima questione nel suo libello.
E che, la risposta data dal medesimo Papa su questa stessa causa anche ai vescovi della Numidia, perché aveva ricevuto scritti da ambedue i concili, e di Cartagine e di Milevi, non parla nella maniera più aperta dei bambini?
Queste sono infatti le sue parole: Quello poi che la vostra fraternità asserisce predicato da lui che i bambini possono ricevere i premi della vita eterna anche senza la grazia del battesimo, è assurdo.
Perché, se non avranno mangiato la carne del Figlio dell'uomo e non avranno bevuto il suo sangue, non avranno la vita in se stessi. ( Gv 6,54 )
Coloro che la rivendicano ad essi senza la rigenerazione mi sembra che vogliano annullare il battesimo stesso, predicando che i bambini hanno già quello che noi crediamo non doversi conferire a loro se non per mezzo del battesimo.
Che cosa replica a queste parole quell'ingrato, che la Sede Apostolica aveva perdonato con benevolissima mitezza, quasi si fosse già corretto per mezzo della sua professione?
Che cosa replica a queste parole? I bambini, dopo la fine di questa vita, anche se durante la loro vita non sono stati battezzati nel Cristo, saranno o non saranno nella vita eterna?
Se dice: "Saranno", perché allora rispose che condannava secondo la sentenza d'Innocenzo di beata memoria gli errori che sono stati diffusi sotto il suo nome?
Ecco, il papa Innocenzo di beata memoria dice che senza il battesimo del Cristo e senza la partecipazione del corpo e del sangue del Cristo i bambini non hanno la vita.
Se dice: "Non saranno", per quale ragione, se non contraggono nessun peccato originale, essi, non ricevendo la vita eterna, sono certamente e conseguentemente condannati con la morte eterna?
Di fronte a tali documenti che dicono costoro, capaci anche di scrivere le proprie calunnie e capaci d'inviarle anche ai vescovi orientali?
Si ritiene che Celestio abbia prestato il suo assenso alla lettera del venerabile Innocenzo e nella stessa lettera del suddetto antistite si legge che i bambini non battezzati non possono avere la vita.
Ebbene, chi negherà la conseguenza che abbiano la morte coloro che non hanno la vita?
Da dove dunque nei bambini questa miserevole pena, se non esiste nessuna colpa originale?
Per quale ragione allora questi disertori della fede e oppositori della grazia accusano di tradimento i chierici romani sotto il vescovo Zosimo, quasi che nella condanna susseguente di Celestio e di Pelagio avessero pensato diversamente da quello che avevano pensato nella condanna precedente sotto Innocenzo?
Poiché appunto, splendendo l'antichità della fede cattolica con la lettera del venerabile Innocenzo riguardo ai bambini destinati a rimanere nella morte eterna, se non sono battezzati nel Cristo, sarebbe traditore della Chiesa romana piuttosto chiunque avesse deviato da quella sentenza, e poiché ciò non è avvenuto per benevola disposizione di Dio, ma la stessa sentenza si è conservata costantemente nella ripetuta condanna di Celestio e di Pelagio, capiscano costoro d'essere ciò che rinfacciano agli altri e una buona volta guariscano dal tradire la fede.
Che appunto è cattiva la natura umana non lo dice la fede cattolica in quanto l'uomo ebbe la sua prima origine dal Creatore, né è un male della natura umana ciò che Dio crea attualmente in essa quando fa gli uomini dagli uomini, ma è un male della natura umana ciò che essa contrae dal famoso vizio del primo uomo.
È già ora il momento di vedere le accuse che ci hanno fatto brevemente nella loro lettera e alle quali la nostra risposta è la seguente.
Che per il peccato di Adamo sia sparito dalla natura umana il libero arbitrio non lo diciamo, ma esso negli uomini soggetti al diavolo vale a peccare, non vale invece a vivere bene e piamente, se la stessa volontà dell'uomo non è stata liberata per grazia di Dio e aiutata a fare ogni bene nell'agire, nel parlare, nel pensare.
Nessun altro che il Signore Dio riteniamo creatore degli uomini che nascono, né dal diavolo ma da Dio stesso istituite le nozze: tutti però nascono sotto il peccato a causa del vizio della propaggine e sono per esso sotto il diavolo, finché non rinascano nel Cristo.
Né asseriamo il fato sotto il nome di grazia dicendo che la grazia di Dio non è preceduta in nessun modo dai meriti degli uomini.
Se poi a certuni piace chiamare fato la volontà dell'onnipotente Dio, noi certo evitiamo le chiacchiere profane, ( 1 Tm 6,20 ) ma non amiamo bisticciare sulle parole.
Quale poi sia la ragione per cui è parso a costoro d'accusarci di asserire il fato sotto il nome di grazia, essendomi dato io a riflettere con un po' più d'attenzione, ho notato per prime le loro parole che vengono subito appresso.
Così infatti hanno creduto di muovere a noi quest'accusa: Sotto il nome di grazia dicono costoro asseriscono il fato tanto da dire che, se Dio non ispira all'uomo svogliato e riluttante il desiderio del bene, anche dello stesso bene imperfetto, egli non può né stare lontano dal male né arrivare a fare il bene.
Poi alquanto dopo, dove ricordano le tesi difese da loro stessi, ho rivolto la mia attenzione a quello che dicono su questo argomento.
Scrivono: Noi confessiamo che il battesimo è necessario a tutte le età e altresì che la grazia aiuta il buon proposito di ognuno, ma essa tuttavia non infonde la sollecitudine della virtù in chi è riluttante, perché non c'è parzialità per nessuno presso Dio ( Col 3,25 ) - Da queste loro parole ho capito che ritengono o vogliono far ritenere che noi asseriamo il fato sotto il nome di grazia, perché diciamo che la grazia di Dio non è data secondo i nostri meriti, ma secondo la volontà misericordiosissima di colui che ha dichiarato: Userò misericordia con chi vorrò e avrò pietà di chi vorrò averla. ( Rm 9,15 )
Dove logicamente si aggiunge: Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia. ( Rm 9,16 )
Anche da qui potrebbe qualcuno altrettanto stolto ritenere o dire l'Apostolo assertore del fato.
Ma in questo caso costoro si tradiscono a sufficienza.
Poiché infatti ci calunniano d'asserire il fato perché diciamo che la grazia di Dio non è data secondo i nostri meriti, senza dubbio costoro confessano di dire che la grazia è data secondo i nostri meriti: così la loro cecità non ha potuto occultare o dissimulare che essi intendono e sentono esattamente ciò che, contestato a Pelagio nel giudizio episcopale palestinese, egli condannò con subdolo timore.
Fu appunto obiettato a lui, dalle parole del suo discepolo Celestio per la verità, di dire anche lui: "La grazia di Dio è data secondo i nostri meriti".
Il che egli detestandolo o facendo finta di detestarlo non indugiò ad anatematizzare con la bocca soltanto; ma, come indicano i suoi libri posteriori e come lo mette a nudo l'asserzione di cotesti suoi seguaci, serbò nella finzione del cuore l'errore fino a quando in seguito la sua sfrontatezza pubblicò anche per scritto ciò che allora l'astuzia nel negare aveva coperto per paura.
E non temono ancora né si vergognano almeno i vescovi pelagiani di mandare ai vescovi cattolici orientali una loro lettera, dove ci accusano d'essere assertori del fato perché non diciamo che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti; ciò che Pelagio per timore dei vescovi orientali e non osò affermare e fu indotto a condannare.
Non sta dunque proprio così, o novelli eretici pelagiani, figli della superbia, nemici della grazia di Dio: chiunque dica che la grazia di Dio precede tutti i buoni meriti dell'uomo e che la grazia di Dio non è data ai meriti, perché non sia grazia ( Rm 11,6 ) se non è data gratuitamente ma è pagata per debito a coloro che la meritano, a voi sembra che asserisca il fato?
Non è vero che anche voi, quale che sia la vostra intenzione, dite necessario il battesimo per tutte le età?
Non è vero che in questa stessa vostra lettera avete posto cotesta sentenza sul battesimo e subito accanto ad essa la sentenza sulla grazia?
Perché il battesimo che si dà ai piccoli non vi ha suggerito con la stessa sua vicinanza che cosa dovete pensare della grazia?
Queste sono infatti le vostre parole: Noi confessiamo che il battesimo è necessario a tutte le età e altresì che la grazia aiuta il buon proposito di ognuno, ma essa tuttavia non infonde il desiderio della virtù in chi è riluttante, perché non c'è parzialità per nessuno presso Dio. ( Col 3,25 )
Di quello che avete detto della grazia in tutte queste vostre parole taccio per il momento.
Del battesimo rendete conto. Dite, perché lo diciate necessario a tutte le età, per quale ragione sia necessario ai bambini.
Certamente perché procura a loro qualcosa di buono, e ciò non è qualcosa né di piccolo né di mediocre, ma qualcosa di grande.
Sebbene infatti neghiate che contraggano il peccato originale da rimettersi nel battesimo, tuttavia che in forza di quel lavacro di rigenerazione essi da figli degli uomini siano adottati in figli di Dio non lo negate e anzi lo predicate pure.
Diteci dunque: tutti i battezzati nel Cristo che sono usciti dal corpo quand'erano bambini, questo dono tanto sublime per quali meriti precedenti l'hanno ricevuto?
Se direte che l'hanno meritato per la pietà dei loro genitori, vi si chiederà: Perché talvolta si nega questo beneficio a figli di genitori pii ed è concesso a figli di genitori empi?
A volte infatti prole nata da persone religiose è prevenuta dalla morte in tenera età e appena uscita dall'utero, prima d'essere lavata con il lavacro della rigenerazione, e un bambino nato da nemici del Cristo è battezzato nel Cristo per pietà di cristiani: piange una mamma battezzata per il proprio bambino non battezzato e una donna casta raccoglie per farlo battezzare un feto altrui, esposto da una mamma disonesta.
Qui mancano certamente i meriti dei genitori, mancano per vostra confessione i meriti anche degli stessi bambini.
Sappiamo infatti che dell'anima umana voi non credete che prima di prendere il corpo terreno sia vissuta in qualche altro luogo e abbia fatto qualcosa o di bene o di male per cui meritare questa differenza nella carne.
Quale causa dunque a questo bambino ha procurato il battesimo e a quello l'ha negato?
Hanno forse essi il fato perché non hanno il merito?
O c'è forse in essi parzialità personale da parte di Dio?
Voi infatti avete detto l'una e l'altra cosa: prima il fato e poi la parzialità personale, perché, essendo ambedue da scartare, rimanga il merito che volete introdurre contro la grazia.
Sui meriti dunque dei bambini rispondete perché gli uni escano dai corpi con il battesimo e gli altri senza il battesimo, perché indipendentemente dai meriti dei genitori siano o gratificati o privati di un bene tanto eccellente da diventare figli di Dio da figli degli uomini, escluso ogni merito dei genitori, escluso ogni merito proprio dei figli.
Naturalmente voi tacete e vi trovate piuttosto rovesciati da voi stessi nell'errore che rovesciate su di noi.
Se infatti dove non c'è il merito dite che c'è logicamente il fato, e proprio per non essere costretti ad ammettere il fato volete che nella grazia di Dio si ravvisi il merito dell'uomo, ecco siete piuttosto voi ad asserire il fato nel battesimo dei piccoli dai quali escludete qualsiasi merito.
Se poi nel battezzare i bambini concedete che non interviene assolutamente nessun merito precedente e che tuttavia non interviene il fato, per quale ragione quando noi diciamo che la grazia di Dio è data gratuitamente, proprio perché non cessi d'essere grazia e non sia pagata come un debito a meriti precedenti, voi andate dicendo che noi siamo assertori del fato?
Voi non capite che nella giustificazione degli empi come proprio per questo che è grazia di Dio non intervengono i meriti, così proprio per questo che è grazia di Dio non interviene il fato, e proprio per questo che è grazia di Dio non interviene nessuna parzialità di persone.
Coloro che appunto affermano il fato, dalla posizione delle stelle che chiamano costellazioni, nel tempo in cui ciascuno è concepito o nasce, fanno dipendere non solo i comportamenti e gli eventi, ma anche le stesse nostre volontà.
Al contrario la grazia di Dio trascende non solo tutte le stelle e tutti i cieli, ma anche tutti gli angeli.
Inoltre gli assertori del fato attribuiscono al fato e i beni e i mali degli uomini.
Al contrario Dio nei mali degli uomini insegue i loro demeriti con il dovuto contraccambio, ma quanto ai beni li elargisce per grazia non dovuta con misericordiosa volontà.
Ambedue le cose Dio le fa non in dipendenza del congiungimento temporaneo delle stelle, ma secondo l'eterno e profondo disegno della sua severità e bontà.
Nessuna delle due cose dunque la vediamo appartenere al fato.
Se qui rispondete che fato è da dirsi piuttosto questa stessa benevolenza di Dio con la quale non segue i meriti, ma per gratuita bontà elargisce beni non dovuti, mentre l'Apostolo la chiama grazia dicendo: Per questa grazia siete salvi mediante la fede, e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio, né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene, ( Ef 2,8-9 ) non avvertite, non capite che non siamo noi a dare al fato il nome di grazia divina, ma voi piuttosto a dare alla grazia divina il nome di fato?
Così pure preferenza di persone si dice giustamente esserci dove un giudice, trascurando il merito della causa che ha in esame, favorisce una parte contro l'altra, perché nella persona trova qualcosa che è degno d'onore o di compassione.
Chi invece ha due debitori, se ad uno vuole condonare il debito ed esigerlo dall'altro, regala a chi vuole, ma non defrauda nessuno; né si deve dire preferenza di persone quando non c'è nessuna ingiustizia.
Altrimenti a critici poco intelligenti può sembrare preferenza di persone quando il padrone della vigna agli operai che vi lavorarono un'ora sola diede quanto a quelli che sopportarono il peso della giornata e il caldo, uguagliando nella paga operai tanto distanti tra loro nella fatica.
Ma che rispose il padrone a coloro che mormoravano contro di lui per questa apparente parzialità di persone?
Disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro?
Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare a quest'ultimo quanto a te.
Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? ( Mt 20,13-15 )
Naturalmente qui tutta la giustizia è in quel: "Voglio così".
"A te - dice - ho reso, a lui ho regalato, né per regalare a lui ho tolto qualcosa a te, o ho diminuito o negato quanto ti dovevo.
Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?".
Come dunque non c'è qui parzialità di persone, perché uno viene gratuitamente gratificato senza che l'altro sia defraudato del suo diritto, così pure, quando secondo il disegno di Dio uno è chiamato e un altro no, ( Rm 8,28 ) a chi è chiamato è dato un bene gratuito del quale è principio la chiamata stessa, a chi non è chiamato è reso il male perché tutti sono rei da quando il peccato è entrato nel mondo a causa di un solo uomo. ( Rm 5,12 )
Veramente in quella parabola degli operai, nella quale ricevettero un solo denaro quelli che lavorarono un'ora sola e quelli che lavorarono dodici volte tanto, e questi certamente secondo i calcoli umani ma vani in proporzione del loro lavoro avrebbero dovuto ricevere dodici denari, gli uni e gli altri furono uguagliati nel bene, non liberati gli uni e condannati gli altri, perché anche quelli che lavorarono di più ebbero dallo stesso padre di famiglia e il favore d'esser chiamati così da accogliere la chiamata e il favore d'essere nutriti così da non venire meno nelle loro forze.
Nel testo invece dove si legge: Usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole, colui che fa un vaso per uso nobile e uno per uso volgare, ( Rm 9,18.21 ) il bene è dato, sì, immeritamente e gratuitamente, perché appartiene alla medesima massa colui che riceve il bene; il male viceversa è reso meritamente e debitamente, perché nella massa di perdizione non è male rendere male al male, ed è male per colui a cui è reso, essendo il suo castigo, ma per colui che lo rende è bene, essendo un suo giusto operare.
Né c'è nessuna parzialità di persone se di due debitori ugualmente rei ad uno si condona e dall'altro si esige ciò che è dovuto ugualmente da ambedue.
Ma per rendere chiaro con un esempio ciò che stiamo dicendo prendiamo due gemelli, nati da una meretrice ed esposti perché altri li raccogliessero: di questi due uno è spirato senza il battesimo e l'altro con il battesimo.
Qual fato o quale fortuna, che sono assolutamente inesistenti, possiamo ammettere qui?
Quale preferenza di persone, anche se ne fosse stata possibile un poco in tali bambini, quando non c'è per nulla in Dio?
Essi certo non avevano nulla che facesse preferire l'uno all'altro e non avevano meriti personali, né buoni per meritare l'uno d'esser battezzato, né cattivi per meritare l'altro di morire senza il battesimo.
Ci sono stati meriti da parte dei genitori, essendo fornicatore il padre e meretrice la madre?
Ma, quali che siano stati quei meriti, certamente per cotesti che muoiono in condizione tanto diversa non erano affatto diversi, bensì comuni all'uno e all'altro.
Se questo dunque non è dipeso né dal fato perché le stelle non decidono di tali eventi, né dalla fortuna perché i casi fortuiti non compiono questi fatti, né dalla diversità delle persone o dei meriti, che cosa resta quanto al bambino battezzato se non la grazia di Dio, la quale è data gratuitamente ai vasi fatti per uso nobile, e quanto al bambino non battezzato se non l'ira di Dio, la quale ai vasi fatti per uso volgare è resa secondo i demeriti della stessa massa?
Ma noi nel bambino battezzato vi costringiamo a confessare la grazia di Dio e vi dimostriamo che da parte sua non c'è stato nessun merito precedente; quanto poi al bambino morto senza il battesimo, per quale ragione gli sia mancato il sacramento che anche voi confessate necessario a tutte le età e che cosa in questo modo sia stato punito in lui vedetelo voi che non volete l'esistenza del delitto originale.
Per noi in cotesti due gemelli che hanno indubbiamente una condizione unica, la difficoltà della questione, perché l'uno sia morto in maniera diversa dall'altro, la scioglie quasi senza scioglierla l'Apostolo. ( Rm 9,11-12 )
Il quale, avendo proposto anch'egli un caso simile riguardo a due gemelli, per il fatto che non in base alle loro opere, perché essi non avevano ancora operato alcunché di bene o di male, ma in base alla scelta divina fu detto: Il maggiore servirà il più piccolo, ( Rm 9,12 ) e: Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù, ( Rm 9,13 ) e avendo condotto l'orrore di questo abisso fino a dire: Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole, ( Rm 9,18 ) avvertì subito quale difficoltà nascesse e rivolse a sé le parole di un contraddittore da ribattere con apostolica autorità.
Scrive infatti: Mi potrai però dire: - Ma allora perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere? -.
E a chi parla così risponde: O uomo, tu chi sei per disputare con Dio?
Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: - Perché mi hai fatto così? -.
Forse il vasaio non è padrone dell'argilla per fare con la medesima massa di pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? ( Rm 9,19-21 )
Poi seguitando svelò, per quanto giudicò di doverlo svelare agli uomini, un così alto e fitto mistero dicendo: Che potremmo dire, se pertanto Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, già pronti per la perdizione, e questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria? ( Rm 9,22-23 )
Ecco la grazia di Dio non solo nella funzione di aiutare, ma anche in quella di testimoniare: aiuta cioè nei vasi di misericordia, ma testimonia nei vasi di collera.
In questi infatti indica la collera e mostra la sua potenza, essendo tanto potente la sua bontà da far buon uso anche dei mali, e fa conoscere nei vasi di collera la ricchezza della sua gloria verso i vasi di misericordia, perché quello che dai vasi d'ira esige la sua giustizia punitrice lo condona ai vasi di misericordia la sua grazia liberatrice.
Né apparirebbe il beneficio che è concesso gratuitamente ad alcuni, se Dio condannando con giusto castigo gli altri della stessa massa di pasta ugualmente rei non mostrasse che cosa fosse dovuto agli uni e agli altri.
Chi infatti ti distingue? domanda il medesimo Apostolo all'uomo, come se si vantasse di se stesso e del suo proprio bene.
Chi infatti ti distingue? naturalmente dai vasi di collera, dalla massa della perdizione, la quale a causa di uno solo ha mandato tutti alla condanna.
Chi infatti ti distingue? E come se l'interpellato avesse risposto: - Mi distingue la mia fede, il mio proponimento, il mio merito -, incalza: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?
E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti, come se non l'avessi ricevuto, ( 1 Cor 4,7 ) cioè come se venisse da te il privilegio che ti distingue?
A distinguerti dunque è chi ti dona il privilegio della distinzione, rimovendo la pena dovuta ed elargendo la grazia non dovuta.
Ti distingue colui che comandò quando le tenebre ricoprivano l'abisso: Sia la luce! e la luce fu.
E separò, cioè distinse, la luce dalle tenebre. ( Gen 1,3-4 )
Non trovò infatti che cosa distinguere quando esistevano soltanto le tenebre, ma le distinse facendo la luce, perché si possa dire agli empi giustificati: Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore, ( Ef 5,8 ) e così, chi si vanta si vanti nel Signore ( 1 Cor 1,31 ) e non in se stesso.
A distinguere è colui che riguardo ai due bambini non ancora nati e non ancora responsabili né di bene né di male, perché rimanesse fermo il suo disegno fondato sull'elezione, disse, non in base alle opere, ma alla volontà di lui stesso che chiamava: Il maggiore servirà il più piccolo, ( Rm 9,12; Gen 25,23 ) e in seguito dichiarò lo stesso per bocca del Profeta: Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù. ( Ml 1,2-3; Rm 9,13 )
Precisamente elezione dice ( Rm 9,11 ) dove Dio non trova qualcosa da scegliere fatto da altri, ma per trovarlo lo fa egli stesso, come riguardo al resto di Israele è scritto: Così anche al presente c'è un resto, conforme a una elezione per grazia.
E se lo è per grazia, non lo è dunque per le opere, altrimenti la grazia non sarebbe più grazia. ( Rm 11,5-6 )
Perciò vaneggiate sicuramente voi che, dicendo la Verità: Non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama, dite: "Giacobbe fu amato in base alle opere future che Dio prevedeva fatte da lui", e così contraddite l'Apostolo che dice: Non in base alle opere, come se egli non potesse dire: "Non in base alle opere presenti, ma a quelle future".
Egli dice però: Non in base alle opere per sottolineare la grazia.
E se lo è per grazia, non lo è per le opere, altrimenti la grazia non sarebbe più grazia.
Infatti viene prima la grazia non dovuta ma gratuita, perché per mezzo di essa si compiano le opere buone; altrimenti, se venissero prima le opere buone, la grazia sarebbe come resa alle opere e allora la grazia non sarebbe più grazia.
Ma per togliervi completamente alle vostre tenebre, ho appositamente scelto l'esempio di gemelli che non potessero contare sui meriti dei genitori e morissero ambedue sulla prima soglia dell'infanzia, uno battezzato e l'altro non battezzato, perché non affermaste, come dite di Giacobbe e di Esaù contro l'Apostolo, che Dio preconobbe le loro opere future.
In che modo infatti le preconobbe future, se piuttosto con la sua infallibile prescienza le preconobbe non future prevedendo che sarebbero morti nell'infanzia?
Oppure, che vantaggio c'è per coloro che sono rapiti da questa vita perché la malizia non muti i loro sentimenti o l'inganno non travii il loro animo, ( Sap 4,11 ) se anche il peccato che non è stato commesso con opere, con parole, con pensieri è punito come se fosse stato commesso?
Che se è estremamente assurdo, insulso, pazzesco che gli uomini in genere siano da condannare a causa di peccati dei quali né hanno potuto contrarre il reato dai genitori, come dite, né hanno potuto non solo commettere ma nemmeno pensare, allora torna a voi il fratellino non battezzato del gemello battezzato e tacito vi chiede per quale ragione sia stato separato dalla felicità del fratello, per quale motivo sia stato colpito dall'infelicità di non ricevere il sacramento necessario a tutte le età, come voi riconoscete, mentre il suo fratello è stato adottato in figlio di Dio, se, come non esiste né la fortuna né il fato né la parzialità di persone presso Dio, così non esiste nessun dono di grazia senza meriti e nessun peccato originale.
Davanti a questo bimbo, incapace assolutamente di parlare, voi fate tacere la vostra lingua e la vostra voce, a lui che non sa parlare non trovate voi che parole parlare.
Vediamo ora, come possiamo, il merito stesso che costoro vogliono far precedere nell'uomo, perché egli sia ritenuto degno dell'aiuto della grazia e perché al suo merito la grazia non sia data come non dovuta, ma sia pagata come dovuta, e così la grazia non sia più grazia: vediamo comunque che cosa sia questo merito.
Scrivono: Sotto il nome di grazia asseriscono il fato, tanto da dire che se Dio non ispira all'uomo svogliato e riluttante il desiderio del bene, anche dello stesso bene imperfetto, egli non può né star lontano dal male, né arrivare a fare il bene.
Del fato e della grazia abbiamo già mostrato come parlino a vanvera: il problema al quale dobbiamo volgere ora l'attenzione è se sia Dio ad ispirare all'uomo svogliato e riluttante il desiderio del bene, così da farlo cessare d'essere riluttante e d'essere svogliato, ma farlo volgere al bene e fargli volere il bene.
Costoro infatti vogliono che il desiderio del bene nell'uomo cominci dall'uomo stesso e che al merito di questo inizio segua la grazia di fare il bene perfettamente: se tuttavia vogliono almeno questo.
Infatti Pelagio dice che con l'aiuto della grazia il bene si compie più facilmente.
Con la quale aggiunta, cioè aggiungendo "più facilmente", fa capire che la sua convinzione è questa: anche se manca l'aiuto della grazia, si può, sebbene con più difficoltà, fare il bene per mezzo del libero arbitrio.
Ma quale sia la loro dottrina su questo argomento non lo prescriviamo dal fondatore di tale eresia: concediamo che essi sono con il loro libero arbitrio liberi anche dallo stesso Pelagio e attendiamo piuttosto a coteste loro parole poste in questa lettera, alla quale stiamo rispondendo.
Questo infatti hanno creduto di doverci contestare: Diciamo che Dio ispira all'uomo svogliato e riluttante il desiderio del bene, non di un bene grande quanto si voglia, ma anche del bene imperfetto.
Forse dunque costoro lasciano in tal modo qualche spazio alla grazia almeno in questa misura: reputando che senza di essa l'uomo possa avere il desiderio del bene, ma del bene imperfetto; del bene invece perfetto non è che l'uomo possa avere il desiderio "più facilmente" con la grazia, ma non lo può avere in nessun modo se non per mezzo della grazia.
Tuttavia anche così dicono che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti: ciò che in Oriente Pelagio nel processo ecclesiastico condannò per timore d'essere condannato.
Se infatti il desiderio del bene comincia da noi senza la grazia di Dio, questo stesso inizio sarà un merito a cui arrivi come per debito l'aiuto della grazia, e così la grazia di Dio non sarà donata gratuitamente, ma sarà data secondo il nostro merito.
Ora il Signore per rispondere in anticipo al futuro Pelagio non ha detto: Senza di me potete fare qualcosa con difficoltà, ma ha detto: Senza di me non potete far nulla. ( Gv 15,5 )
E per rispondere in anticipo anche a costoro non ha detto nella medesima sentenza evangelica: Senza di me non potete fare perfettamente, ma ha detto semplicemente: Fare.
Perché se avesse detto: Fare perfettamente, costoro potrebbero dire che l'aiuto di Dio non è necessario per cominciare il bene, ciò che dipende da noi, ma per fare perfettamente il bene.
Ascoltino però anche l'Apostolo. Il Signore infatti quando disse: Senza di me non potete far nulla, con questo unico verbo fare comprese l'inizio e la fine.
L'Apostolo poi, come se facesse il commento della sentenza del Signore, ha distinto più esplicitamente l'inizio e la fine dicendo: Colui che ha iniziato in voi quest'opera buona, la porterà a compimento fino al giorno del Cristo Gesù. ( Fil 1,6 )
Ma nelle Scritture sante presso il medesimo Apostolo troviamo più di questo di cui stiamo parlando.
Stiamo infatti parlando adesso del desiderio del bene.
Se vogliono che questo desiderio del bene cominci da noi e il bene sia portato alla perfezione dal Signore, vedano che cosa abbiano da rispondere all'Apostolo quando dice: Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio. ( 2 Cor 3,5 )
Dice: Pensare qualcosa, naturalmente di buono. Ora, pensare è meno di desiderare.
Pensiamo appunto tutto quello che desideriamo, ma non desideriamo tutto quello che pensiamo: tant'è vero che pensiamo a volte anche quello che non desideriamo.
Poiché dunque pensare è meno che desiderare - uno può infatti pensare un bene che non desidera ancora e progredendo può in seguito desiderare un bene a cui prima pensava senza desiderarlo -, in che modo di quello che è meno, ossia di pensare qualcosa di buono, non siamo capaci come se provenisse da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, e di quello che è di più, ossia di desiderare qualcosa di buono, siamo capaci senza l'aiuto divino in forza del libero arbitrio?
Anche qui infatti l'Apostolo non dice: Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa di perfetto, ma dice: Di pensare qualcosa, il cui contrario è il nulla.
E gli corrisponde l'affermazione del Signore: Senza di me non potete far nulla.
Ma evidentemente non intendendo bene ciò che è scritto: All'uomo appartiene preparare il cuore e dal Signore viene la risposta della lingua, ( Pr 16,1 ) s'ingannano nello stimare che all'uomo senza la grazia di Dio appartenga preparare il cuore, ossia iniziare il bene.
Ben si guardino dall'intendere così i figli della promessa, come se udendo il Signore che dice: Senza di me non potete far nulla, lo possano contraddire replicando: Ecco, senza di te possiamo preparare il nostro cuore; oppure udendo dire dall'apostolo Paolo: Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, ( 2 Cor 3,5 ) possano contraddire anche lui dicendo: Ecco, siamo capaci da noi stessi di preparare il nostro cuore e quindi di pensare qualcosa di buono.
Chi può infatti preparare il proprio cuore al bene senza pensare al bene?
Non sia mai che intendano così se non i superbi difensori del proprio arbitrio e i disertori della fede cattolica.
La ragione appunto per cui sta scritto: All'uomo appartiene preparare il cuore e dal Signore viene la risposta della lingua, è che l'uomo prepara il suo cuore, non tuttavia senza l'aiuto di Dio, il quale tocca così il cuore da indurre l'uomo a preparare il suo cuore.
Nella risposta poi della lingua, cioè nel fatto che al cuore preparato risponde la lingua divina, non ha nessun posto l'opera dell'uomo, ma tutto viene dal Signore Dio.
Perché, come è stato detto: All'uomo appartiene preparare il cuore e dal Signore viene la risposta della lingua, ( Pr 16,1 ) così pure è stato detto: Apri la tua bocca, la voglio riempire. ( Sal 81,11 )
Benché infatti non possiamo aprir la bocca se non con l'aiuto di colui senza il quale non possiamo far nulla, tuttavia siamo noi che l'apriamo, con l'aiuto di Dio e con l'attività nostra; è il Signore invece che la riempie senza attività nostra.
Che cos'è infatti preparare il cuore e aprir la bocca se non disporre la volontà?
E tuttavia nelle stesse Scritture si legge: Dal Signore è preparata la Volontà, ( Pr 8, 35 sec. LXX ) e: Apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode. ( Sal 51,17 )
Ecco, Dio ci esorta a preparare la nostra volontà nel testo dove leggiamo: All'uomo appartiene preparare il cuore, e tuttavia è Dio che aiuta a prepararlo perché dal Signore è preparata la volontà.
E apri la tua bocca lo dice comandando, ma in tal modo che nessuno la possa aprire se non ce la fa aprire, aiutandoci, Dio stesso al quale diciamo: Apri le mie labbra.
Potranno mai taluni di loro vaneggiare tanto da voler distinguere tra la bocca e le labbra per dire con strana stupidità che è l'uomo ad aprire la propria bocca ed è Dio ad aprire le labbra dell'uomo?
Comunque Dio impedisce ad essi anche questa assurdità quando al suo servo Mosè dice: Io aprirò la tua bocca e t'insegnerò quello che dovrai dire. ( Es 4,12 )
Nella sentenza dunque dove si legge: Apri la tua bocca, la voglio riempire, sembra quasi che la prima azione spetti all'uomo e la seconda a Dio; nella sentenza invece dove si legge: Io aprirò la tua bocca e t'insegnerò, tutte e due le azioni spettano a Dio.
Per quale ragione se non perché nel primo dei due casi Dio coopera con l'uomo che apre la bocca e nell'altro fa tutto da solo?
In conclusione, Dio fa nell'uomo molte buone operazioni senza che le faccia l'uomo, ma l'uomo non fa nessuna buona operazione senza che Dio gliela faccia fare.
Perciò il desiderio del bene non l'avrebbe l'uomo dal Signore se non fosse un bene, ma se è un bene non viene a noi se non da colui che è sommamente e immutabilmente buono.
Cos'è infatti il desiderio del bene se non la carità, di cui l'apostolo Giovanni parla senza ambiguità dicendo: L'amore è da Dio? ( 1 Gv 4,7 )
Né è vero che il suo inizio venga da noi e la sua perfezione venga da Dio; ma se l'amore è da Dio, viene a noi tutto intero da Dio.
A tal proposito Dio ci guardi dalla pazzia di mettere noi per primi nei suoi doni e lui per secondo, poiché sta scritto: Con la sua misericordia mi previene, ( Sal 59,11 ) ed è a lui che si canta con fede e veracità: L'hai prevenuto con la benedizione della tua dolcezza. ( Sal 21,4 )
E cosa s'intende più convenientemente dello stesso desiderio del bene di cui stiamo parlando?
È proprio allora infatti che comincia il desiderio del bene quando si comincia a gustare la dolcezza del bene.
Al contrario quando si fa il bene per timore della pena e non per amore della giustizia, il bene non si fa ancora bene, né si fa nel cuore il bene che si vede fare nell'operazione quando si preferirebbe non farlo, se lo si potesse impunemente.
La benedizione della dolcezza è dunque la grazia di Dio, la quale in noi fa sì che gustiamo e desideriamo, ossia amiamo, quanto Dio ci comanda: con la quale dolcezza se Dio non ci previene, l'amore del bene non solo non arriva alla perfezione in noi, ma non incomincia nemmeno da parte nostra.
Se infatti non possiamo fare nulla senza di lui, certamente non possiamo né cominciare né fare perfettamente, perché riguardo al cominciare è stato detto: Con la sua misericordia mi previene, e riguardo al fare perfettamente è stato detto: La sua misericordia mi accompagnerà. ( Sal 23,6 )
Che è dunque quello che nel seguito, dove ricordano le proprie convinzioni, dicono di confessare: "Altresì che la grazia di Dio aiuta il buon proposito di ognuno, ma essa tuttavia non infonde la sollecitudine della virtù in chi è riluttante"?
Lo dicono appunto come se l'uomo abbia da se stesso, senza l'aiuto di Dio, il proposito buono e la sollecitudine della virtù, e questo merito precedente lo renda degno d'essere aiutato dalla grazia divina susseguente.
Reputando infatti che forse l'Apostolo nello scrivere: Sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il proposito, ( Rm 8,28 ) volesse intendere il proposito dell'uomo, al quale proposito come a merito buono seguisse la misericordia di Dio che chiama, ignorando che il senso in cui è stato detto: Sono stati chiamati secondo il proposito si deve riferire al proposito di Dio e non al proposito dell'uomo: al disegno con il quale Dio ha scelto prima della creazione del mondo ( Rm 8,28-29 ) quelli che da sempre ha conosciuti e predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo. ( Ef 1,4 )
Non tutti i chiamati infatti sono chiamati secondo il proposito, poiché molti sono chiamati, ma pochi eletti. ( Mt 20,16 )
Chiamati dunque secondo il proposito sono gli stessi eletti da prima della creazione del mondo.
Di questo proposito di Dio è stato detto anche ciò che ho già ricordato sui gemelli Esaù e Giacobbe: Perché rimanesse fermo il proposito divino fondato sull'elezione non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama, le fu dichiarato: Il maggiore sarà sottomesso al minore. ( Rm 9,11-12 )
Questo proposito di Dio è ricordato pure nel passo dove Paolo scrivendo a Timoteo dice: Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio.
Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia: grazia che ci è stata data nel Cristo Gesù fino dall'eternità, ma è stata manifestata solo ora con l'apparizione del Salvatore nostro Cristo Gesù. ( 2 Tm 1,8-10 )
Questo è dunque il proposito di Dio, per cui dice: Tutto concorre al bene di coloro che sono stati chiamati secondo il proposito. ( Rm 8,28 )
Quanto poi al buon proposito dell'uomo, certamente l'aiuta la grazia susseguente, ma esso non esisterebbe nemmeno senza la grazia precedente.
Anche quella che si dice sollecitudine buona dell'uomo, benché sia aiutata dalla grazia dopo che è cominciata, tuttavia non comincia senza la grazia, ma è ispirata da Dio, del quale l'Apostolo dice: Siano pertanto rese grazie a Dio che infonde la medesima sollecitudine per voi nel cuore di Tito. ( 2 Cor 8,16 )
Se è Dio a dare a ciascuno la sollecitudine per gli altri, chi altri se non Dio la darà a ciascuno per se stesso?
Stando così le cose, non vedo comandato dal Signore nelle Scritture sante a prova del libero arbitrio nulla che non si trovi ad essere o dato dalla sua bontà o chiesto a lui perché mostri l'aiuto della sua grazia.
Né l'uomo comincia in nessun modo a mutarsi dal male al bene per mezzo dell'inizio della fede, se questo mutamento non l'opera in lui la misericordia di Dio, non dovuta e gratuita.
Sulla quale riportando un tale il suo pensiero dice, come leggiamo nei Salmi: Può Dio aver dimenticato la misericordia, aver chiuso nell'ira il suo cuore?
E ho detto: Ora comincio. Questo è il mutamento della destra dell'Altissimo. ( Sal 77,10-11 )
Dopo dunque aver detto: Ora comincio non soggiunge: Questo è il mutamento del mio arbitrio, ma: della destra dell'Altissimo.
Si pensi dunque alla grazia di Dio in modo che chi si vanta si vanti nel Signore ( 1 Cor 1,31 ) dall'inizio del suo buon mutamento fino alla fine del suo perfezionamento.
Perché come nessuno può fare il bene perfettamente senza il Signore, così nessuno può cominciare a fare il bene senza il Signore.
Ma sia qui il termine di questo volume, perché l'attenzione di chi legge si sollevi e si rafforzi per quanto seguirà.
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