Discorsi su argomenti vari |
1 - L'ancora della speranza
2 - Il desiderio e la visione
3 - Fede e speranza
4 - La carità
5 - Per tutti attesa di liberazione
6 - Chi è felice. Giobbe
7 - Pazienza e morte
9 - Il fattore scaltro e il tempo futuro
11 - Le elemosine. La verifica del proprio compito
12 - La elemosina Dio misura nel cuore
13 - Ricchezza iniqua
14 - Ricchezza vera
15 - Sito testi della fede
17 - Superare significa dare di più
Finché siamo in questo mondo, se cerchiamo di rivolgere in alto il nostro cuore, non subiremo danno per il fatto che il nostro cammino è quaggiù.
Noi infatti camminiamo in basso finché siamo nella nostra carne.
Ma se poniamo in alto la nostra speranza è come se avessimo bene assicurata l'àncora. ( Eb 6,19 )
Comunque il resistere alle correnti di questo mondo, che trascinano, non proviene da capacità nostra ma in virtù di Colui in cui abbiamo fissato l'àncora, la nostra speranza.
Chi ci ha portato a sperare non c'ingannerà, ci darà la sostanza di ciò che speriamo.
Infatti - come dice l'Apostolo - se ciò che si spera è visto non è più speranza.
Quello che uno vede, non c'è bisogno che lo speri.
Se invece noi abbiamo speranza di qualcosa che non vediamo, allora non cessiamo di attenderla con perseveranza. ( Rm 8,24-25 )
Voglio parlare di questa attesa paziente, che è un dono di Dio.
Si leggono infatti in qualche luogo del Vangelo queste parole di nostro Signore Gesù Cristo: Con la vostra pazienza salverete le vostre anime. ( Lc 21,19 )
E in un altro luogo della Scrittura è detto: Guai a coloro che hanno perduto la pazienza. ( Sir 2,16 )
La si chiami pazienza o sopportazione o tolleranza, con diversi termini si allude alla stessa cosa.
Fissiamo nel cuore non tanto la diversità delle parole ma l'unica sostanza del concetto e ciò che esprimiamo a parole cerchiamo di possederlo nell'intimo.
Vive qui nella pazienza chi è consapevole che la vita, che egli conduce in questo mondo, è lontana dalla patria, in qualsiasi luogo della terra si trovi col suo corpo.
Vive nella pazienza chi sa di possedere una patria, eterna, in cielo, chi ha fiducia che quella è la regione della felicità che qui non si può avere, ma solo desiderare, ed arde di un desiderio così buono, santo e casto.
É evidente che la pazienza non risulta necessaria nella prosperità, ma nell'avversità.
Non si può dire che uno tolleri con pazienza ciò che gli piace.
Ciò che tolleriamo, ciò che sopportiamo pazientemente è qualcosa di duro, di amaro.
Non è dunque necessaria la pazienza alla felicità, ma all'infelicità.
Tuttavia, come avevo cominciato a dire, chiunque arde dal desiderio della vita eterna, in qualsiasi luogo della terra si trovi anche in una condizione felice, deve pur vivere nella pazienza, dal momento che con fatica sopporta lo stesso cammino della vita terrena prima di giungere, dopo averla tanto amata, alla desiderata patria.
L'amore nel desiderio è tuttavia ben diverso dall'amore nella visione.
Infatti se ama tanto chi desidera quanto chi vede, chi è ancora nel desiderio ama per giungere all'oggetto del suo amore; chi vede ciò che ama, vuol restare là dov'è.
Se il desiderio dei santi può essere tanto ardente nella sola fede, che cosa mai sarà nella visione?
Se tanto riusciamo ad amare quando semplicemente crediamo a ciò che non vediamo ancora, quale sarà il nostro amore quando avremo davanti agli occhi ciò che amiamo?
Tre virtù l'Apostolo raccomanda di edificare soprattutto nell'uomo interiore: la fede, la speranza, la carità.
Le esalta tutte e tre, ma alla fine conclude: La maggiore di tutte è la carità. ( 1 Cor 13,13 )
Cercate ardentemente la carità. ( 1 Cor 14,1 )
Che cosa sono dunque la fede, la speranza e la carità?
E perché la carità è la più grande?
La fede è, come è precisato in un passo delle Scritture: Fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono. ( Eb 11,1 )
Colui che spera non possiede ancora l'oggetto della sua speranza, ma per la fiducia che ha, è simile a chi possiede.
La fede è dunque, dice, fondamento delle cose che si sperano.
Non è ancora la realtà che avremo, ma sta, la fede, in luogo di quella stessa realtà.
Non si può d'altronde dire che non abbia nulla chi ha la fede; che sia vuoto chi è pieno di fede.
La ricompensa a chi ha la fede è grande proprio per questo: perché non si vede e si crede.
Se si vedesse infatti non ci sarebbe ragione di ricompensa.
Perciò il Signore dopo la risurrezione e dopo essersi mostrato ai discepoli in modo che non solo lo videro, ma poterono anche toccarlo con le mani, ( Lc 24,36 ) dopo aver convinto i sensi umani che colui che poco prima pendeva sulla croce era lui risorto, si trattenne con loro solo qualche giorno, quanto gli parve necessario per garantire la fede nella risurrezione e confermare il Vangelo, e salì al cielo per non essere più davanti agli occhi, ma per essere raggiunto con la fede.
Se infatti fosse sempre qui, visibile a questi nostri occhi, il merito della fede sarebbe nullo.
Si dice dunque all'uomo: " Credi ".
Ma egli vorrebbe vedere.
Gli si ribatte: " Appunto per vedere un giorno, intanto credi ".
La fede è il merito, la visione, il premio.
Se vuoi vedere prima di credere è come se chiedessi il salario prima di aver lavorato.
Ciò che tu vuoi avere ha un prezzo.
Vuoi vedere Dio.
Di un così grande bene il prezzo è la fede.
Tu vuoi giungere alla mèta e non vuoi camminare?
La visione è il possesso, la fede è la via.
Chi rifiuta la fatica del viaggio, come può aspirare alla gioia del possesso?
La fede non può venir meno se ha per supporto la speranza.
Togli la speranza e viene meno la fede.
Non muoverebbe neanche un passo chi non spera di poter giungere alla mèta.
Se poi nell'un caso e nell'altro, cioè alla fede e alla speranza, togli l'amore a nulla giova credere, a nulla giova sperare se non c'è l'amore.
Dirò di più: è assurdo sperare ciò che non si ama.
L'amore infatti accende la speranza, la speranza sfolgora di amore.
Ma quando saremo giunti al fine che abbiamo sperato senza vederlo, ma credendo, quale posto avrà qui la fede?
Se la fede è fondamento delle cose che non si vedono, ( Eb 11,1 ) quando le si vedono, non si può più parlare di fede.
Infatti allora vedrai, non crederai.
Lo stesso dicasi per la speranza.
Quando la cosa è ottenuta, non c'è più motivo di sperarla.
Infatti, ciò che uno già vede come potrebbe sperarlo? ( Rm 8,24 )
Sicché dunque, quando saremo arrivati, cessa la fede, cessa la speranza.
E la carità? La fede si cambia in visione, la speranza è sostituita dalla realtà.
Ci sarà dunque la visione e la realtà, non più la fede e la speranza.
E la carità? Può forse essa cessare?
Al contrario, se si era accesi d'amore per ciò che ancora non si vedeva, senz'altro più ardente sarà questo amore quando si vedrà.
Giustamente perciò è stato detto: La più grande di queste è la carità, ( 1 Cor 13,13 ) perché alla fede succede la visione, alla speranza la sua realizzazione, alla carità non succede un'altra cosa.
É lei che cresce, che aumenta, lei stessa che si perfeziona nella contemplazione.
Ne consegue che, se desideriamo vedere l'aspetto di Dio, se sospiriamo di giungere alla patria dell'eterna felicità, se siamo stabili in quel desiderio, riterremo sempre cosa misera il viaggio terreno, anche se si gode di circostanze felici in quantità, anche se si sovrabbonda in beni.
Sempre da una condizione misera si invoca Dio, dicendo continuamente: Signore, liberami. ( Sal 7,2 )
Dice il povero: [ Signore, ] liberami, e potresti credere che egli chieda la liberazione dalla povertà.
Ma anche il ricco dice: Liberami.
Potresti credere che sia malato.
Invece è sanissimo, è ricco e chiede: Liberami.
Si tratta evidentemente di quella liberazione che è indicata dalla preghiera: Liberaci dal male. ( Mt 6,13 )
Il cristiano deve invocare: Liberaci dal male in qualunque situazione felice si trovi.
Se invoca: Liberaci dal male, è chiaro che c'è per lui materia di liberazione e, se c'è, ne consegue che egli è nel male; e allora, per quante siano le circostanze felici che lo possono allietare, ha di che sopportare, fino a che non giunga al godimento di Dio.
Il " sopportare " con pazienza è dunque inevitabile condizione, in questo mondo, tanto per i poveri che per i ricchi, per i sani come per i malati, per i prigionieri come per i liberi, per gli erranti in terra straniera come per chi sta in patria.
É necessaria la pazienza perché tutti siamo di passaggio nel mondo.
Gli uomini, fino a quando non siano liberi da questo pellegrinaggio e non giungano ad essere partecipi di quella verità e di quella immutabile sostanza a cui sospiravano durante il cammino, si trovano nelle tentazioni, perciò di vero cuore gridano a Dio: Liberaci dal male.
Capita che uomini nella miseria, vedendo coloro che nel mondo sono detti felici, vogliano essere tali: credono che se essi giungessero in quella condizione non sarebbero più infelici.
É questo un modo di ragionare distorto, non cristiano, carico di cupidigia, non di fede.
Coloro che ragionano così ritengono che non ci sia per loro nulla dopo questa vita.
Io certo non dico: " É felice chi in questa vita abbonda di ogni bene ".
Lungi da me il dirlo, perché, se costui ritiene che non vi sia nulla dopo questa vita, non sarà mai felice.
La ragione e la verità ci convincono che nessuno qui può essere felice, parlo della felicità quale la giudica la sapienza, non quale la giudica l'avidità.
Ecco invece che ogni uomo, se io lo pongo di fronte a questo problema [ della felicità ] giudica che può essere felice.
Comincio dunque a domandargli se si trova uno felice sulla terra.
Premetto che non ritengo felice chi è sano, chi è ricco, chi è onorato, chi vive al sicuro con tutti i suoi; non questo affermo, ma piuttosto che è felice chi non sente bisogni inappagati.
Mi si può ribattere che il ricco è felice perché non è nel bisogno.
Ebbene costui, se veramente non è nel bisogno, non ha desideri.
Se invece ha desideri è segno che gli manca qualche cosa.
Tu tieni presente ciò che possiede, io invece interrogo i suoi desideri.
Come si può dire che non senta la mancanza di nulla colui a cui sembra poco quello che ha e desidera avere di più?
Tutto ciò che ha ammassato per possedere, è come una catasta di legna per un fuoco [ di desiderio che cresce ], non che sazia.
Se dunque quanto più possiede, tanto più desidera possedere, non dirò solo che è povero, ma che è più povero del mendicante.
Pochi denari infatti saziano il desiderio del mendicante.
Tutto il mondo non basta a saziare il desiderio dell'avaro.
Ma tu mi puoi rispondere facendomi l'esempio di qualcuno che non desidera avere più di quello che ha.
Se riuscirò a trovarlo lo loderò, molto mi rallegrerò con lui, perché ha posto misura a una cosa che non ha limiti; è riuscito a dire all'avidità: " Fin qui e basta ".
Grande forza, gran dominio della mente è infatti applicar misura, reprimere l'avido appetito, frenare la cupidigia, porre un termine alla veemente libidine del possesso.
Gran virtù, lo ammetto, gran virtù.
E tuttavia, secondo la definizione che davo della felicità, non lo considero ancora felice.
Chi ho detto che è felice? Chi non sente alcun bisogno.
E costui, poniamo, non è nel bisogno, abbonda di ogni cosa e non cerca di avere nulla di più.
Anche quando ancora insisto se veramente non vuole avere nulla di più, mi risponde che proprio non desidera possedere di più.
Ma a questo punto mi domando: " Non teme di perdere quello che ha?".
E la risposta è che, sì, teme.
Non si può dunque dire che non ha bisogno di nulla, perché se non desidera possessi, ha bisogno almeno di sicurezza.
E chi mai, in questo mondo, è in grado di assicurarlo che non possa andar perduto quello che possiede; da chi può prendere sicurezza riguardo a cose insicure ed effimere?
Molti andarono a letto ricchi e si alzarono poveri.
Nessuno può dargli questo tipo di sicurezza.
Lo sa anche lui e perciò ha timore.
Bisogna che egli cresca spiritualmente, che prenda forza, che gli venga maggior vigore, in modo che, come ha posto fine ai desideri, così non abbia più timore di perdere quello che possiede, rinsaldi il suo animo in modo che, anche se perdesse tutto, riesca a dire: Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo ritornerò alla terra.
Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; quello che a Dio piacque è avvenuto, sia benedetto il nome del Signore. ( Gb 1,21 )
Costui sì che fu un grande atleta di Dio perché ha lottato con un grande avversario.
Supponiamo che ci sia un uomo così magnanimo, tale da non inorgoglirsi di quel che possiede, né da avvilirsi se a un certo punto lo perde, ma sia tale che possegga come se non possedesse, tale che usi il mondo come se non lo usasse, ( 1 Cor 7,31 ) che abbia come sua grande ricchezza la stessa volontà del suo Signore [ ebbene egli è pronto a dire ], come colui che abbiamo sopra menzionato: Come al Signore piacque, così è avvenuto, sia benedetto il nome del Signore.
Essere ricco è volontà del mio Dio, essere povero è volontà del mio Dio.
Guardate in che modo egli realizza compiutamente ciò che tutti cantano e pochi fanno, e cioè: Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode. ( Sal 34,2 )
Che cosa significa: in ogni tempo? Significa: " Quando la sorte è buona e quando è cattiva ".
Questo significa in ogni tempo, cioè " sempre ".
É veramente ricco chi è ricco nell'intimo: non tanto nella sua casa quanto nei suoi pensieri; nella coscienza, non nello scrigno.
Questo tipo di ricchezza neanche il naufrago la può perdere.
Può uscire dai flutti nudo e pieno di ricchezza.
Abbiamo dunque trovato chi è felice?
Se felice è chi non patisce mancanza di nulla, un siffatto uomo, chiunque esso sia sulla terra, sarà lui il felice?
Ebbene io credo che scopriremo anche lui bisognoso perché se sente il bisogno di qualche cosa, non è ancora felice.
Ecco, egli è uno che non desidera possedere più di quello che ha e sa perdere senza inquietudine, non si esalta nella prosperità, non si abbatte nell'avversità.
Come si può non considerarlo felice?
Ebbene, se io finirò per trovarlo bisognoso, non mi arrischierò a proclamarlo felice.
Qualcuno dirà: " Dove puoi trovare un elemento che ti consenta di definire bisognoso un tale uomo?".
Lo trovo senza dubbio.
Se crede in Dio, è ancora nel bisogno, è ancora mendico di Dio.
Può anche avvenire che un tale uomo non dica nella preghiera: Liberaci dal male, ( Mt 6,13 ) bensì: " Sono nel bisogno ".
Di che cosa ha bisogno? Della vita eterna.
Questa ancora non l'ha e resta in mezzo alle tentazioni.
Proprio come è successo a Giobbe.
Egli era stato provocato ad amare Dio gratuitamente.
A questa provocazione lo aveva spinto il diavolo con la perdita di tutti i suoi beni e del conforto dei figli.
Gli aveva lasciato la sola moglie che però era tentatrice, non consolatrice.
Egli fu anche colpito da una grave forma di ulcere, dalla testa fino ai piedi, così che gli fu tolta anche la ricchezza del povero. ( Gb 1,12-2,10 )
La ricchezza del povero, infatti, è la salute; quando questa non c'è, anche al ricco è amaro tutto quello che ha.
Puoi trovare un povero a cui non risulti necessario il patrimonio del ricco, mai troverai un ricco a cui non risulti necessario questo patrimonio del povero.
Ebbene, Giobbe perse anche la ricchezza del povero, cioè la salute, afflitto com'era da grave forma di ulcere dalla testa fino ai piedi.
Tuttavia egli non fu indotto per questo a dire che Dio non fosse sapiente, o che Dio gli dispiacesse, pur essendo egli nella sventura.
Sempre Dio gli piacque.
La nuova Eva gli suggeriva bestemmie con l'istinto del serpente contro il quale egli invisibilmente lottava.
Di' qualche cosa - gli diceva - contro Dio e muori.
Ed egli ribatteva: Hai parlato come una donna stolta.
Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male? ( Gb 2,9.10 )
Lei era Eva ma lui non era Adamo.
Nel paradiso colui fu vinto.
In mezzo allo sterco costui vinse.
Tuttavia, in mezzo alle sue prove, disse a un certo punto: Non è forse [ tutta ] una tentazione la vita dell'uomo sulla terra? ( Gb 7,1 )
Essere costituito nella vita umana valeva per lui senza dubbio essere costitutivamente esposto alla tentazione.
Dalla tentazione egli voleva liberarsi.
Ecco dunque che anche lui sentiva il bisogno di una vita senza tentazioni.
Se aveva bisogno, non era ancora felice.
Perciò, qualunque situazione di essere felice tu mi ponga davanti, mi descriva, mi ritragga, puoi solo presentarmi una cosa desiderata, non una cosa trovata nella realtà.
Nessuno può essere felice su questa terra.
Di che cosa mi ero proposto di parlare? Della pazienza.
Questo mi ero proposto, se non ve ne siete dimenticati.
Qual grande bene sia la pazienza è reso comprensibile dal fatto che, in virtù di essa, sussiste ancora una felicità terrena.
Chi non possiede la pazienza, viene meno.
E chi viene meno lungo il cammino non giungerà alla sospirata patria.
Constatate la verità del detto che noi, nella nostra pazienza, possediamo le nostre anime. ( Lc 21,19 )
8 - Finché dunque viviamo sulla terra, viviamo all'insegna della pazienza, anche se ci troviamo nelle circostanze più felici.
Il morire lo temiamo tutti, o quasi tutti.
La malattia può esserci e può non esserci.
Temiamo la perdita dei nostri cari.
Si possono perdere e si possono anche non perdere.
Qualunque male tu tema su questa terra può capitare e può non capitare.
La morte non può non capitare.
Si potrà differire, ma non si può eliminare.
Per allontanarla nel tempo tutti si danno da fare, vigilano, si fortificano, chiudono le porte, navigano, arano.
In qualsiasi luogo si diano da fare in casa o fuori di casa, nel mondo, a questo mirano, a prorogare di un poco la morte, non ad abolirla.
Riflettete, carissimi, quanta fatica affrontino tutti gli uomini per morire un po' più tardi.
Se tanta fatica affrontiamo per morire un po' più tardi, quanto vale la pena di affrontarne, per non morire affatto?
E va detto che anche il timore della morte, con cui lotta ogni vita, va enumerato tra le cose da sopportare, da sostenere pazientemente.
Vedete infatti che cosa dice l'Apostolo: Noi sospiriamo come sotto un peso in questa terra, per il peso, appunto, della corruttibile carne, non volendo - dice - venirne spogliati, ma sopravvestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita. ( 2 Cor 5,4 )
" Siamo dunque appesantiti - dice - dal carico del corpo corruttibile, e sotto il peso di questo corpo sospiriamo e non vorremmo tuttavia esserne spogliati ".
Che significa che non vogliamo essere spogliati?
In sostanza che non vogliamo deporre cotesto cadavere sotto il cui peso sospiriamo.
Non lo vogliamo deporre.
O carico infelicemente dolce!
Noi sospiriamo - dice - sotto quel peso.
E allora deponilo volentieri, se il suo peso ti fa sospirare.
E invece: Non vogliamo esserne spogliati.
Ma perché? Per essere sopravvestiti.
Forse per portare due pesi? " Eh, no ".
Perché, dunque? Perché ciò che è mortale venga assorbito nella vita.
Vogliamo infatti giungere alla vita eterna.
Vogliamo giungere dove nessuno può ormai morire, ma, se fosse possibile, non attraverso la morte.
Vorremmo da vivi essere rapiti là e che da vivi il nostro corpo fosse mutato in quella forma spirituale in cui si muterà quando risorgeremo.
Chi non lo desidererebbe? Non lo vorrebbe ognuno?
E invece avviene che all'uomo, riluttante, si dice: " Emigra [ dal corpo ] ".
Ebbene, ricordati che hai cantato nel Salmo: Io sono straniero sulla terra. ( Sal 119,19 )
Se sei straniero sei in terra altrui.
E se sei in terra altrui quando il Signore lo comanda devi partire.
Ed è inevitabile che il Signore a un certo punto ti comandi di partire.
E non ti fissa il tempo della permanenza.
Non ha preso infatti un impegno scritto con te.
Dal momento che la tua permanenza è gratuita, essa scade al suo comando.
Anche queste sono cose che si devono sopportare e per cui è necessaria la pazienza.
Capiva ciò il servo [ della parabola ] a cui il padrone stava per comandare di uscire dall'amministrazione.
Egli pensò al futuro e disse fra sé: Il mio padrone mi toglie l'amministrazione.
Che cosa farò? A zappare non sono valido, mendicare mi vergogno.
Di là lo respinge la fatica, di qua la vergogna, ma a lui che era perplesso non mancò una decisione: Ho trovato - disse fra sé - quello che devo fare.
Chiamò i debitori del suo padrone, presentò [ loro ] le ricevute: Tu, dimmi, qual è il tuo debito?
E quello: Cento barili d'olio.
Siedi, presto, scrivi: cinquanta, prendi la tua ricevuta.
Poi disse ad un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano.
Siedi, presto, scrivi ottanta. Prendi la tua ricevuta. ( Lc 16,3-7 )
Diceva tra sé: " Quando il padrone mi avrà allontanato dall'amministrazione, essi mi accoglieranno presso di loro e il bisogno non mi costringerà né a zappare né a mendicare ".
10 - Perché mai il Signore Gesù Cristo raccontò questa parabola?
Non certo perché gli piacesse il servo ingannatore: egli frodava il suo padrone e disponeva di beni non suoi.
Per di più fece un furto sottile: portò danno al suo padrone, per assicurarsi, dopo l'amministrazione, un rifugio di tranquillità e di sicurezza.
Perché il Signore ci pose davanti agli occhi questo esempio?
Non perché il servo frodò, ma perché pensò al futuro; perché il cristiano che non ha accortezza si vergogni, dal momento che il progetto ingegnoso è lodato anche nell'ingannatore.
Infatti il brano così si conclude: I figli di questo mondo sono più scaltri dei figli della luce.
Compiono frodi per provvedere al loro futuro.
A quale vita pensò di provvedere quel fattore?
A quella a cui sarebbe giunto, dopo aver lasciato la condizione precedente per ordine del suo padrone.
Egli provvedeva a una vita che deve finire e tu non vuoi provvedere a quella eterna?
Dunque non amate la frode, ma, dice: Procuratevi amici con la iniqua mammona, procuratevi amici. ( Lc 16,8.9 )
" Mammona " è il termine ebraico per indicare " ricchezza ", e anche qui, in punico, il lucro è detto mamon.
Che cosa dobbiamo fare allora? Che cosa ha comandato il Signore?
Procuratevi amici con l'iniqua mammona, perché, quando verrete a mancare vi accolgano nelle dimore eterne. ( Lc 16,9 )
É facile dedurne che bisogna fare elemosine, elargire ai bisognosi, perché in essi è Cristo che riceve.
L'ha detto lui: Ogni volta che avete fatto [ queste cose ] a uno solo dei miei fratelli più piccoli, le avete fatte a me. ( Mt 25,40 )
E dice anche, altrove: Chiunque avrà dato anche un solo bicchiere d'acqua fresca a uno dei miei discepoli, in quanto mio discepolo, in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa. ( Mt 10,42 )
Abbiamo capito che bisogna fare elemosina senza stare lì molto a scegliere a chi farla, perché non si può arrivare a un giudizio delle coscienze.
Se la fai a tutti giungerai anche a quei pochi che la meritano.
Tu, pensiamo, vuoi praticare l'ospitalità e prepari la casa per i forestieri.
Ebbene, sia ammesso anche chi non ne è degno perché non sia escluso chi ne è degno.
Tu non puoi essere giudice ed esaminatore delle coscienze.
D'altra parte, anche se tu potessi discriminare: " Costui è cattivo, costui non è buono ", io aggiungerei: " Potrebbe perfino essere un tuo nemico ".
Se il tuo nemico ha fame dagli da mangiare. ( Rm 12,20 )
Se bisogna fare del bene anche al nemico, quanto più a uno sconosciuto che, anche se cattivo, non arriva tuttavia ad essere nemico.
Noi comprendiamo queste cose, cioè sappiamo che chi agisce così si procura gli amici che accoglieranno nelle dimore eterne, quando si sarà esonerati da questa " amministrazione ".
Siamo tutti come dei fattori infatti e ci è stato affidato qualcosa da fare in questa vita: di questo dobbiamo rendere conto al grande padre di famiglia.
E colui a cui è stato affidato di più dovrà rendere un conto maggiore.
La prima lettura che è stata fatta è di spavento a tutti, e specie a coloro che hanno preminenza sui popoli, siano i ricchi o siano i re, siano principi, siano giudici, siano anche vescovi o prelati nelle chiese.
Ciascuno renderà conto della sua amministrazione al Padre di famiglia.
L'amministrazione che si compie qui è temporanea, la ricompensa che ti dà l'economo è eterna.
Se noi condurremo questa amministrazione così da renderne conto in modo soddisfacente, possiamo essere sicuri che a incarichi minori faranno seguito incarichi maggiori.
Al servo che gli diede un buon resoconto della ricchezza che aveva ricevuto da distribuire, il padrone disse: Ora presiederai a cinque fondi. ( Lc 19,19 )
Se ci saremo comportati bene saremo chiamati a incarichi maggiori.
Ma poiché è difficile, in una vasta amministrazione, essere esenti da svariate mancanze, così non bisogna cessare di fare elemosine, in modo che al momento del rendiconto, non ci troviamo davanti a un giudice severo ma a un padre misericordioso.
Se infatti comincerà a esaminare una per una le cose, molte ne troverebbe da condannare.
Bisogna su questa terra essere di aiuto ai miseri perché avvenga in noi quello che è stato scritto: Beati i misericordiosi, poiché di essi Dio avrà misericordia. ( Mt 5,7 )
E in un altro luogo: Ci sarà un giudizio senza misericordia per chi non ha avuto misericordia. ( Gc 2,13 )
Procuratevi dunque amici. ( Lc 16,9 )
Ciascuno faccia secondo la sua possibilità.
Nessuno dica: " Sono povero ".
Nessuno dica: " Facciano i ricchi ".
Chi possiede di più dia di più con le sue maggiori sostanze.
Ma anche i poveri hanno qualcosa da dare.
Zaccheo era ricco, ( Lc 19,1-10 ) Pietro era povero. ( Gv 1,43 )
L'uno acquistò il regno dei cieli con metà delle sue ricchezze.
L'altro lo acquistò ugualmente con una rete da pescatore e una piccola barca.
Non c'è incompatibilità tra i due acquisti: se uno acquistò, l'altro non si trattenne dall'acquistare.
Non è così venale il regno di Dio che si possa verificare il caso che può comprarlo il primo ma non ne resta per il secondo.
Ecco, i nostri padri lo acquistarono e hanno lasciato a noi la possibilità di acquistarlo.
Forse che acquistiamo una cosa diversa? No, si tratta della stessa cosa.
Sempre la si acquista: è offerta in acquisto sino alla fine dei secoli.
Non puoi temere di essere escluso perché aumenta di prezzo.
Non può avvenire che tu debba dire: " Il tale può fare l'acquisto, ha la somma necessaria: tanto quanto io non ho ".
Ebbene colui che ti propone l'acquisto risponde così: " Porta quello che hai. Ti è sufficiente per fare l'acquisto anche tu ".
Ti ho detto che anche a Pietro fu sufficiente la sola piccola barca che aveva.
E fu sufficiente a quella vedova buttare tra le offerte al tempio due denari. ( Lc 21,4 )
Mise due soli denari e acquistò tutto.
Molto aveva messo chi non aveva assegnato nulla a se stessa.
E riguardo a ciò che ho detto prima, che cosa c'è di meno di un bicchiere d'acqua fresca?
Ebbene il regno dei cieli può avere anche quel prezzo.
Chi non ha barca e reti, chi non ha le ricchezze di Zaccheo, chi non ha neppure i due soldi che aveva la vedova, ha almeno un bicchiere d'acqua fresca. ( Mt 10,42 )
Credo che è stato aggiunto " fresca " perché non ti preoccupasse la legna per il riscaldamento.
Ma forse al momento non trovi neppure un bicchiere di acqua fresca da porgere a chi ha sete.
Non lo trovi, ma partecipi al disagio dell'assetato.
Dio vede quello che sta nell'intimo, la volontà del tuo cuore, non la possibilità di dare, nelle tue mani.
In questo caso hai acquistato anche tu, va' tranquillo.
Questo possesso si chiama pace.
Pace in terra agli uomini di buona volontà. ( Lc 2,14 )
Ma ritorniamo, fratelli, a ciò che avevamo accennato prima.
Che cosa significa: " Mammona d'iniquità "?
Qual è l'ammonimento che il Signore ci ha voluto dare?
Dobbiamo forse arrivare alla frode per avere ricchezza onde fare elemosina?
Molti lo fanno ma non agiscono bene.
Rubano molto e dànno qualcosa, credendo di aver rimesse le proprie colpe, come se così avessero corrotto il giudice.
É lieto colui a cui tu dai ma piange colui a cui togli.
Dio ha il suo ascolto a pari distanza [ tra i due ].
Presso di lui non c'è parzialità. ( Rm 2,2 )
E ascolta più quello che si lamenta contro di te che quello che ti ringrazia.
Nessuno dunque, per il fatto che il Signore ha nominato le ingiuste ricchezze, giunga alla persuasione che per fare elemosina si debba ricorrere a frodi, rapine, spogliazioni o altre cose illecite.
E allora perché ha detto: Fatevi degli amici con l'iniqua mammona? ( Lc 16,9 )
Non per altro, credo, fratelli, se non perché " l'iniqua mammona " è semplicemente l'oro, la ricchezza.
Diciamolo in latino: " ricchezze ", in modo che possiate capire.
Ci sono ricchezze vere e ricchezze false.
L'iniquità denomina ricchezze le ricchezze false, perché le vere ricchezze si trovano solo presso Dio.
Le vere ricchezze le hanno gli angeli che non hanno bisogno di nessuno.
Noi quelle ricchezze che figuriamo di avere, le cerchiamo come sostegno alla nostra infermità.
Se noi fossimo sani, cioè vivessimo nella immortalità che poi avremo, non cercheremmo queste ricchezze.
Queste false ricchezze l'iniquità le chiama semplicemente ricchezze.
Perciò è detto: " Procuratevi amici con le inique ricchezze ", non intendendosi ricchezze adunate con iniquità, ma ricchezze che l'iniquità chiama semplicemente ricchezze, pur non essendo vere ricchezze.
Udite in che modo dall'iniquità sono chiamate ricchezze queste che non sono vere ricchezze.
In un Salmo, a un certo punto, un uomo, che geme e vorrebbe essere liberato da alcuni figli di gente straniera, dice al Signore: Salvami dalla mano di gente straniera, la cui bocca parla vanità, la cui destra giura il falso.
Non parlano che di frodi e alle frodi si preparano coloro di cui è detto: La loro destra giura il falso.
Ma ne chiama o ne definisce qualcuno frodatore? Niente affatto.
Prosegue invece così: I loro figli sono come una piantagione nuova ben cresciuta, le loro figlie belle, ornate come un tempio.
I loro granai sono pieni, traboccano di frutti di ogni specie, i loro buoi sono ben pasciuti, le greggi feconde si moltiplicano nelle loro campagne.
Nessuna breccia, nessun clamore di guerra nelle loro piazze.
Qui è descritta una grande felicità temporale.
Dov'è l'iniquità? Dov'è la vanità?
Ascolta quel che segue: Beato è detto il popolo che possiede questi beni.
Ecco, abbiamo individuato l'iniquità: sta nel fatto di chiamare beato un popolo che abbonda di questi beni.
Non videro altra felicità, non cercarono l'altra felicità, quella vera.
Esaurirono tutta la loro capacità di desiderio nella felicità terrena.
Non vollero sollevare il cuore al di sopra.
Colui invece che soffre a causa loro e da loro vorrebbe essere liberato, che cosa dice?
Dopo aver parlato dell'iniqua gente straniera dice: Beato, dissero, il popolo che possiede tali beni, come se gli si domandasse: " Ma tu veramente chi devi considerare beato?".
Beato il popolo il cui Dio è il Signore. ( Sal 144,11-15 )
Ecco le vere ricchezze.
Le altre sono ricchezze d'iniquità.
Chi dunque possiede quelle ricchezze inique, si procuri amici prima di uscire da questa amministrazione.
Se con esse si sarà procurato degli amici, le avrà usate bene.
Non ha forse ricchezze? Ma egli ha anche altre ricchezze, quelle vere.
Egli considera ricchezza il suo Dio.
Ma chi è della terra, calpesta la terra.
E finisce per amare quelle ricchezze.
Disse il Signore a un tal ricco che amava molto i suoi possedimenti: " Ami ciò che possiedi?
Ebbene trasferiscili dove io ti prescrivo.
Non voglio che tu subisca perdite ".
Come è possibile ciò? Accumulatevi tesori nel cielo, dove ladri non scassinano né tignola consuma. ( Lc 12,23; Mt 6,20 )
Amando le tue ricchezze le perderai.
Trasferiscile dove non le puoi perdere. Riponile lì dove arriverai anche tu.
Dunque è stato detto: Procuratevi amici con le inique ricchezze, perché essi vi accolgano nelle dimore eterne. ( Lc 16,9 )
Sia spiegato così questo pensiero.
Supponi che quella ricchezza iniqua provenga da frodi.
Se l'è procurata tuo padre con l'usura.
Ti ha fatto ricco.
Tu certo non approverai l'usura di tuo padre, non vuoi essere erede dell'iniquità, ma sei erede del denaro dell'iniquità.
Non imiterai tuo padre praticando l'usura.
Ma in casa c'è quella grande ricchezza.
Procurati dunque amici con l'ingiusta ricchezza, non in quanto ora tu compia frodi e dal ricavato di esse elargisca, ma perché tu dia quello che già si trova, per la frode, ammassato.
Se tuo padre sapeva rubare, tu sappi donare.
16 - A che cosa si allude quando si parla del cinquanta per cento, dell'ottanta per cento?
Il cinquanta per cento è la metà, e ciò fece Zaccheo: Dò la metà dei miei beni ai poveri. ( Lc 19,8 )
L'ottanta per cento corrisponde a due decime.
Infatti dare venti su cento in modo che rimanga ottanta è dare due decime.
Essi usavano dare una decima.
Ma il Signore disse nel Vangelo: Se la vostra giustizia non supererà quella dei farisei e degli scribi, non entrerete nel regno dei cieli. ( Mt 5,20 )
Se dunque la giustizia dei farisei e degli scribi consisteva nel dare una decima, come può essere superiore la tua se non dài almeno due decime?
Tu ti procuri dunque degli amici, porti avanti la tua speranza, coltivi il desiderio, tolleri con pazienza la condizione presente, prospera o avversa, perché cosa da tollerare qui è anche la felicità, per chi cerca la felicità che sorpassa quella terrena.
La si tollera infatti perché, fino a quando siamo in cammino, va considerato tra i mali tutto ciò che ci trattiene dal nostro Dio.
Sostiene anzi maggior lotta l'animo che combatte contro la felicità, per non lasciarsene corrompere, che contro la sfortuna per non lasciarsene abbattere.
A prezzo di questa pazienza, finito il mondo o finita la nostra vita, mèta non lontana, al cui termine si va ciascuno avvicinando, saremo tranquilli nelle dimore eterne, poiché ci siamo fatti degli amici con " le ricchezze inique ".
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