Esposizione dei Salmi |
Nel salmo che stiamo esponendo siamo arrivati alle parole: Distogli i miei occhi dal vedere la vanità, nella tua via ridammi vita.
Diametralmente opposte sono fra loro vanità e verità.
Il mondo con le sue cupidige è vanità; la verità invece è Cristo, che ci libera dal mondo.
Egli è anche la via, nella quale il salmista si augura d'essere vivificato, in quanto il medesimo Cristo è anche la vita.
Diceva infatti: Io sono la via, la verità e la vita. ( Gv 14,6 )
Ma che significa: Distogli i miei occhi dal vedere la vanità?
È mai possibile, finché siamo in questo mondo, non vedere la vanità, se sta scritto: Ogni creatura è soggetta alla vanità? ( Rm 8,20 )
Da queste parole si comprende che la vanità è nell'uomo, anzi, tutto è vanità.
Cosa ne viene all'uomo da tutti i lavori che affronta sotto il sole? ( Qo 1,2-3 )
Pregherà forse il salmista perché la sua vita non trascorra sotto il sole, dove ogni cosa è vanità, ma sia [ nascosta ] in colui presso il quale chiede di trovare la vita?
E difatti Cristo ascese non solamente al di sopra del sole ma sopra tutti i cieli per riempire ogni cosa; ( Ef 4,10 ) e in lui, non nell'orbita del sole, vivono quanti ascoltano fruttuosamente l'esortazione dell'Apostolo: Cercate le cose di lassù, dove è Cristo, assiso alla destra del Padre; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Poiché siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. ( 1 Col 3,1 )
Pertanto, se la nostra vita è là dov'è la verità, non sarà sotto il sole, dove regna la vanità.
Purtroppo però di una meta così luminosa abbiamo soltanto la speranza, non il possesso effettivo; e le parole che diceva l'Apostolo le diceva contemperandosi alla nostra speranza.
Tant'è vero che anche in quell'altro testo: La creazione è soggetta alla vanità, egli si sentì in dovere di aggiungere [ la precisazione ]: Non per sua scelta ma a causa di colui che ve la sottopose nella speranza. ( Rm 8,20 )
Provvisoriamente quindi noi siamo soggetti alla vanità, anche se abbiamo la speranza che un giorno contempleremo la verità e le saremo totalmente uniti.
Difatti tutta la creazione di cui l'Apostolo parla, cioè tanto gli esseri spirituali quanto quelli materiali, animati o no, si ritrovano nell'uomo, o meglio sono l'uomo.
La creazione quindi peccò deliberatamente e divenne nemica della verità e per questo fu giustamente punita divenendo, sia pure contro sua voglia, soggetta alla vanità.
Continua infatti, dopo un poco, l'Apostolo: Né soltanto essa, ma anche noi stessi, che pure abbiamo le primizie dello spirito. ( Rm 8,23 )
Cioè: per quanto non ancora con tutto il nostro essere ma soltanto con quella porzione che ci rende superiori ai bruti, cioè con le primizie dello spirito, noi siamo soggetti a Dio, non alla vanità.
Nonostante questo, però, anche noi gemiamo aspettando l'adozione, cioè la redenzione del nostro corpo.
Nella speranza siamo stati salvati ma quando quel che si spera si vede, codesta non è più speranza; perché chi già vede una cosa, come fa a sperarla ancora?
Che se invece speriamo quel che non vediamo, allora l'aspettiamo con pazienza. ( Rm 8,25 )
Finché dunque siamo sulla terra e portiamo il corpo di carne ( quel corpo di cui, con la pazienza che è frutto della speranza, aspettiamo l'adozione e la redenzione ), finché cioè viviamo sotto il sole, per questi elementi condizionati dal tempo noi siamo soggetti alla vanità.
Sorge allora la domanda: Finché siamo in tali condizioni, come possiamo non vedere la vanità se ad essa, sia pure sorretti dalla speranza, siamo sottoposti?
E come intendere le parole del salmo: Distogli i miei occhi affinché non vedano la vanità?
Non chiederà per caso che le sue aspettative si adempiano non in questa vita, che è all'insegna della speranza, ma quando a suo tempo si troverà nella sorte felice di veder realizzate le sue aspirazioni?
Quando cioè egli sarà liberato dall'asservimento alla corruzione e con lo spirito, l'anima e il corpo entrerà nella libertà gloriosa dei figli di Dio, ( Rm 8,21 ) dove finalmente non avrà più da vedere la vanità?
In effetti le parole del salmo si potrebbero intendere in questa maniera, né sarebbe questa una interpretazione contraria alla norma della fede.
Tuttavia il testo è suscettibile d'un'altra spiegazione che, lo dico francamente, a me piace di più.
Dice il Signore nel Vangelo: Se il tuo occhio è limpido tutto il tuo corpo sarà luminoso.
Se invece il tuo occhio è torbido tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre.
Se dunque la luce che è in te è oscurità, quanto grandi saranno le tenebre! ( Mt 6,22-23 )
È di somma importanza, cioè, che noi, quando compiamo un'opera buona, badiamo al fine in vista del quale la compiamo.
Infatti il nostro dovere si valuta non sulla base dell'opera compiuta ma sul fine per cui la si compie.
In altre parole, dobbiamo pensare non soltanto se sia buona l'opera compiuta ma anche, e soprattutto, se sia buono il fine per cui la compiamo.
Ora il salmista prega che siano distolti dalla vanità ( cosicché non la vedano ) quegli occhi con i quali fissiamo le finalità che ci proponiamo nel nostro agire.
Non vuole essere incantato dalla vanità né agire per suo influsso, allorché compie il bene.
Nella vanità poi occupa il primo posto la ricerca del plauso degli uomini.
Per suo amore compirono gesta notevoli coloro che passano come i grandi del mondo e che nel mondo pagano hanno riscosso i più grandi elogi.
Essi ambivano la gloria non presso Dio ma presso gli uomini, e per ottenerla vissero con prudenza, fortezza, temperanza e giustizia.
La raggiunsero di fatto e ne ricevettero adeguata ricompensa.
Essendo vani, la loro ricompensa fu la vanità, quella vanità da cui il Signore voleva fossero distolti gli occhi dei suoi fedeli.
Per questo diceva: Badate a non compiere le vostre opere buone dinanzi agli uomini per essere veduti da loro, altrimenti non ne avrete la ricompensa dal Padre vostro che è nei cieli. ( Mt 6,1 )
Scende poi ad aspetti particolari della giustizia stessa e imparte precetti riguardo all'elemosina, all'orazione e al digiuno; ma sempre ammonisce di non agire con l'intenzione di ottenere la lode degli uomini.
Anzi afferma che chi si comporta in questa maniera ha già ricevuto la sua ricompensa.
Non otterrà quindi la ricompensa eterna che è riservata ai santi presso il Padre, ma la ricompensa di cui vanno a caccia coloro che nelle loro opere si prefiggono la vanità.
Non che sia da disapprovarsi la lode umana in se stessa ( cos'altro mai infatti dovrebbero desiderare gli uomini se non il piacere di quelle cose cui debbono conformare la propria vita? ); ma il compiere il bene in vista del plauso degli uomini, questo è un agire da persone incantate dalla vanità.
Che se al giusto viene tributata dai propri simili una qualche lode, piccola o grande che sia, egli non deve fare di essa il fine del suo retto agire, ma la stessa lode che riceve deve essere riferita a lode di Dio, per dono del quale compiono il bene coloro che sono veramente buoni.
Se infatti sono buoni, non lo sono di per se stessi ma per un dono del Signore.
Lo segnalava nello stesso discorso il Signore, quando ai discepoli diceva: Risplenda la vostra luce dinanzi agli uomini, in modo tale che vedendo le vostre opere buone diano gloria al Padre vostro che è nei cieli. ( Mt 5,16 )
Ecco il fine che ci propone: la gloria di Dio, e a tal fine dobbiamo noi mirare quando compiamo il bene, se vogliamo che i nostri occhi siano effettivamente distolti dalla vanità.
Quindi, il fine per cui agiamo bene non sia mai quello di ottenere il consenso degli uomini; e se dalla gente ci vengono elogi, indirizziamoli a chi di dovere: riferiamo ogni cosa a lode di Dio, da cui ci viene tutto quello che la gente, senza sbagliarsi, trova in noi di lodevole.
Ma c'è di più. Se è vano compiere il bene per conseguire il plauso degli uomini, quanto più lo sarebbe se lo si compisse per ricavarne denaro, per accumulare tesori o conservarne la proprietà o per ottenere un qualche altro vantaggio, sempre d'ordine materiale, che ci toccasse solo dall'esterno?
Veramente tutto è vanità e quale vantaggio ha l'uomo da tutta la sua fatica con cui si affanna sotto il sole? ( Qo 1,2-3 )
Nel fare il bene non dobbiamo avere come movente nemmeno la nostra salute corporale, ma la salvezza che speriamo nella eternità, quando godremo del bene immutabile: bene che ci sarà donato da Dio, che anzi sarà Dio stesso.
Se infatti i santi di Dio avessero compiuto il bene per amore della loro salute corporale, non si sarebbero mai avuti i martiri di Cristo che per compiere l'opera buona della loro professione di fede sacrificarono la loro stessa vita.
Essi al contrario ricevettero la forza dalla tribolazione né volsero lo sguardo alla vanità, considerando vana la stessa salute fisica dell'uomo. ( Sal 60,13 )
Non si attaccarono [ smodatamente ] al giorno dell'uomo, ( Ger 17,16 ) perché l'uomo rientra nella dimensione della vanità e i suoi giorni passano come ombra. ( Sal 144,4 )
Fra le cose che, a quanto sembra, sono in nostro potere c'è la facoltà di distogliere gli occhi perché non si posino sulla vanità.
Se quindi si prega Dio affinché ci conceda tale riuscita, cos'altro si fa se non sottolineare l'apporto della sua grazia?
Ci sono stati infatti certuni che ritenevano di poter diventare giusti e buoni con le loro proprie forze.
In tal modo però essi non distoglievano gli occhi dalla vanità.
Preferivano alla gloria di Dio la gloria umana: ( Gv 12,43 ) erano uomini e per di più uomini infatuati di se stessi e presuntuosi delle capacità del proprio libero arbitrio.
Ma tutto questo è vanità e presunzione di spirito. ( Qo 6,9 )
Al riguardo ha detto il salmista: Distogli i miei occhi affinché non vedano la vanità; nella tua via fammi vivere.
E siccome la via [ di Dio ] non è vanità ma verità, eccolo soggiungere: Conferma nel tuo servo la tua parola affinché progredisca nel tuo timore.
Cosa significa questa invocazione se non: " Dammi la forza di eseguire ciò che mi ordini? ".
La parola di Dio infatti non è stabile in coloro che se la scrollano di dosso e la trasgrediscono, ma in coloro che l'osservano costantemente.
Dio, comunque, conferma la sua parola, sicché conduce al [ possesso del ] suo timore, in coloro ai quali dà lo spirito di questo suo timore: non quel timore di cui l'Apostolo dice: Voi non avete ricevuto lo spirito di servi per cui dobbiate ancora essere nel timore ( Rm 8,15 ) ( il quale timore viene escluso dalla carità perfetta ( 1 Gv 4,18 ) ), ma quel timore che il Profeta chiama spirito del timore di Dio. ( Is 11,3 )
È un timore casto, un timore che rimane in eterno. ( Sal 19,10 )
È il timore per il quale si teme di offendere la persona amata.
Diverso infatti è il timore che hanno nei riguardi del marito la moglie adultera e la moglie casta: la prima teme che torni a casa, la seconda teme che se ne vada e la lasci sola.
Dice: Fa' cessare il mio disonore che io ho sospettato, perché i tuoi giudizi sono soavi.
Chi può nutrire sospetti nei riguardi d'un disonore personale e non piuttosto esserne pienamente consapevole?
Ciascuno infatti ben conosce il suo disonore, a differenza di quello altrui: per cui, se si può sospettare sul conto degli altri, non si può fare altrettanto quando si tratta di noi stessi, poiché il sospetto implica ignoranza e quindi in fatto di disonore personale, essendoci l'attestato della coscienza, c'è piena cognizione e non un vago sospetto.
Quale allora il significato delle parole: Fa' cessare il mio disonore che io ho sospettato?
Occorre ricavarlo dal testo precedente.
In effetti, quando uno non distoglie gli occhi dal fissare la vanità, sospetta sempre che negli altri capiti la stessa cosa che avviene in lui.
E cioè: siccome lui serve Dio e compie il bene per secondi fini, immagina che per gli stessi motivi agiscano anche gli altri.
Questo succede perché gli estranei, se possono osservare le azioni che compiamo, rimane loro nascosto il motivo per il quale le compiamo.
Da qui i sospetti. L'estraneo si sente autorizzato a sentenziare su ciò che non conosce del suo prossimo e quindi formula sospetti che il più delle volte si rivelano falsi o, se veri, riguardano cose sconosciute, per cui il sospetto è temerario.
Ascoltiamo il Signore. Parlando del fine per il quale dobbiamo compiere la nostra giustizia, egli volle impedire che i nostri occhi fissassero la vanità, e per questo ci proibì di compiere il bene per ottenere lodi dagli uomini.
Diceva: Badate di non fare le vostre opere buone dinanzi agli uomini per essere veduti da loro.
Ci proibì ancora di essere giusti per accumulare ricchezze, dicendo: Non ammassate tesori sulla terra; e ancora: Voi non potete servire Dio e mammona.
Anzi, giunse a direi che nemmeno per procurarci le cose indispensabili come il vitto e il vestito dobbiamo compiere il bene.
Non preoccupatevi - diceva - per la vostra vita di cosa mangerete né per il vostro corpo di cosa vestirete. ( Mt 6,1.19.24-25 )
Dopo tutte queste prescrizioni aggiunse: Non giudicate per non essere voi stessi giudicati. ( Mt 7,1 )
Motivo di questa aggiunta è da ricercarsi nel fatto che noi quando vediamo gli altri compiere il bene, non sapendo con quale intenzione lo facciano, potremmo sospettare che nelle opere buone siano animati da finalità mondane.
Non diversamente il salmista.
Avendo detto: Fa' cessare il mio disonore che io ho sospettato, aggiunge: poiché, i tuoi giudizi sono soavi, cioè: i tuoi giudizi sono veri.
Da innamorato della verità egli grida che quanto è vero è anche soave; mentre i giudizi degli uomini nei confronti dei propri simili e dei loro segreti sono temerari e quindi non soavi.
Se pertanto egli parla d'un suo disonore che ha sospettato negli altri, è perché c'è della gente che non capisce le parole dell'Apostolo che deplora chi confronta sé con se stesso. ( 2 Cor 10,12 )
E in realtà l'uomo propende a sospettare negli altri quel che riscontra in se stesso.
Questo disonore, che aveva avvertito in se stesso e sospettato negli altri, chiede ora il salmista che gli venga tolto, per non diventare simile al diavolo che, volendo penetrare nell'intimo del santo Giobbe, avanzò il sospetto che egli onorasse Dio per secondi fini.
Tant'è vero che chiese il permesso di tentarlo per trovare una colpa da rinfacciargli. ( Gb 1,9 )
Chi fa avanzare sospetti ( e talvolta anche volentieri ) sul disonore del prossimo altri non è se non l'invidia.
È lei che, non potendo attaccare l'opera buona in se stessa in quanto è manifesta e la si può controllare, attacca il motivo per cui è stata compiuta: il quale, per essere occulto, sfugge a ogni controllo.
Può quindi a suo agio sospettare male di chi le pare e piace, dal momento che non vede ciò che è di natura sua occulto, mentre ha in uggia ciò che le è superiore.
Contro questo vizio, che porta l'uomo a sospettare nell'altro il male che non vede, occorre avere la carità, la quale non è invidiosa. ( 1 Cor 13,4 )
Tale carità inculcava, come precetto fondamentale, nostro Signore quando diceva: Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri.
E ancora: Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se vi amerete scambievolmente. ( Gv 13,34-35 )
Unificando poi l'amore di Dio e l'amore del prossimo diceva: In questi due comandamenti si compendia tutta la Legge e i Profeti. ( Mt 22,40 )
Anche il salmista desidera che gli venga reciso il disonore del suo sospetto, e per questo dice: Ecco, io ho amato i tuoi comandamenti; nella tua giustizia fammi vivere.
Ecco, ho desiderato amare te con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente; ho desiderato amare il mio prossimo come me stesso.
Nella tua giustizia fammi vivere, non nella mia.
Cioè: riempimi di carità, della quale io ho desiderio.
Aiutami a praticare ciò che mi inculchi; dammi tu stesso quel che mi comandi.
Nella tua giustizia fammi vivere: poiché io ho trovato in me di che morire ma di che vivere non lo trovo se non in te.
La tua giustizia è Cristo, il quale da Dio è stato reso per noi e sapienza e giustizia e santificazione e redenzione, affinché, come sta scritto, chi si gloria si glori nel Signore. ( 1 Cor 1,30-31 )
In lui trovo i tuoi precetti, che io ho desiderato affinché tu nella tua giustizia, cioè in Cristo, mi conducessi alla vita.
Egli infatti è il Verbo, è Dio, e se egli, il Verbo, si è fatto carne. ( Gv 1,14 )
Vi Si è fatto per essermi vicino.
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