La Genesi difesa contro i Manichei |
Il serpente invece è simbolo del diavolo che certamente non era semplice.
Per il fatto che, viene chiamato la più accorta di tutte le bestie viene indicata allegoricamente la sua astuzia.
La Scrittura però non dice che il serpente fosse nel paradiso ma ch'esso era tra le bestie create da Dio.
Il paradiso infatti - come ho detto più sopra4 - simboleggiava la felicità di cui era privo il serpente perché era già il diavolo, ed era già decaduto dalla sua felicità in quanto non era rimasto saldo nella verità.
Non dobbiamo nemmeno stupirci che potè parlare alla donna quando costei si trovava nel paradiso, mentre egli non c'era.
Essa infatti non era nel paradiso per quanto riguarda la località ma piuttosto per quanto si riferisce al sentimento della felicità.
Oppure, anche se c'è una località siffatta, chiamata paradiso, in cui abitavano Adamo e sua moglie con il loro corpo, dobbiamo forse pensare che il diavolo si avvicinasse fisicamente alla donna?
No di certo, ma le si avvicinò con lo spirito, come dice l'Apostolo: Seguendo il principe delle potenze dell'aria, lo spirito che adesso agisce negli uomini ribelli. ( Ef 2,2 )
Appare dunque forse visibilmente oppure si avvicina, per così dire, attraverso lo spazio fisico a coloro nei quali egli agisce?
No di certo, ma in modi sorprendenti e per mezzo d'immaginazioni ispira loro tutto ciò di cui è capace.
Queste sue ispirazioni sono respinte da coloro che affermano veracemente ciò che afferma ugualmente l'Apostolo: Noi infatti non ignoriamo le sue macchinazioni. ( 2 Cor 2,11 )
Orbene, in qual modo si avvicinò a Giuda, quando lo persuase a tradire il Signore?
Apparve a lui forse in un luogo oppure attraverso la vista?
È però certo che, come dice il Vangelo, il diavolo entrò nel suo cuore. ( Lc 22,3 )
L'uomo tuttavia lo respinge se custodisce il paradiso.
Dio infatti pose l'uomo nel paradiso per lavorarlo e custodirlo poiché così è detto della Chiesa nel Cantico dei cantici: Giardino chiuso, sorgente sigillata, ( Ct 4,12 ) in cui certamente non è ammesso il persuasore della perversità.
Egli tuttavia inganna servendosi della donna, poiché anche la nostra ragione non può essere spinta ad acconsentire al peccato se non quando il piacere viene eccitato nella parte dell'anima che deve ubbidire alla ragione come alla sua guida.
Anche adesso rispetto a ciascuno di noi, quando cade in peccato, non avviene nient'altro se non quanto avvenne allora riguardo a quei tre esseri: il serpente, la donna e l'uomo.
Ebbene, dapprima ha luogo la suggestione prodotta dall'immaginazione o dai sensi fisici mediante la vista o il tatto o l'udito o il gusto o l'odorato; se in seguito alla suggestione la nostra passione non sarà spinta a peccare, verrà respinta la macchinazione del serpente; se invece si lascerà spingere a peccare, sarà come se la donna fosse stata persuasa.
Talvolta però la ragione raffrena e reprime virilmente anche la passione eccitata.
Quando avviene ciò, noi non cadiamo in peccato, ma dopo un po' di lotta veniamo premiati.
Se invece la ragione acconsente e decide di fare ciò a cui la spinge la passione, l'uomo viene espulso dalla felicità come se fosse scacciato dal paradiso.
Bisogna ora considerare attentamente in che modo il serpente persuase a commettere il peccato, poiché ciò soprattutto riguarda la nostra salvezza; questi avvenimenti infatti sono stati narrati dalla Scrittura appunto perché li evitassimo.
Dopo che, al serpente, che le aveva chiesto che cosa era stato loro comandato, la donna aveva risposto, quello disse: Voi non morirete affatto; Dio anzi sapeva che il giorno che ne avreste mangiato si sarebbero aperti i vostri occhi e sareste diventati come dèi, conoscitori del bene e del male. ( Gen 3,4-5 )
Da queste parole si vede che il peccato fu persuaso eccitando la superbia.
È questo ciò che vuol dire la frase: Sarete come dèi.
Così pure la frase: Dio anzi sapeva che il giorno che ne avreste mangiato si sarebbero aperti i vostri occhi, in che senso va intesa se non che furono persuasi di rifiutare di star sottomessi a Dio ma d'esser piuttosto padroni di se stessi facendo a meno del Signore per non osservare la sua legge, come se Dio fosse geloso che si governassero da se stessi senza sentir bisogno della sua luce interiore, bensì servendosi della loro prudenza personale come dei loro propri occhi al fine di distinguere il bene dal male, cosa questa che Dio aveva proibito?
Di questo dunque si lasciarono persuadere, di amare cioè oltremisura il proprio potere, di voler essere uguali a Dio e di far cattivo uso, un uso cioè contrario alla legge di Dio, della loro condizione intermedia - simile al frutto dell'albero situato in mezzo al paradiso -, condizione per cui erano soggetti a Dio e tenevano sottomesso il proprio corpo; e in tal modo perderono ciò che avevano ricevuto volendo appropriarsi ingiustamente di ciò che non avevano ricevuto.
La natura umana infatti non ha ricevuto la proprietà d'esser felice grazie al proprio potere senz'esser governata da Dio, poiché soltanto Dio può esser felice grazie al suo proprio potere senz'essere governato da nessuno.
15.23 La donna - dice la Scrittura - vide che l'albero era buono a mangiarsi e piacevole agli occhi per essere veduto e per acquistare conoscenza. ( Gen 3,6 )
In qual modo riusciva a vedere se aveva gli occhi chiusi?
La Scrittura però dice così per farci intendere che, dopo aver mangiato di quel frutto, ai progenitori si aprirono quegli occhi con cui si vedevano nudi e sentivano dispiacere di se stessi, cioè gli occhi dell'astuzia, ai quali dispiace la semplicità.
Quando infatti uno decade dalla luce interiore della verità, percepibile solo nella coscienza, non c'è null'altro di cui la superbia desideri compiacersi se non d'imposture piene d'inganni.
Di qui deriva anche l'ipocrisia per cui si reputano molto avveduti coloro che possono ingannare chi vogliono.
La donna infatti ne diede a suo marito e ne mangiarono e i loro occhi - di cui si è già parlato - si aprirono; allora videro d'essere nudi ma con gli occhi perversi, ai quali sembrava vergogna la semplicità ch'era indicata col termine di nudità.
Per questo, non essendo più semplici, si fecero delle cinture con foglie di fico intorno ai fianchi per coprire in certo qual modo le loro parti vergognose, cioè per nascondere la semplicità, di cui si vergognava ormai l'astuta superbia.
Le foglie di fico invece sono simbolo di un certo qual prurito, se così può dirsi ragionevolmente riguardo a realtà incorporee, prurito che l'anima prova in modi strani per il desiderio e il piacere di mentire.
Ecco perché in latino si chiamano salsi cioè "salaci" o "mordaci" coloro che sono soliti burlare.
Nelle burle poi la finzione occupa il primo posto.
Quando pertanto Dio passeggiava nel paradiso verso sera, ( Gen 3,8 ) cioè allorché andava appunto a giudicarli, ancor prima di dar loro il castigo, passeggiava nel paradiso, si muoveva cioè, per così dire, in loro la presenza di Dio, dal momento ch'essi non erano più fermi nell'osservanza del suo precetto.
Opportunamente poi la Scrittura dice: verso sera, cioè quando ormai il sole tramontava per loro, veniva cioè tolta loro la luce interiore della verità; allora udirono la sua voce e si nascosero alla sua vista.
Chi è che si nasconde allo sguardo di Dio se non chi, dopo averlo abbandonato, ama ormai solo ciò ch'è suo?
Già infatti erano coperti dei veli della menzogna; chi dice il falso dice ciò ch'è suo. ( Gv 8,44 )
Ecco perché la Scrittura dice che si nascosero presso l'albero, ch'era in mezzo al paradiso, cioè si nascosero presso se stessi ch'erano stati posti al centro delle cose, al di sotto di Dio e al di sopra degli esseri materiali.
Si nascosero dunque presso di se stessi rimanendo turbati da funesti errori avendo abbandonato la luce della verità, luce che essi non erano.
L'anima umana infatti può essere partecipe della verità ma la verità autentica in persona è Dio immutabile ch'è al di sopra dell'anima.
Colui dunque che si allontana dalla verità, ch'è Dio, e si volge verso se stesso ed esulta non di Dio che lo guida e lo illumina ma dei propri moti come se fossero liberi, rimane ottenebrato dalla menzogna, poiché chi dice il falso dice una cosa che proviene dal proprio essere e in tal modo si turba dimostrando la veridicità del detto del Profeta che dice: Entro di me è turbata l'anima mia. ( Sal 42,7 )
Per questo viene allora interrogato Adamo, non perché Dio ignorasse dov'era, ma per costringerlo a confessare il peccato.
Neppure nostro Signore Gesù Cristo ignorava tante cose su cui faceva domande.
Ora, Adamo, udita la voce di Dio, rispose di essersi nascosto perché era nudo.
Egli rispose proprio con un errore assai funesto, come se Dio avesse potuto provare dispiacere che Adamo fosse nudo come lo aveva fatto lui stesso.
È invece caratteristico dell'errore il fatto che si creda faccia dispiacere anche a Dio ciò che dispiace a uno qualunque di noi.
Bisogna però intendere in un senso molto più alto ciò che dice il Signore: Chi ti ha fatto sapere che eri nudo se non perché hai mangiato dell'albero del quale soltanto ti avevo proibito di mangiare? ( Gen 3,11 )
Era infatti nudo della simulazione ma rivestito della luce divina.
Essendosi allontanato da questa e voltosi a se stesso - questo significava l'aver mangiato di quell'albero - s'accorse della propria nudità e provò dispiacere di non aver nulla di proprio.
In seguito, proprio come suole fare la superbia, Adamo non accusa se stesso d'aver acconsentito alla donna, ma rigetta la propria colpa sulla donna e in tal modo, scaltramente, per così dire, con l'astuzia concepita dal miserabile, cercò d'imputare a Dio stesso il proprio peccato.
Poiché non disse: "È stata la donna a darmi il frutto", ma: La donna che tu mi hai data. ( Gen 3,12 )
Nulla poi è tanto abituale ai peccatori che cercare d'attribuire a Dio qualsiasi colpa di cui sono accusati, cosa questa che deriva dal sentimento della superbia.
Poiché l'uomo peccò volendo essere uguale a Dio, cioè libero dal suo dominio come è libero da ogni dominio Lui stesso, essendo il Signore di tutti, ma dato che non potè essere uguale a Lui nel potere supremo, essendo ormai caduto e giacendo abbattuto nel proprio peccato, cercherebbe di fare Dio uguale a se stesso; o meglio pretende dimostrare che fu Lui a peccare e ch'egli invece è innocente.
Anche la donna, allorché viene interrogata, rigetta la colpa sul serpente, come se l'uomo avesse ricevuto la moglie per ubbidire a lei e non piuttosto per renderla ubbidiente a sé, o come se la donna non avesse potuto osservare il precetto di Dio anziché dare ascolto alle parole del serpente.
Il serpente, infine, non viene interrogato ma viene castigato per primo perché non è in grado di confessare il peccato né ha assolutamente la possibilità di scusarsi.
La Scrittura non parla, adesso, della condanna del diavolo riservata al giudizio finale, della quale parla il Signore quando dice: Andate nel fuoco eterno preparato per il diavolo e gli angeli suoi, ( Mt 25,42 ) ma parla del suo castigo, per il quale dobbiamo guardarci da lui.
Il suo castigo infatti consiste nell'avere in suo potere coloro che disprezzano i precetti di Dio.
Ciò viene spiegato dalle parole con cui è pronunciata la condanna contro di lui; il suo castigo inoltre è più grave per il fatto che si rallegra di un potere tanto funesto lui che, prima di cadere, soleva godere della sublime verità in cui non è restato saldo.
Per questo motivo, al di sopra di lui sono poste le bestie, non riguardo al potere ma alla conservazione della propria natura, poiché le bestie non hanno perso alcuna felicità celeste, che non avevano mai avuta ma continuano a vivere nella natura che hanno ricevuta.
Dio dunque gli dice: Striscerai sul petto e sul ventre. ( Gen 3,14 )
Questo si nota, veramente, anche nella biscia, ma l'espressione è trasferita allegoricamente da quell'essere animato visibile a questo nostro avversario.
Con il termine "petto" è infatti simboleggiata la superbia, poiché è lì che domina la passione dell'ira; con il termine "ventre" è invece simboleggiato il desiderio carnale essendo questa la parte che si percepisce più molle nel corpo.
E poiché mediante queste passioni il serpente striscia verso coloro ch'è solito ingannare, perciò la Scrittura dice: Striscerai sul petto e sul ventre.
E mangerai la terra - è detto - tutti i giorni della tua vita, ( Gen 3,15 ) cioè tutti i giorni in cui eserciterai questo potere prima del castigo nell'ultimo giudizio: questa infatti sembra la vita di cui egli gode e si vanta.
Mangerai la terra lo si può dunque intendere in due sensi: cioè o a te appartengono coloro che tu ingannerai con le passioni terrene, cioè i peccatori simboleggiati dal termine "terra", oppure queste parole indicano un terzo genere di tentazione, cioè la curiosità.
Chi infatti mangia la terra penetra in luoghi profondi e tenebrosi ma tuttavia temporali e terreni.
L'inimicizia però è posta non tra il demonio e l'uomo, bensì tra lui e la donna.
Forse perché il demonio non inganna e non tenta gli uomini? È, al contrario, evidente che li inganna.
Forse perché egli non ingannò proprio Adamo ma sua moglie?
Forse non è nemico di lui, ch'egli arrivò ad ingannare per mezzo di sua moglie, soprattutto perché è riguardo al futuro che Dio dice: Porrò inimicizia tra te e la donna? ( Gen 3,15 )
Se poi si adduce il motivo che in seguito il diavolo non tentò Adamo, si risponde che in seguito non tentò nemmeno Eva.
Perché dunque la Scrittura si esprime così, se non perché in questo passo è dimostrato chiaramente che non possiamo esser tentati dal diavolo che mediante la parte animale, la quale mostra, per così dire, la rassomiglianza o l'esempio della donna - di cui abbiamo già parlato a lungo più sopra, in un solo stesso uomo?
Quanto poi al fatto che venga anche posta inimicizia tra il seme del diavolo e quello della donna, con il "seme del diavolo" viene simboleggiata la perversa suggestione, col "seme della dorma" invece il frutto delle opere buone con cui resiste alla cattiva suggestione.
Ecco perché il diavolo spia la pianta del piede della donna perché, se sdrucciola nel piacere illecito, la possa prendere allora in suo potere; essa invece spia il capo di lui per respingerlo proprio all'inizio della cattiva suggestione.
Riguardo al castigo della donna non si pone alcuna discussione, poiché è evidente ch'essa nelle avversità di questa vita ha molti dolori e geme spesso; il fatto poi che partorisce i figli tra i dolori, sebbene si verifichi anche nella donna visibile di quaggiù, tutta via la nostra considerazione deve applicarsi alla donna invisibile.
Poiché anche le femmine delle bestie partoriscono i figli con dolore, ma nel loro caso ciò è una condizione della natura mortale anziché un castigo dei peccato.
Può darsi dunque che nel caso delle creature umane femminili sia caratteristica del corpo mortale.
Ma il grande castigo consiste nel fatto che a questa natura mortale dei corpi i progenitori arrivarono dallo stato d'immortalità.
Un gran simbolismo tuttavia racchiuso in questa sentenza è il seguente: non c'è alcuna astinenza dalla volontà carnale che in principio non comporti dolore fino a quando la consuetudine non venga piegata nella direzione migliore.
Quando ciò avviene, è come se fosse nato un figlio, ossia il desiderio del cuore è pronto a compiere le opere buone in virtù dell'abitudine buona la quale, per nascere, ha dovuto combattere l'abitudine cattiva.
Poiché anche riguardo a quanto viene detto dopo il fatto del partorire: Tu ti rivolgerai verso tuo marito, ma egli ti dominerà, ( Gen 3,16 ) non è forse vero che molte, anzi quasi tutte le donne partoriscono in assenza dei loro mariti e dopo il parto non si voltano verso di essi?
Le donne che però sono superbe e fanno da padrone sui loro mariti, perdono forse questo vizio dopo il parto in modo che i loro mariti abbiano il dominio su di esse? Tutt'altro!
Al contrario credono che per il fatto d'essere madri sia aumentata in certo qual modo la loro dignità.
Che vuol dire dunque che, dopo aver detto: Partorirai tra i dolori, Dio aggiunse: Ti rivolgerai verso tuo marito, ma egli ti dominerà? ( Gen 3,16 )
Vuol dire solo che la parte dell'anima, ch'è tutta presa dai piaceri carnali, allorché, volendo vincere una cattiva abitudine, sopporta difficoltà e dolori e così genera l'abitudine buona, tosto ubbidisce con maggior prudenza e diligenza alla ragione come al proprio marito.
Ammaestrata poi, per così dire, dagli stessi dolori, si rivolge alla ragione e volentieri si sottomette ai suoi comandi per non scivolare di nuovo in qualche altra funesta abitudine.
Queste dunque, che sembrano maledizioni, sono dei precetti se noi non leggeremo in senso carnale le realtà spirituali.
La legge, infatti, è spirituale. ( Rm 7,14 )
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4 | Cap. 9 |