Lettere |
Scritta tra il 406 e il 412.
Agostino invia al prete Deogratias la soluzione di sei questioni proposte da un pagano ( n. 1 ) e cioè:
I) sulla risurrezione finale ( n. 2-7 );
II) sul tempo della religione Cristiana ( n. 8-15 );
III) sulla distinzione dei sacrifici cristiani e pagani ( n. 16-21 );
IV) sulla massima di Matteo 7,21 e sull'eternità delle pene ( n. 22-27);
V) sul pensiero di Salomone riguardo al Figlio di Dio ( n. 28-29 );
VI) sul miracolo del profeta Giona ( n. 30-38).
Agostino saluta nel Signore il sincerisssimo fratello Deogratias, suo collega di sacerdozio
Le questioni ch'erano state presentate a te hai preferito girarle a me, non voglio credere per pigrizia, ma perché, dato il gran bene che mi vuoi, tu ascolti più volentieri perfino le cose che sai da te stesso se vengono dette da me.
Io però avrei preferito ch'esse fossero spiegate da te, in quanto lo stesso tuo amico, dal quale ti sono state proposte, non ha risposto a qualche mia lettera, come se si vergognasse di seguire le mie opinioni: così almeno suppongo in base a questo fatto.
Saprà comunque lui il motivo.
Il mio sospetto non è tuttavia né malevolo né assurdo, dal momento che tu pure sai benissimo quanto io ami il tuo amico e quanto mi addolori che non sia ancora diventato cristiano.
Ma vedendo che non ha voluto rispondermi, debbo logicamente pensare che non ha voluto ch'io gli scrivessi.
Ho accondisceso comunque al tuo desiderio e non ho osato, pur tra le mie pressanti occupazioni, disgustare la tua santa e a me carissima volontà, qualora io non avessi fatto quanto m'avevi chiesto; allo stesso modo, te ne scongiuro, fa tu pure quanto ti chiedo: non ti dispiaccia cioè di rispondere in breve tu stesso a ogni quesito dell'amico nel modo da lui chiestoti e da te stesso indicatomi, come avresti potuto fare anche prima.
Appena leggerai le mie soluzioni, vedrai che non ho detto nulla che tu già non sapessi o che non avresti potuto sapere senza ch'io lo dicessi.
Questo mio opuscolo però - te ne prego - riservalo per te e per quegli altri al cui interesse giudichi sia adatto.
L'opuscolo invece, che ti chiedo vivamente di scrivere, sia inviato a quel tale cui è destinato e a quegli altri, tra cui ci sono pure io, ai quali tornano assai gradite tali elucubrazioni nel modo con cui possono essere espresse da te.
Vivi sempre in Cristo, memore di me.
Alcuni incontrano difficoltà nel cercare di risolvere il problema se la risurrezione che ci è stata promessa sarà simile a quella di Cristo o a quella di Lazzaro.
" Se rassomiglierà a quella di Cristo - obiettano - come può corrispondere a quella dei nati da germe umano la risurrezione di Cristo, nato dalla Vergine?
Se invece si dice che corrisponde a quella di Lazzaro, ( Gv 11,43 ) neppure questa sembra confarsi alla nostra, in quanto la risurrezione di Lazzaro si compì in un corpo non ancora del tutto putrefatto, nel corpo cioè per cui quell'individuo era chiamato Lazzaro; la nostra risurrezione invece verrà fuori, per così dire, dopo tanti secoli, da un miscuglio di elementi.
Se, in secondo luogo, dopo la risurrezione si attuerà lo stato di beatitudine, ove non ci sarà più alcuna lesione del corpo, né alcun bisogno di sfamarsi, cosa vuol dire il fatto che Cristo prese del cibo e mostrò le ferite?
Ora, se fece questo per convincere un incredulo, ricorse a una finzione; se invece era vero quanto mostrò, vuol dire che nella risurrezione rimarranno le ferite ricevute ".
A queste obiezioni si può rispondere che la risurrezione a noi promessa non somiglierà a quella di Lazzaro, bensì a quella di Cristo; poiché Lazzaro risuscitò ma per morire poi di nuovo, mentre Cristo - com'è scritto di lui - risorto da morte, non muore più; la morte non avrà su lui più alcun dominio. ( Rm 6,9 )
L'identica sorte è stata promessa a quelli che risusciteranno alla fine del mondo e regneranno con Cristo in eterno.
Così non ha nulla a che vedere con la resurrezione la nascita di Cristo, diversa dalla nostra per essere egli nato senza il germe dell'uomo e noi invece dall'unione dell'uomo e della donna; come pure non ha nulla a che vedere col modo diverso della morte.
Di fatto, la morte di Cristo non può non dirsi reale per il fatto d'esser nato senza germe umano.
Così neppure la nascita del corpo del primo uomo, formato in modo diverso che il nostro ( dal momento che quello fu creato dalla terra senza concorso dei genitori, mentre noi nasciamo dai genitori ), neppure ciò - ripeto - contribuì affatto a render la morte di lui diversa da quella nostra.
Allo stesso modo, come la maniera diversa di nascere non ha determinato una maniera diversa di morire, così non ha alcun potere di render diversa la maniera di risorgere.
Ma affinché gl'infedeli non rifiutino pure di credere ciò che sta scritto del primo uomo, cerchino d'esaminare ed osservare un po' attentamente, se pur vi riescono, quante specie d'animali sono procreate dalla terra senza opera di genitori: essi tuttavia accoppiandosi partoriscono animali simili a loro senza che la maniera diversa di nascere comporti alcuna differenza di natura fra gli animali prodotti dalla terra e quelli nati dall'unione del maschio e della femmina.
In realtà tutti gli animali muoiono allo stesso modo, sebbene siano nati in modo diverso.
Non è quindi assurdo che risorgano in modo simile i corpi nati in modo diverso.
Ma i nostri avversari, non arrivando a capire quale conseguenza sia prodotta e quale non sia prodotta da una diversa condizione di essere, appena osservano qualche diversità nell'origine primordiale degli esseri, pretendono ch'essa debba perdurare in tutti gli atti successivi.
Costoro potrebbero credere che l'olio estratto dai grassi non debba galleggiare sull'acqua come quello d'oliva in quanto la loro origine è assai diversa, derivando dalle piante l'uno, l'altro dalla carne.
C'è poi l'altra differenza: il corpo di Cristo risuscitò il terzo giorno senz'essersi decomposto nel marciume e nel putridume, mentre i nostri si ricomporranno dopo lungo tempo mediante gli elementi confusi in cui s'erano dissolti.
È vero: tutt'e due queste azioni sono impossibili al potere dell'uomo, ma assai facili alla potenza di Dio.
Mi spiego: come la vista del nostro occhio non arriva più presto ai punti più vicini e più tardi ai più lontani, ma giunge ad ogni distanza con la medesima velocità, così quando in un batter d'occhio, ( 1 Cor 15,52 ) come dice l'Apostolo, avverrà la risurrezione dei morti, all'onnipotenza e all'ineffabile volontà di Dio sarà ugualmente facile richiamare in vita sia i cadaveri sepolti da poco sia quelli decomposti da lungo tempo.
Queste cose sembrano incredibili a certuni, perché non ancora sperimentate, mentre invece la natura è talmente piena di fenomeni prodigiosi che, non tanto per una certa facilità d'indagine razionale ma per l'abitudine che abbiamo di vederli, non ci paiono più meravigliosi e quindi non meritevoli d'essere osservati e studiati seriamente.
Io però, e come me tutti coloro che si sforzano d'intendere le realtà invisibili di Dio attraverso le realtà visibili, ( Rm 1,20 ) rimaniamo stupiti che in un minuscolo seme si trovino come in un abbozzo allo stato latente tutti gli elementi costitutivi d'un albero.
Dinanzi ad esso noi rimaniamo stupiti - dico - non meno, anzi ancor di più che di fronte all'immenso grembo di questo mondo, che restituirà nella futura risurrezione tutt'interi gli elementi che ha assorbiti dai corpi durante la loro decomposizione.
Inoltre, in qual modo può esserci contraddizione tra il fatto che dopo la risurrezione Cristo prese cibo e quello che nella risurrezione che ci è promessa non vi sarà più bisogno di cibo?
Non leggiamo forse che gli stessi Angeli presero cibo e non già fittizio, irreale, solo apparente, ma assolutamente reale?
Lo presero poi non perché ne avessero necessità ma perché ne avevano la possibilità.
Così in modi assai diversi assorbono acqua il terreno assetato e il raggio infocato del sole: quello perché assetato, questo perché arroventato.
Orbene, il corpo dopo la risurrezione non godrà perfetta felicità sia nel caso che non potrà mangiare, sia nel caso che avrà bisogno di cibo.
A questo punto potrei abbandonarmi a una discussione piuttosto lunga circa i cambiamenti che presentano le qualità dei corpi e circa l'influenza meravigliosa dei corpi superiori sugli inferiori, ma mi è stato ordinato di rispondere in breve e d'altra parte questo scritto è destinato a persone di così alto ingegno, che basta averne fatto appena un cenno.
Chi ti ha presentato tali questioni, sappia che Cristo, dopo la sua risurrezione, a coloro che ne dubitavano mostrò non le ferite ma le cicatrici e, per rassicurarli, volle pure mangiare e bere non una volta ma più volte, perché non pensassero che il suo fosse non un corpo reale bensì uno spirito e apparisse loro non nella realtà concreta ma solo nell'immaginazione.
Ora, le cicatrici sarebbero state false, se prima non ci fossero state delle ferite; d'altronde non ci sarebbero state neppure quelle, se il Signore non l'avesse voluto.
Ma lo volle per una provvida condiscendenza, per mostrare cioè a coloro, ch'egli voleva confermare nella fede vera, che il corpo risuscitato non era diverso da quello che era stato crocifisso.
Che significa dunque dire: " Se fece questo per convincere un incredulo, ricorse a una finzione "?
Sarebbe presso a poco come se un soldato valoroso, combattendo per la patria, ricevesse molte ferite nel petto e a un medico, abilissimo nel curarle senza lasciar traccia delle cicatrici, dicesse di voler essere guarito in modo che nel suo corpo apparissero piuttosto i segni delle ferite come altrettanti titoli di gloria.
Si potrebbe forse dire, in questo caso, che il medico ha formato delle false cicatrici perché, mentre con la sua arte avrebbe potuto farle sparire, ha invece ottenuto con la sua abilità, per un preciso motivo, di farle rimanere?
Si potrebbe dimostrare che tali cicatrici sarebbero false qualora, come ho detto più sopra, non fossero esistite ferite precedenti.
Hanno avanzato altresì quest'altra obiezione, tolta, a quanto dicono, da Porfirio contro i Cristiani, ritenendola come più efficace: " Se Cristo - dicono - proclama sé stesso la via della salvezza, la grazia, la verità e alle anime credenti in lui presenta se stesso quale unico mediatore per il ritorno a Dio, ( Gv 14,6 ) che cosa hanno fatto gli uomini di tanti secoli prima di Cristo?
E anche tralasciando - continua - i tempi che hanno preceduto lo stabilirsi del regno nel Lazio, supponiamo che l'umanità abbia avuto origine proprio nel Lazio.
Ebbene, proprio in quella regione, già prima della fondazione di Alba, erano adorati gli dèi.
Sempre in Alba erano già in vigore il culto e le pratiche religiose nei templi pagani.
Per molti secoli inoltre la stessa Roma non ebbe la legge cristiana.
Che cosa avvenne - soggiunge - delle innumerevoli anime, che non avevano assolutamente alcuna colpa, dal momento che Colui, al quale avrebbero potuto credere, non aveva ancora concesso agli uomini la grazia della sua venuta?
Insieme con Roma anche il resto del mondo praticava fervorosamente il culto dei templi.
Perché mai - dice ancora - Colui che fu chiamato il Salvatore, rimase nascosto per tanti secoli?
E non vengano a dire - egli incalza - che al genere umano fu provveduto con l'antica legge dei Giudei, essendo questa apparsa molto tempo dopo e rimasta in vigore solo nell'angusta regione della Siria; solo più tardi essa penetrò lentamente anche nelle terre d'Italia, cioè solo dopo Gaio Cesare o durante il suo governo.
Che cosa avvenne, dunque, delle anime dei Romani e dei Latini rimaste prive della grazia di Cristo, che ritardò la sua venuta fino al tempo dei Cesari? "
A questa obiezione si risponde che anzitutto ci dicano essi se agli uomini giovasse il culto dei loro dèi, che risulta con certezza istituito in tempi ben determinati.
Se dicono che il culto pagano non giovò affatto alla salvezza delle anime, essi sono d'accordo con noi nello screditarlo e nel risconoscerlo inutile.
Noi però dimostreremo che fu pure dannoso; ma intanto non è poco ch'essi stessi lo riconoscano inutile.
Se invece lo difendono e affermano che fu un'istituzione sapiente e utile, allora io domando quale fu la sorte delle persone morte prima dell'istituzione di quei riti, perché evidentemente rimasero private di tale salvezza e di tale vantaggio.
Se poi poterono purificarsi con altri mezzi, perché mai questi non perdurarono fino ai posteri?
Che bisogno c'era d'istituire nuove cerimonie sacre, mai esistite?
A questo punto potrebbero rispondere che gli dèi sono sempre esistiti, e sempre e dovunque sono stati capaci di salvare i loro adoratori, ma si adattarono alla varietà delle vicende temporali e terrene; sapendo inoltre che cosa più convenisse a determinate epoche e località, vollero essere serviti ora in un tempo, ora in un altro, ora in un luogo ora in un altro, ora in un modo ora in un altro.
In tal caso perché mai lanciano contro la religione Cristiana una simile obiezione, ch'essi non possono risolvere riguardo alla loro stessa religione?
Se lo potessero, con ciò stesso risponderebbero alla loro stessa obiezione fatta contro la nostra religione: risponderebbero che le cerimonie sacre di un culto, conformi alla diversità dei tempi e dei luoghi, non hanno importanza sostanziale nel culto, purché l'oggetto di questo sia santo, così come non importa affatto con quali diverse parole, corrispondenti alla diversità delle lingue e degli ascoltatori, si esprime la verità, purché sia la verità.
Importa però certamente sapere che gli uomini poterono stabilire, con un patto, per così dire, di convivenza sociale, vocaboli ed espressioni, per comunicare tra loro i propri pensieri.
Al contrario, per sapere quali cerimonie sacre si addicessero all'Essere supremo, lo compresero bene coloro che si attennero alla volontà di Dio.
Questa poi non mancò mai di salvare gli uomini giusti e pii.
Ed anche se diversi sono i riti celebrati da popoli tra loro diversi ma uniti da un'unica e medesima religione, quel che soprattutto importa è come sono praticati, in modo che sia conformata e tollerata l'umana infermità senza opporsi alla divina autorità.
Noi affermiamo dunque che Cristo è il vero Dio, dal quale è stata creata ogni cosa; egli è il Figlio di Dio, perché suo Verbo.
Non è un verbo che appena pronunciato è già passato, ma il Verbo immutabile e immutabilmente sussistente presso il Padre, anche esso immutabile.
Dal Verbo è diretta e guidata ogni creatura spirituale e corporea nel modo più confacente ai tempi e ai luoghi.
In lui risiede la sapienza e la scienza capace di dirigere e guidare tutte le creature e di determinare che cosa, in qual luogo o tempo sia più opportuno fare per il loro bene.
Il Verbo esisteva sempre uguale anche prima che propagasse il popolo Ebraico per mezzo del quale voleva prefigurare, coi simboli più appropriati delle loro cerimonie sacre, la manifestazione della propria venuta, e poi durante lo stesso regno d'Israele e in seguito, quando apparve ai mortali sotto spoglie mortali rivestito della carne ricevuta dalla Vergine e poi ancora fino ai nostri tempi, in cui compie tutte le cose da lui predette per mezzo dei Profeti; così pure da adesso sino alla fine del mondo, in cui separerà i santi dagli empi e darà a ciascuno la retribuzione meritata, il Verbo è sempre l'identico Figlio di Dio, eterno come il Padre, immutabile Sapienza dalla quale è stato creato il mondo universo e per la cui partecipazione ogni anima razionale diviene beata.
Perciò fin dai primordi del genere umano tutti coloro, i quali hanno creduto in Lui e in qualche modo l'hanno conosciuto e hanno menato una vita pia e giusta conforme ai suoi precetti, in qualsiasi tempo e luogo siano vissuti, senza dubbio si sono salvati per mezzo di Lui.
Sì; come noi crediamo in Lui non solo vivente col Padre ma anche già incarnato, così gli antichi credevano in Lui e vivente col Padre e che sarebbe venuto nel mondo.
E se, conforme alla diversità dei tempi, viene annunciato adesso come già avvenuto quel che un tempo era preannunciato da avvenire, ciò non significa che la fede sia cambiata o sia diversa l'unica e identica salvezza.
E allo stesso modo, se una stessa e identica realtà viene annunziata e predetta con cerimonie e simboli diversi per i diversi tempi, non per questo dobbiamo credere che siano realtà diverse o siano diversi i mezzi della salvezza.
Lasciamo quindi a Dio la disposizione a tempo opportuno degli avvenimenti riguardanti la stessa e identica salvezza delle anime pie e fedeli; quanto a noi conserviamo la docilità al suo volere.
Concludendo, è sempre l'unica e identica religione ch'è stata manifestata e osservata in tempi remoti con denominazione e simboli diversi da quelli d'oggi, prima in un modo più occulto, poi più chiaro; prima da un ristretto numero di persone e in seguito da un numero sempre maggiore.
Noi non obiettiamo loro neppure il fatto che Numa Pompilio stabilì che gli dèi dovessero adorarsi dai Romani con un culto diverso da quello con cui erano stati adorati in passato da essi e dagli Itali;1 neppure obiettiamo che ai tempi di Pitagora era in auge la filosofia non coltivata affatto nei tempi precedenti o forse solo di nascosto da un assai esiguo numero di persone aventi le medesime opinioni, pur non aventi gli stessi riti.
Ma gli dèi erano forse veri e da adorarsi?
La filosofia serviva forse alla salvezza dell'anima?
Questo è il problema che trattiamo con loro; questo è l'oggetto della nostra discussione, questo è il punto che vogliamo confutare con la nostra disputa.
Cessino dunque di farci obiezioni che si possono fare a qualunque altra setta o a qualunque altra religione.
A dire il vero, siccome riconoscono che i tempi non scorrono a caso ma secondo un ordine determinato dalla divina Provvidenza, per logica conseguenza quel che può esser conveniente e opportuno a ciascun tempo è cosa che oltrepassa l'intelligenza umana e viene disposto nel piano della stessa Provvidenza, che si prende cura di tutte le cose.
Se poi diranno che la scuola filosofica di Pitagora non è esistita né sempre né dovunque, in quanto Pitagora, essendo uomo, non poté arrivare a simile potere, io domando: potrebbero forse affermare che, pur limitatamente al tempo della sua vita e ai luoghi della terra, in cui la sua filosofia fu in vigore, tutti coloro i quali poterono ascoltarlo vollero prestargli fede e seguirlo?
Conseguenza ancora più rilevante: ammettiamo pure che Pitagora avesse tale potere, da predicare le sue massime dove e quando volesse, e avesse insieme col potere la suprema prescienza delle cose; in tal caso non sarebbe potuto apparire se non dove e quando avesse previsto che gli uomini sarebbero stati disposti a credergli.
Siccome quindi non obiettano a Cristo che la sua dottrina non è seguita da tutti, convinti che tale obiezione non si può rivolgere neppure alla sapienza dei loro filosofi o alla potenza dei loro dèi, non vedo che cosa potranno rispondere di diverso da quanto diciamo noi.
Lasciamo da parte la sublime sapienza e scienza di Dio, in cui si nasconde forse un piano divino ancora più segreto; non vogliamo condannare neppure l'ipotesi di altre cause che forse possono essere indagate dai sapienti: nel discutere la presente questione vogliamo, per amore di brevità, limitarci a dire solo questo: Cristo volle apparire agli uomini e volle fosse loro predicata la sua dottrina quando e dove sapeva che vi sarebbero state persone disposte a credergli.
Mi spiego: nei tempi e nei luoghi in cui il suo Vangelo non fu predicato, egli sapeva dall'eternità che avrebbero tutti reagito alla predicazione con gli stessi sentimenti che manifestarono non tutti, in verità, ma certo molti, quando egli apparve con la sua persona fisica sulla terra; parlo di coloro i quali si rifiutarono di credere in Lui perfino dopo che aveva risuscitato i morti.
Con sentimenti simili ai loro vediamo comportarsi ancora molti, che, quantunque s'avverino in modo tanto chiaro le predizioni dei Profeti, non vogliono credere, preferendo resistere con l'umana accortezza, anziché arrendersi all'autorità divina pur così lampante ed evidente, così sublime e in modo altrettanto sublime divulgata.
Fin quando l'intelligenza umana è limitata e debole, deve credere alla verità divina.
Che c'è dunque di strano se Cristo, giustamente, non volle né apparire né essere annunziato a coloro che aveva previsto non disposti a credere né alle sue parole né ai suoi miracoli?
Non sapeva forse che nei secoli precedenti a quello della sua venuta il mondo era tanto pieno d'infedeli?
In realtà non è incredibile che allora fossero tutti quali ce ne sono stati e ce ne sono ancora in sì gran numero, con nostra meraviglia, dalla sua venuta fino ai nostri giorni.
Ciononostante, fin dall'inizio del genere umano, ora in un modo più occulto, ora in un modo più evidente, a seconda che la divina Provvidenza ritenne opportuno alle varie epoche, da Adamo a Mosè non mancarono né le profezie né quelli che credettero in Cristo: non solo tra lo stesso popolo d'Israele ( nel quale, per una speciale disposizione del piano salvifico di Dio, ci fu una stirpe di Profeti ), ma pure tra altri popoli ancor prima dell'Incarnazione.
Nei libri sacri degli Ebrei si ricordano effettivamente, fin dal tempo di Abramo, alcuni personaggi che furono messi a parte di questo mistero sebbene non appartenessero né alla stirpe di Abramo, né al popolo d'Israele, né a qualche altro gruppo etnico venuto ad inserirsi in esso; perché dunque non dovremmo credere che qua e là fra gli altri popoli ce ne fossero, in epoche diverse, pure degli altri, anche se non li troviamo ricordati nei libri della sacra Scrittura?
La salvezza quindi procurata dalla nostra religione, l'unica vera che promette in modo veridico l'autentica salvezza, non mancò mai a chi ne fosse degno; se perciò mancò a qualcuno, questi non era degno di riceverla.
Essa viene predicata dall'inizio alla fine del genere umano, ad alcuni per la loro salvezza, ad altri per la loro condanna.
Ecco perché Dio, fin dall'eternità ha previsto che non avrebbero creduto coloro ai quali la predicazione del Vangelo non arrivò affatto.
Coloro invece ai quali fu annunciato, sebbene Dio avesse previsto la loro incredulità, devono servirci da lezione e farci riflettere.
Coloro infine a cui è annunciato e che sono disposti a credere, vengono predisposti ad entrare nel regno dei cieli e ad esser compagni degli Angeli santi.
Ed ora vediamo la questione seguente: " I Cristiani biasimano - dice Porfirio - i riti dei sacrifici, le vittime, i grani d'incenso, le altre cerimonie osservate nel culto dei nostri templi, mentre - dice lui - lo stesso culto fu iniziato da essi o dal Dio da essi adorato fin dai tempi antichi, nei quali ci si presenta un Dio bisognoso di primizie ".
A quest'obiezione si risponde: È evidente ch'essa è desunta dal passo delle nostre Scritture, dove sta scritto che Caino offriva in dono a Dio dei frutti della terra e Abele delle primizie delle sue pecore. ( Gen 4,3s )
Da questo passo si dovrebbe intuire come il sacrificio sia un'azione sacra in uso fin dall'antichità, che le veridiche e sacre Scritture ci ammoniscono doversi offrire solo all'unico vero Dio: non perché Dio ne abbia bisogno, essendo scritto molto chiaramente nelle stesse Scritture: Ho detto al Signore: mio Dio sei tu, poiché dei miei beni non hai bisogno, ( Sal 16,2 ) ma perché il Signore, nel gradire o disdegnare o accettare tali sacrifici, lo fa solo per il bene degli uomini.
In realtà l'adorare Dio torna non al suo, ma a nostro vantaggio.
Quando perciò Dio ispira e insegna come dev'essere adorato, non solo non lo fa per proprio bisogno, ma per nostra grandissima utilità.
Tali sacrifici poi hanno tutti carattere simbolico, essendo figure di altre realtà, cioè sono figure con cui dobbiamo essere richiamati a scrutare, a riconoscere o a rammentare le realtà di cui essi sono figure.
Per un'esauriente esposizione dell'argomento occorrerebbe un discorso più lungo di quello con cui mi sono prefisso di rispondere: si tenga comunque presente che l'ho già trattato a lungo in altre mie opere.
Anche altri scrittori, che prima di me hanno spiegato la parola di Dio, hanno pure parlato diffusamente di tali simboli, del Vecchio Testamento, nel senso cioè che essi erano allegorie e prefigurazioni delle realtà future.
Peraltro non si deve neppure tacere in questo breve cenno che il tempio, il sacerdozio, il sacrificio e tutto quanto è connesso con queste cose, gli dèi falsi, cioè i demoni, che sono gli angeli prevaricatori, non li avrebbero mai richiesti per sé ai loro adoratori, ingannati da essi, se non sapessero che sono dovuti solo all'unico vero Dio.
I sacrifici sono vera espressione religiosa quando sono offerti a Dio secondo la sua ispirazione e la sua dottrina, mentre sono dannosa superstizione quando sono offerti ai demoni secondo la loro empia superbia.
Coloro quindi che conoscono le Scritture cristiane dell'Antico e del Nuovo Testamento, nei riti sacrileghi dei pagani biasimano non il fatto che costruiscano templi e istituiscano dignità sacerdotali e compiano sacrifici, ma che li destinano agli idoli e ai demoni.
E chi mai potrebbe dubitare che gl'idoli sono assolutamente privi di vita?
Essi però non solo vengono collocati sull'alto dei piedistalli come su troni d'onore per essere ammirati da quelli che offrono loro preghiere e vittime, ma sono effigiati con membra e sensi che paiono animati, mentre sono assolutamente privi di sensi e di vita; in tal modo essi impressionano talmente gli animi deboli, da apparire come esseri animati e viventi, soprattutto se s'aggiunge il sentimento religioso delle folle che le spinge a render loro un culto così fanatico.
La divina Scrittura però ha una medicina contro questi morbosi e funesti sentimenti, suggerendo come salubre rimedio una verità ben nota, quando a proposito degl'idoli ci ammonisce che: Hanno occhi ma non vedono, hanno orecchie ma non sentono ( Sal 114,5 ) e altre espressioni simili.
Orbene, la suddetta affermazione quanto più è chiara e vera nell'espressione usata comunemente dal volgo, tanto più incute una salutare vergogna a coloro che prestano con religioso timore il culto divino a tali simulacri: essi li contemplano, li venerano e li adorano considerandoli esseri viventi ed offrono loro preghiere come se fossero presenti, sacrificano loro vittime e sciolgono i loro voti.
Sono allora presi da tale fanatismo, che non osano neanche pensare che gl'idoli siano immagini senz'anima.
Ma perché non pensino che i nostri Libri vogliano dire solo che tali sentimenti sorgono nel cuore umano dal culto degl'idoli, affermano pure in modo chiarissimo: Tutti gli dèi pagani sono demoni. ( Sal 96,5 )
Ecco perché la dottrina degli Apostoli non solo afferma ciò che si legge in Giovanni: Fratelli, guardatevi dai simulacri, ( 1 Gv 5,21 ) ma pure quel che si trova in Paolo: Che cosa intendo dire, dunque?
Forse che la carne immolata agl'idoli sia qualcosa? O che sia qualcosa un idolo?
Dico, al contrario, che le cose offerte in sacrificio dai pagani, vengono sacrificate ai demoni e non a Dio.
Ora io non voglio che voi siate in comunicazione coi demoni. ( 1 Cor 10,19s )
Da ciò si può capire che la vera religione, a proposito delle superstizioni dei pagani, non biasima il sacrificio in se stesso ( anche gli antichi santi, infatti, offrirono sacrifici al vero Dio ) ma il fatto che i sacrifici vengano offerti ai demoni falsi ed empi.
Come la Verità esorta gli uomini a divenir compagni dei santi Angeli, così l'Empio li seduce per farli diventare compagni dei demoni, per i quali sta preparato il fuoco eterno, come per i santi il regno eterno.
Ma gli empi non possono neppure giustificare i loro sacrileghi sacrifici o simulacri col fatto che danno una spiegazione elegante del simbolismo d'ogni loro cerimonia sacra; la loro spiegazione però si riduce in fondo a mettere in risalto le forze delle creature e non la potenza del Creatore, al quale solo è dovuto il culto religioso che con una sola parola si chiama λατρεία.
Per conto nostro noi non diciamo che la terra, i mari, il cielo, il sole, la luna, le stelle e talune potenze celesti lontane dalla nostra esperienza siano altrettanti demoni, ma che le creature sono in parte corporee, in parte incorporee, chiamate da noi pure spirituali.
È chiaro quindi che le nostre azioni, in quanto ispirate dalla pietà e dalla devozione, procedono dalla volontà dell'animo, la quale è una sostanza spirituale da anteporsi a qualsiasi altra sostanza corporea.
Da ciò consegue che il sacrificio non può essere offerto ad alcuna creatura corporea.
Resta da vedere se può offrirsi alla creatura spirituale, che può essere pia o empia: pia negli uomini e negli Angeli buoni che servono fedelmente Dio; empia negli uomini e negli Angeli malvagi, da noi chiamati pure demoni.
Il sacrificio quindi non può venire offerto neppure a una creatura spirituale, per quanto si voglia giusta: poiché, quanto più è pia e sottomessa a Dio, tanto meno si reputa degna di tale onore che sa essere dovuto solo a Dio.
Quanto più funesto è dunque sacrificare al demonio, cioè a una creatura spirituale malvagia, la quale, dimorando in questo cielo a noi vicino e caliginoso, come in un suo carcere aereo, è predestinata al supplizio eterno!
I Pagani affermano di sacrificare alle potenze superiori del cielo, che non sono demoni, e pensano che tra il nostro culto e il loro ci sia solo differenza di denominazione, in quanto essi danno il nome di dèi a quelli che noi chiamiamo Angeli; in tal caso coloro che si propongono di prendersi giuoco con molteplici inganni di quelli che parlano così, sono proprio i demoni, che si compiacciono e, per così dire, si pascono dell'errore umano.
A dire il vero i santi Angeli approvano solamente il sacrificio che, in conformità dell'autentica sapienza e della genuina religione, viene offerto al vero Dio, al quale essi servono nella società dei Santi.
Quindi, come la superbia degli empi, siano essi uomini o demoni, comanda o brama che le sia reso questo culto divino, così l'umiltà dei pii, siano essi uomini o i santi Angeli, lo ha sempre rifiutato ogni volta ch'è stato loro offerto, mostrando così a Chi esso è dovuto.
E di ciò si possono mostrare esempi assai eloquenti nei nostri Libri santi.
Nella divina Scrittura si trovano diverse specie di sacrifici adatti alla diversità dei tempi: alcuni erano destinati ad esser compiuti prima della manifestazione del Nuovo Testamento, redatto con l'unica vera vittima dell'unico sacerdote, cioè con lo spargimento del sangue dì Cristo; l'altro è quello proprio di questa manifestazione, quello cioè offerto adesso da noi, che ci proclamiamo apertamente cristiani.
Ciò si dimostra non solo nei libri del Vangelo ma pure in quelli dei Profeti.
Ora, questo cambiamento di sacrifici e di cerimonie religiose, che non tocca né Dio né la religione, potrebbe sembrare che venisse predicato ora impudentemente se non fosse stato predetto molto prima.
Se uno offrisse a Dio una cosa la mattina e un'altra la sera a seconda dell'opportunità delle varie ore del giorno, non per questo apporterebbe un cambiamento in Dio o nella religione.
Apporterebbe forse un mutamento al saluto chi lo rivolgesse in un modo la mattina e in un altro la sera?
Allo stesso modo, quando nel corso dei secoli una cosa fu offerta in sacrificio dagli antichi santi e un'altra viene offerta da quelli che vivono oggi, i sacri misteri vengono celebrati a seconda dell'opportunità richiesta dai tempi, non in forza della presunzione degli uomini, ma dell'autorità di Dio, senza causare affatto mutamento né in Dio, né alla religione.
Ed ora vediamo senz'altro l'obiezione avanzata circa la proporzione tra il peccato e il castigo, mediante questa falsa accusa pronunciata contro il Vangelo.
"Cristo - dice - minaccia, a coloro che non credono in lui, castighi eterni, ( Gv 3,18 ) mentre poi in un altro passo del Vangelo dice: Con la stessa misura con cui misurerete, sarete misurati anche voi. ( Mt 7,2 )
Ciò - soggiunge quel tale - è assai ridicolo e contraddittorio, poiché, se Cristo infliggerà il castigo secondo una data misura ( e qualunque misura è circoscritta nello spazio di un certo tempo ), che senso ha la minaccia di un castigo eterno?"
È ben difficile credere che una tale obiezione sia stata formulata e presentata da un filosofo, di qualunque tendenza egli sia, per il fatto che dice: "Qualsiasi misura è circoscritta nello spazio di un certo tempo", come se ci fossero solo le misure del tempo, cioè ore, giorni, anni o come diciamo che una sillaba breve ha una unità di durata semplice e una sillaba lunga l'ha doppia.
Veramente credo che i moggi, gli steri, le urne e le anfore siano bensì misure, ma non del tempo.
Come potrebbe dunque ogni specie di misura esser delimitata dal tempo?
Non dicono forse i pagani stessi che il nostro sole è eterno?
Eppure la grandezza del sole rispetto alla terra essi osano computarla accuratamente con misure geometriche e dichiararla al pubblico.
Ora, ci riescano o non ci riescano, è tuttavia risaputo che il sole ha una particolare misura della sua circonferenza.
Se quindi riescono a conoscere la grandezza, riescono pure a conoscere la misura; se invece non ci arrivano, è chiaro che non ne conoscono neppure la misura.
Orbene, per il fatto che non si arrivi a conoscerla, non vuol dire che non esista.
Può darsi quindi che un essere sia eterno ed avere pure la grandezza d'una determinata misura.
Parlo naturalmente dell'eternità del sole soltanto secondo la loro opinione affinché proprio in forza di essa si convincano e ammettano che può esistere un essere eterno e nello stesso tempo misurabile.
Per questo motivo non si rifiutino di credere che proprio il castigo eterno fu minacciato da Cristo con le suddette parole: Con la stessa misura con cui misurerete, sarete misurati anche voi.
Se infatti Cristo avesse detto: "Vi sarà misurato ciò che misurerete voi", neppure in questo caso sarebbe assolutamente necessario riferire la frase ad una stessa cosa sotto ogni aspetto.
Possiamo infatti dire giustamente: "Coglierai ciò che pianterai"; sebbene non si pianti il frutto ma l'albero e si colga non l'albero ma il frutto.
Naturalmente diciamo questo tenendo presente la particolare specie d'una pianta, poiché non si pianta un fico per cogliervi noci.
Così pure potremmo dire: "Quel che farai, lo soffrirai", non nel senso che, se uno ha commesso uno stupro, debba soffrire lui pure uno stupro, ma nel senso che l'offesa fatta alla legge col peccato, la legge la farà ricadere su lui; ossia com'egli ha cacciato via dalla sua vita la legge che proibisce tali nefandezze, così la legge caccerà via lui dalla vita degli altri uomini regolata dalla stessa legge.
Parimenti anche se Cristo avesse detto: "Quanto misurerete agli altri, altrettanto sarà rimisurato a voi", neppure in questo caso ne conseguirebbe che si dovesse intendere che i castighi debbano essere uguali ai peccati.
Così, per esempio, non sono uguali il grano e l'orzo, eppure si potrebbe dire con ogni esattezza: "Quanto misurerete, altrettanto sarà rimisurato a voi", vale a dire: "Quanto grano misurerete, altrettanto orzo sarà rimisurato a voi".
Così pure se, trattandosi di dolori, dicessimo: "Quanto dolore arrecherete ad altri altrettanto sarà arrecato a voi", potrebbe accadere che il dolore fosse uguale anche se più lungo nel tempo, ossia più grande per la sua durata ma uguale per l'intensità.
Così pure non sarebbe falso dire di due lucerne: "Questa fiamma riscaldava quanto quell'altra", per il fatto che una delle due s'è spenta forse più presto.
Se quindi una cosa è uguale a un'altra sotto un aspetto e diversa sotto un altro, non per questo è falsa la misura per cui risulta uguale all'altra, anche se non è uguale sotto ogni aspetto.
Cristo al contrario ha detto: Con la stessa misura con cui misurerete, sarete misurati anche voi.
Ora, è chiaro che altro è la misura adoperata per misurare una cosa, altro è la cosa misurata.
Può quindi darsi il caso che si usi la stessa misura per misurare per esempio un moggio di grano e averne in cambio mille pure di grano: ci sarebbe allora un'enorme differenza della quantità di frumento ma non ce ne sarebbe alcuna nella misura.
Non parlo della diversità delle cose misurate, perché non solo può accadere che ad uno sia misurato il grano con la stessa misura con cui avesse misurato l'orzo, ma pure che gli si misuri dell'oro con la stessa misura del grano: ci sarebbe allora un'enorme differenza della quantità di frumento sia uno solo, quelli d'oro invece moltissimi.
Perciò anche in questo caso, pur essendo le cose tra loro incomparabilmente differenti per la specie e per la quantità, pure si potrebbe dire benissimo: Gli fu misurato con la stessa misura con cui misurò lui stesso.
Perché poi Cristo dicesse quella massima, lo mostra chiaramente quanto detto poco prima da Lui: Non giudicate per non essere giudicati, poiché secondo il giudizio con cui giudicherete, sarete pure giudicati. ( Mt 7,1 )
Saranno forse giudicati con lo stesso giudizio iniquo, col quale giudicheranno? Nemmeno per sogno.
In Dio infatti non c'è neppure l'ombra d'ingiustizia.
Quindi l'espressione: Sarete giudicati secondo lo stesso giudizio con cui avrete giudicato vuol dire: "Sarete salvati per merito della stessa volontà con cui farete del bene, sarete puniti per colpa della volontà con cui avrete fatto del male".
Sarebbe come se uno, condannato ad essere accecato per essersi servito degli occhi onde soddisfare la turpe sensualità, a ragione si sentisse dire: "Hai meritato il castigo negli stessi occhi con cui hai peccato".
Poiché è del giudizio buono o cattivo dell'animo che ciascuno si serve per fare il bene o il male.
Non è quindi ingiusto che sia pure giudicato in rapporto alla facoltà di cui si serve per giudicare ( ossia deliberare ), cioè che sconti la pena in proporzione al giudizio del proprio animo, soffrendo le pene che sono la conseguenza del suo animo che ha giudicato in modo malvagio.
Vi sono altri castighi chiaramente mostrati e preparati per il futuro, attirati dal medesimo perno della cattiva volontà, ma di tutte le azioni alla colpa segue subito la pena, tanto più grave quanto maggiore è la cecità e l'ottusità morale di chi pecca.
Ecco perché Cristo, dopo aver detto: Sarete giudicati con lo stesso giudizio col quale giudicherete, aggiunge: e sarà a voi rimisurato con la stessa misura con cui misurerete.
Ora l'uomo misura le sue buone azioni in rapporto alla sua volontà, la quale perciò sarà pure misura della sua felicità.
Allo stesso modo il malvagio misura le sue azioni cattive in rapporto alla propria volontà, che sarà quindi la misura della sua infelicità; poiché per la stessa facoltà per cui uno è buono quando vuole il bene, è cattivo quando vuole il male.
Per questo stesso motivo ognuno diviene felice o infelice a seconda della disposizione della propria volontà ch'è la misura di tutte le azioni e di ciò che uno merita.
Poiché tanto le azioni buone quanto i peccati li misuriamo in rapporto alla diversa natura della volontà dei singoli e non alla durata del tempo in cui si commettono.
Altrimenti sarebbe più grave il peccato di abbattere una pianta che quello di uccidere una persona, in quanto la prima azione richiede un lasso di tempo piuttosto lungo e molti colpi, mentre l'altra si compie con un sol colpo e in brevissimo tempo.
Però, anche se il colpevole d'omicidio fosse punito con la deportazione a vita per un delitto sì grave compiuto in brevissimo tempo, si potrebbe dire che la sua condanna sarebbe più mite di quella che meriterebbe, quantunque la lunga durata della pena non sia affatto paragonabile alla breve durata di tempo, in cui fu compiuto il delitto.
Dove sarà dunque la contraddizione se le pene saranno ugualmente lunghe od ugualmente eterne, ma alcune più miti per alcuni, altre più atroci per altri?
Verrebbe ad essere uguale la durata ma non il rigore delle pene e ciò in proporzione pure dei peccati, consistente non già nella durata del tempo impiegato a commetterli ma nella volontà dei peccatori.
La stessa volontà inoltre viene punita con una pena o morale o fisica, cosicché quanto diletta nei peccati diventi esso stesso misura della pena.
Così chi giudica senza misericordia, sarà giudicato a sua volta senza misericordia.
Nella massima, che ora discutiamo, l'espressione "la stessa misura" significa solo che al peccatore non è dato ciò ch'egli stesso non ha dato: così eterno sarà il giudizio, con cui è condannato, sebbene il giudizio da lui formulato non poteva essere eterno.
Vengono quindi inflitti castighi eterni alle cattive azioni, quantunque non eterne, in quanto il peccatore che avrebbe voluto ( per quanto stava in lui ) provare un godimento eterno nella colpa, avrà un castigo eterno nel rigore della pena.
La brevità, che mi sono prefisso nella mia risposta, non mi consente di raccogliere tutti o almeno il maggior numero dei passi contenuti nei Libri santi sui peccati e sulle pene ad essi dovute e trarne una conclusione inequivocabile, sempre nell'ipotesi che ne fossi capace con le forze dell'intelligenza e che potessi disporre di tempo libero per tale scopo.
Per ora penso d'aver dimostrato assai chiaramente come non è contrario all'eternità delle pene il fatto ch'esse sono inflitte nella stessa misura, in cui sono stati commessi i peccati.
Dopo la suesposta questione, colui che ha avanzato le altre riportandole da Porfirio, aggiunge: "Abbi pure la cortesia d'istruirmi su quest'altra questione: se cioè Salomone ha affermato sul serio che Dio non ha Figlio".
Si risponde subito: Non solo Salomone non ha fatto una simile affermazione ma, al contrario, ha affermato espressamente che Dio ha il suo Figlio.
La Sapienza, infatti, parlando in un libro di Salomone, così dice: Io fui generata prima di tutti i monti. ( Pr 8,25 )
Orbene, cos'altro è Cristo se non la Sapienza di Dio?
Così pure in un passo dei Proverbi dice: Dio m'ha insegnato la sapienza ed ho conosciuto la scienza dei santi.
Chi mai è asceso al cielo e n'è disceso? Chi mai ha racchiuso nel suo grembo i venti?
Chi ha raccolto le acque nel suo mantello? Chi mai ha posseduto i confini della terra?
Qual è il suo nome? Qual è il nome di suo Figlio? ( Pr 30,4 )
Delle ultime frasi, ricordate alla fine, una è riferita al Padre, cioè: Qual è il suo nome?, in quanto aveva detto: Dio m'ha insegnato la sapienza; l'altra è riferita evidentemente al Figlio, perché dice: Qual è il nome del Figlio?, in quanto tutte le altre espressioni si spiegano meglio se s'intendono del Figlio, e cioè Chi mai è asceso in cielo e n'è poi disceso?
La stessa espressione è ricordata da Paolo con le seguenti parole: Colui che discese, è lo stesso che ascese pure al di sopra di tutti i cieli. ( Ef 4,10 )
L'espressione: Chi ha racchiuso nel suo grembo i venti?
Indica le anime dei credenti raccolte nel nascondimento e nel segreto, alle quali viene detto: Voi infatti siete morti e la vostra vita è stata nascosta con Cristo in Dio. ( Col 3,3 )
L'espressione: Chi ha raccolto le acque nel suo mantello? è simile a quest'altra: Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. ( Gal 3,27 )
Chi ha posseduto i confini della terra? È Colui che disse ai suoi discepoli: Mi sarete testimoni in Gerusalemme e in tutta la Giudea e la Samaria e sino ai confini della terra. ( At 1,8 )
L'ultima questione riguarda Giona, e non è motivata da Porfirio, ma piuttosto da un'irrisione dei pagani.
Ecco in quali termini è espressa: "Che cosa infine - dice - dobbiamo pensare di Giona, il quale si racconta che sia stato tre giorni nel ventre d'un cetaceo?
Una simile cosa è άπίθανον, è cioè incredibile che un uomo fosse ingoiato interamente vestito e rimanesse nell'interno d'un pesce.
Se invece si tratta di un'allegoria, ti prego di spiegarmela.
Che vuol dire inoltre l'edera nata e cresciuta al di sopra di Giona dopo essere stato vomitato dal pesce? ( Gn 2,1; Gn 4,6 )
Per qual motivo poi questa sarebbe nata?
Ho notato infatti che questo particolare della questione ha suscitato grandi scrosci di risa tra i pagani".
A questa obiezione si risponde così: o non si deve credere a nessun miracolo compiuto da Dio o non c'è alcun motivo per non credere a questo.
Se la fede dei Cristiani dovesse stare attenta ad evitare le beffe dei pagani, non dovremmo credere neppure alla risurrezione di Cristo avvenuta tre giorni dopo la sua morte.
Il nostro amico però non ha avanzato a questo proposito la questione se si debba credere che Lazzaro sia risuscitato il quarto giorno dopo la sua morte o se Cristo stesso sia risorto tre giorni dopo la sua morte; perciò mi stupisco assai che abbia affermato essere incredibile che ciò avvenisse nel caso di Giona: salvo che egli non giudichi la risurrezione d'un morto dal sepolcro più facile della possibilità che uno si conservasse vivo nell'ampio ventre d'un animale.
A non voler ricordare l'immensa mole dei mostri marini quale ci è mostrata dagli scienziati, chi non arriverebbe ad immaginare quanti individui potrebbe contenere un ventre munito di costole come quelle esposte al pubblico su una parete di Cartagine?
Chi non immagina quanto fosse enorme l'apertura della sua bocca, press'a poco simile a una porta che immetteva nel ventre grande come una spelonca?
Salvo che secondo l'affermazione dell'obiettante, il vestito di Giona impedisse che fosse ingoiato pur restando illeso.
Forse costui immagina che Giona si dovesse raggomitolare per aprirsi un varco attraverso stretti passaggi come se, precipitatosi attraverso il vuoto, fosse stato accolto nel ventre dell'animale prima che questo avesse potuto sbranarlo coi denti.
La sacra Scrittura d'altronde non dice se Giona fosse precipitato nudo o vestito nella caverna dell'animale: si potrebbe pure supporre che vi penetrasse anche nudo, qualora fosse stato necessario che gli fosse tolto il vestito, come si toglie il guscio a un uovo, per poter essere inghiottito più facilmente.
Eppure tali individui si preoccupano tanto del vestito di Giona come se la sacra Scrittura dicesse che il profeta passasse per una specie di finestrina o entrasse nel bagno.
Ma anche in questo caso, qualora fosse stato necessario entrarvi vestito, a parte il sentire un po' di molestia, che cosa mai ci sarebbe stato di strano?
Ma tra le difficoltà veramente incredibili, relative a quel miracolo di Dio, c'è quella di spiegare come mai le esalazioni intestinali, da cui i cibi sono rammolliti e resi solubili, potessero essere temperate in modo che conservassero la vita di Giona.
Un fatto molto più credibile di questo, ch'essi potrebbero obiettarci, è quello dei tre giovani che, gettati nella fornace dall'empio re, passeggiavano illesi in mezzo alle fiamme. ( Dn 3,20-24 )
Ora, se questi individui rifiutano di credere a qualsiasi miracolo divino, occorre confutarli con altri argomenti.
A dire il vero, non dovrebbero obiettarci e porre in discussione un fatto particolare come incredibile, ma bensì tutti i fatti dello stesso genere che si raccontano, altrettanto meravigliosi o anche più straordinari.
Supponiamo che quanto si legge di Giona nella sacra Scrittura, si affermasse compiuto da Apuleio di Madàura o da Apollonio: di essi infatti, senza fondarsi su alcuna testimonianza sicura, vengono osannati molti miracoli compiuti, quantunque anche i demoni compiano azioni simili a quelle degli Angeli santi, non certo reali ma solo apparenti, non sagge ma ingannatrici.
Supponiamo - dicevo - che di costoro, che chiamano col nome onorifico di maghi e di filosofi, si narrasse qualche fatto simile a quello di Giona; ecco che allora dalla bocca dei pagani non uscirebbero fragorose risate, ma espressioni d'orgoglioso stupore.
Ebbene, scherniscano pure le nostre Scritture, le scherniscano quanto possono, sebbene si accorgano d'essere ogni giorno più rari e ridotti di numero o perché molti muoiono o perché molti si convertono; le scherniscano pure, sebbene si avverino tutte le profezie fatte dai Profeti, che tanti secoli prima schernirono i nostri avversari prevedendo, nella lotta contro la verità, gl'inutili combattimenti, i vani abbaiamenti, i successivi fallimenti e a noi, loro posteri, non solo lasciarono le profezie perché le leggessimo ma ci assicurarono pure che ne avremmo toccato con mano l'adempimento.
Orbene, non è per nulla assurdo e fuor di proposito che si ricerchi il significato di tali fatti.
Nello spiegarli si deve credere non solo alla loro realtà storica ma pure al significato per cui sono stati tramandati nella sacra Scrittura.
Chi dunque vuole indagare il perché del fatto di Giona, anzitutto non deve mettere in dubbio che il profeta rimase tre giorni nel ventre d'un enorme cetaceo, poiché ciò non è avvenuto senza un perché ma ad ogni modo è realmente avvenuto.
Mi spiego: se ci sentiamo spinti a credere da cose presentateci solo come allegorie senz'aver nessun fondamento di realtà, quanto più debbono spingerci quelle che non sono soltanto espressioni allegoriche, ma sono anche fatti realmente accaduti?
Poiché, come noi siamo soliti esprimerci con parole, così la potenza divina parla pure mediante i fatti.
E come le parole nuove o meno usate, se inserite con misura e con garbo nel discorso umano, vi aggiungono splendore, così in un certo senso è più splendida l'eloquenza di Dio, se si esprime con fatti meravigliosi capaci di svelare una particolare verità.
Ma perché mai indaghiamo il motivo per cui il cetaceo restituì vivo dopo tre giorni il profeta Giona da esso inghiottito, dal momento che ce ne dà la spiegazione Cristo in persona?
Questa generazione - egli dice - chiede un segno, ma non le sarà dato altro segno che quello del profeta Giona.
Come infatti Giona stette tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo starà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. ( Mt 12,39 )
In qual modo poi siano da contare i tre giorni della morte di Cristo, cioè prendendo il tutto per la parte quando si tratta del primo e dell'ultimo, in modo che siano computati tre giorni interi con le relative notti, sarebbe troppo lungo discutere; del resto è stato spiegato molte volte in altri discorsi.
Come Giona, dunque, dalla nave precipitò nel ventre del cetaceo, così Cristo dal legno della croce discese nel sepolcro e nell'abisso della morte.
E come Giona si sacrificò per salvare i marinai ch'erano in pericolo a causa della tempesta, così fece pure Cristo per gli uomini viventi tra i flutti agitati di questo mondo.
Parimenti, come dapprima fu ordinato a Giona di predicare agli abitanti di Ninive, ma la sua predicazione non giunse loro se non dopo ch'egli fu rigettato dal cetaceo, così il messaggio profetico destinato ai pagani non giunse loro se non dopo la risurrezione di Cristo.
Col fatto poi che Giona si costruì un padiglione e vi si attendò di fronte alla città attendendo che cosa le sarebbe capitato, il profeta mostrava un altro aspetto del simbolo da lui rappresentato e relativo al popolo carnale d'Israele.
Questo infatti provava rincrescimento per la conversione dei Niniviti, ossia per la redenzione e la salvezza dei pagani.
Ecco perché Cristo venne a chiamare alla penitenza non i giusti, ma i peccatori. ( Lc 5,32 )
L'ombra quindi della zucca sulla testa di Giona simboleggiava le promesse, oppure le stesse prescrizioni ed osservanze dell'Antico Testamento, nelle quali, al dire dell'Apostolo, era la prefigurazione delle realtà future, ( Col 2,17 ) mostrando il riparo che avremmo avuto dalla vampa dei mali temporali nella terra promessa.
Il verme mattutino poi, che fece seccare la zucca rodendola, è un altro simbolo di Cristo, dalla cui bocca fu divulgato il Vangelo, per cui tutte le prescrizioni temporali, vigenti presso gl'Israeliti come altrettante prefigurazioni simboliche, sono diventate ormai inutili, prive come sono d'ogni forza.
Inoltre quel popolo, perduto il regno di Gerusalemme, il sacerdozio e il sacrificio ( tutte prefigurazioni del futuro ), si sente ora come bruciato dalla vampa della tribolazione per essere disperso e schiavo, come - al dire della sacra Scrittura - Giona dalla canicola era tormentato atrocemente; ( Gn 4,8 ) eppure Dio si preoccupava non tanto del suo dolore e dell'ombra da lui desiderata, quanto della salvezza dei pagani e delle altre persone che fanno penitenza.
E sghignazzino ancora i pagani e ci scherniscano con ancor più superba petulanza per il fatto che un verme è simbolo di Cristo e per la spiegazione da me data di tale allegoria profetica, fino a quando non li distrugga insensibilmente e a poco a poco lo stesso verme.
Poiché ha rapporto con questi cotali la predizione d'Isaia, per bocca del quale Dio ci dice: Ascoltatemi, voi che conoscete la giustizia, o popolo mio, tu che hai la mia legge nel cuore; non temete gli obbrobri degli uomini, non abbiate paura dei loro oltraggi e non fate gran conto che vi disprezzino.
Poiché saranno consumati dal tempo come un vestito, saranno divorati come la lana dalla tignola, mentre la mia giustizia rimane in eterno. ( Is 51,7s )
Noi dunque riconosciamo il verme del mattino: poiché anche nel salino intitolato Per l'aiuto del mattino, Cristo s'è degnato di attribuirsi questo nome dicendo: Io sono un verme e non un uomo, l'obbrobrio degli uomini e il rifiuto della plebe. ( Sal 21,7 )
Quest'obbrobrio è di quelli che ci si comanda di non temere per bocca dello stesso Isaia: Non temete gli obbrobri degli uomini. ( Is 51,7 )
Da questo verme sono distrutti, come da una tignola, coloro i quali, con loro stupore, sotto il dente del suo Vangelo sono assottigliati e ridotti a un numero ogni giorno minore.
Noi però riconosciamolo, e, per ottenere la salvezza da Dio, soffriamo pure gli oltraggi degli uomini.
Cristo poi è verme per la bassezza della sua carne e forse pure per esser nato dalla Vergine.
Il verme infatti generalmente nasce dalla carne o da qualunque altra materia della terra senz'accoppiamento carnale.
È poi verme del mattino perché è risorto al sorgere del giorno.
Va da sé che quella zucca sarebbe potuta seccare anche senza l'azione del verme.
Infine, anche se Dio aveva necessità d'un verme per farla seccare, che bisogno c'era d'aggiungere l'attributo "mattutino", se non perché si riconoscesse in quel verme Colui che nel salmo Per l'aiuto del mattino canta: Io sono un verme e non un uomo?
Che v'è di più chiaro di questa Profezia, com'è dimostrato dalla sua realizzazione e dall'avverarsi dei fatti simboleggiati?
Questo "verme" fu schernito quando pendeva dalla croce, come sta scritto nel medesimo salmo: Sogghignavano con le labbra e scuotevano la testa.
Ha sperato nel Signore; venga lui a liberarlo e a salvarlo, giacché lo ama; fu schernito quando si avverarono altre circostanze ivi predette e cioè: Hanno forato le mie mani e i miei piedi, hanno contato tutte le mie ossa.
Poi mi hanno guardato e contemplato; si sono divise le mie vesti e hanno gettato la sorte sulla mia tunica. ( Sal 22,8.17.19 )
Tutti questi fatti sono preannunciati nell'Antico Testamento con la stessa chiarezza con cui si leggono avverati nel Vangelo; ma se per la sua abiezione il "verme" è stato schernito, dovrà forse essere ancora schernito, dal momento che noi stessi li vediamo avverati?
Questo particolare si legge subito appresso nel medesimo salmo: Si ricorderanno e si convertiranno al Signore tutti i paesi della terra e si prostreranno ad adorarlo tutte le famiglie delle genti; poiché al Signore appartiene il regno ed egli sarà il sovrano delle genti. ( Sal 22,28s )
Così si ricordarono i Niniviti e si convertirono al Signore.
Fu questa salvezza dei pagani, mediante la penitenza, prefigurata tanto prima in Giona, ad addolorare Israele, come s'addolora attualmente d'essere privato dell'ombra e colpito dai dardi della canicola.
Ciascuno potrà naturalmente spiegare in qualunque modo gli piacerà tutte le altre particolari prefigurazioni allegoriche adombrate nel profeta Giona, purché la spiegazione sia in armonia con la regola della fede.
Al fatto però d'essere stato per tre giorni nel ventre del cetaceo non è lecito dare una spiegazione diversa da quella rivelata, come abbiamo ricordato, dallo stesso celeste Maestro nel Vangelo.
Ecco le risposte che sono stato capace di dare alle questioni proposte.
Chi però le ha avanzate, cerchi di diventare ormai cristiano, altrimenti potrebbe esserci pericolo che, mentre attende a definire mediante una spiegazione le questioni contenute nei Libri Santi, giunga al termine di questa vita prima di passare dalla morte alla vita dello spirito.
Potrebbe insomma succedere che sollevi quesiti sulla risurrezione dei morti prima d'essere istruito sui misteri cristiani.
Ammettiamo pure che sia lecito chiedere perché Cristo sia venuto dopo tanti anni o chiedere spiegazioni su simili pochi ma importanti quesiti, ai quali tutti gli altri devono rimanere in sott'ordine.
Se però costui, prima di diventare cristiano, pensa di dare una spiegazione precisa e definitiva a questioni come quella relativa alla massima: Con la stessa misura con cui misurerete, sarete misurati anche voi oppure quest'altra concernente Giona, vuol dire che riflette poco alla propria condizione di uomo e alla propria età già avanzata.
Innumerevoli sono in realtà le questioni che non potrebbero essere definite con una spiegazione prima d'aver la fede, senza correre il pericolo di finire la vita senza la fede.
Ma una volta che si possiede una salda fede, si possono fare tali ricerche col più vivo interesse, come un devoto e dilettevole esercizio della mente di fedeli, e comunicare agli altri senza boria o arroganza ciò che risultasse chiaro, mentre si possono tollerare senza pregiudizio della propria salvezza i punti che rimanessero oscuri.
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1 | Livio 1, 49 |