Lettere |
Scritta tra il 413 e il 414.
Agostino risponde a Macedonio e gli dimostra quale debba essere il vero amico ( n. 1 ) e come la felicità non si trovi nella sapienza o nella virtù, come vorrebbero gli Stoici ( n. 2-3 ), ma unicamente in Dio, dal quale viene l'aiuto per superare le sventure terrene ( n. 4-9 ); si diffonde poi a parlare della vera sapienza e della perfetta virtù ( n. 10-13 ), dell'amore di Dio e del prossimo ( n. 14-15 ), della speranza cristiana e della pietà, ossia del vero culto di Dio ( n. 16-17 ).
Agostino, servo di Cristo e della sua Chiesa, saluta nel Signore il diletto figlio Macedonio
Pur riconoscendo di non possedere la sapienza che mi attribuisci, sento nondimeno il dovere di ringraziarti assai della tua sincera e gran bontà a mio riguardo.
Godo inoltre che le fatiche dei miei studi sono piaciute ad un personaggio così qualificato quale sei tu.
Ma godo assai di più perché riconosco che il tuo animo, spinto dall'amore dell'eternità e della verità, nonché il sentimento amoroso del tuo cuore aspirano con avidità al possesso della città celeste; godo perché mi accorgo che si avvicinano a questa città e li tengo in gran pregio nel vederli ardere dalla brama di arrivare a possederla.
Il re di questa città celeste, l'unica in cui si deve vivere per sempre e nella beatitudine, purché quaggiù si viva nella rettitudine e nella pietà religiosa, è Cristo.
Da tali sentimenti ha origine anche la, vera amicizia che non dev'essere misurata sui vantaggi temporali ma deve essere valutata alla stregua d'un amore puro e disinteressato.
Nessuno infatti può essere veramente amico dell'uomo se non è innanzi tutto amico della verità: questo amore se non è disinteressato non è assolutamente possibile.
Su tale argomento hanno discusso molto anche i filosofi, ma nei loro scritti non si trova alcun cenno del vero sentimento religioso, cioè del genuino culto del vero Dio.
La causa di ciò è - a mio parere - ch'essi hanno voluto fabbricarsi la felicità a modo loro e hanno creduto ch'era necessario procacciarsela da sé stessi anziché impetrarla, mentre Colui che la concede è soltanto Iddio, poiché rende felice l'uomo soltanto Chi l'ha creato.
In realtà Chi elargisce ai buoni e ai cattivi si grandi beni della sua creazione vale a dire l'esistenza, la natura umana, la vigoria dei sensi, l'energia fisica, l'abbondanza delle ricchezze, darà sé stesso ai buoni affinché siano felici, poiché anche l'essere buoni è dono di Lui.
Al contrario i filosofi i quali in questa vita piena d'affanni, con queste membra destinate alla morte, sotto il peso della carne corruttibile, hanno voluto essere autori e, per così dire, creatori della propria felicità come se potessero raggiungerla e quasi averla in possesso con le proprie virtù, senza chiederla e sperare di attingerla dalla fonte delle virtù, non hanno potuto affatto comprendere che Dio resisteva alla loro superbia.
Sono caduti perciò in un errore del tutto assurdo: mentre cioè affermano che il sapiente può esser felice perfino entro il toro di Falaride, sono costretti d'altra parte ad ammettere che talvolta bisogna fuggire questa vita felice.
In realtà essi cedono di fronte ai mali fisici divenuti eccessivi, e dichiarano che si deve partire da questa vita quando le molestie sono troppo dolorose.
Non voglio ora dire quale delitto commetterebbe un innocente col togliersi la vita da se stesso, dal momento che non si deve uccidere assolutamente neppure un delinquente: di quest'argomento ho trattato ampiamente già nel primo dei tre libri che tu hai letti con tanta benevolenza e ossequio.1
Vorrei però che almeno si considerasse e si giudicasse con modestia, senza orgoglio, in qual modo può esser felice la vita che il sapiente non gode mentre la possiede, ma è costretto a strapparsela con le proprie mani!
Nell'ultima parte del quinto libro delle Tusculane di Cicerone2 - come tu sai - c'è un passo relativo a ciò che io sto dicendo e sul quale richiamo la tua attenzione.
Trattando della cecità fisica e affermando che, quantunque cieco, il sapiente può esser felice, ricorda molte cose ascoltando le quali egli potrebbe trar godimento.
Allo stesso modo, nel caso che uno fosse sordo, potrebbe trasferire agli occhi le occasioni dei suoi possibili godimenti.
Cicerone però non osa esprimere la propria opinione nel caso che il sapiente rimanesse privo della vista e dell'udito e non osa chiamare felice un tal disgraziato; aggiunge invece che, se i più strazianti dolori fisici non togliessero di mezzo il sapiente, costui potrebbe uccidersi da se stesso per liberarsene coraggiosamente e giungere così al porto dell'insensibilità.3
Il sapiente dunque cede ai più terribili mali e soccombe fino al punto che viene costretto a commettere il suicidio.
Chi mai risparmierebbe uno che non risparmia se stesso per liberarsi da quei mali? si, il, sapiente è sempre felice, si, non può perdere, a causa d'alcuna sventura, la felicità posta in suo potere; ma ecco che soppravvenendo la cecità o la sordità o atrocissimi dolori fisici, il sapiente perde la vita felice oppure, se anche nelle angustie di simili tormenti essa è ancor felice, ecco che per causa delle dissertazioni di siffatte cime di dotti, cotesta vita felice diviene talvolta tale che il sapiente non può sopportarla oppure, cosa ancor più assurda, il sapiente non deve sopportarla, anzi deve fuggirla, spezzarla, gettarla via e sbarazzarsene con la spada, col veleno o andando incontro ad altra morte volontaria al fine di giungere al porto dell'insensibilità e all'annullamento completo, come credettero gli Epicurei e altri filosofi, pazzi come loro, oppure sarebbe felice per essersi sbarazzato della vita felice come da un flagello.
Oh! presunzione di spiriti orgogliosi! Se la vita perdura felice tra i dolori fisici, perché il sapiente non rimane in vita per goderla?
Se invece è infelice, perché mai - ti domando io - salvo che la superbia glielo impedisca, il sapiente non lo ammette, non prega Dio, non supplica la giustizia e misericordia di Colui, che può allontanare o almeno mitigare i mali di questa vita, di darci forza per sopportarli oppure di liberarcene interamente per concederci, dopo tante sofferenze, la vera vita felice scevra d'ogni male e nella quale non si potrà mai perdere il sommo Bene?
È questo il premio dei giusti: nella speranza di ottenerlo noi passiamo la vita temporale e mortale più con pazienza che con piacere e ne sopportiamo i mali sorretti dai buoni propositi e dalla grazia di Dio, pieni di gioia per la fedele promessa di Dio e la nostra fiduciosa attesa dei beni eterni.
L'apostolo Paolo, esortandoci a questi sentimenti, dice: Siate lieti per la speranza ( del premio eterno ), pazienti nelle afflizioni ( Rm 12,12 ) dimostra in tal modo che il motivo d'essere pazienti nelle afflizioni sta in ciò che dice prima, d'essere cioè lieti nella speranza.
A questa speranza ti esorto nel nome di Gesù Cristo nostro Signore.
Questo stesso divino Maestro che teneva la gloria della sua maestà nascosta sotto l'aspetto della debolezza insita nell'umana natura, non solo c'insegnò la stessa cosa con la sua parola divina, ma ce la confermò pure con l'esempio della sua passione e della sua risurrezione.
Con l'una c'insegnò che cosa dobbiamo sopportare, con l'altra che cosa dobbiamo sperare.
Anche i filosofi potrebbero meritare questa grazia, se tronfi e gonfi d'orgoglio non si sforzassero invano di fabbricarsi da sé stessi la felicità che Dio soltanto ha promesso in modo veridico di concedere dopo questa vita ai suoi adoratori.
Più assennata è l'altra massima di Cicerone che dice: Questa vita infatti è davvero una morte, per la quale ben potrei deplorare le miserie, sol che ne avessi voglia.4
Come mai dunque si dimostra che la vita è felice, se giustamente se ne deplorano le miserie?
Non è piuttosto vero il contrario, che cioè se giustamente se ne deplorano le miserie si dimostra ch'essa è infelice?
Ti scongiuro quindi, mio illustre amico, di abituarti intanto a esser felice nella speranza, per esserlo un giorno anche nella realtà, allorché sarà dato il premio dell'eterna felicità alla ferma tua perseveranza nella pietà.
Se io ti annoio con questa lunga lettera, il guaio l'hai combinato proprio tu,5 poiché mi hai chiamato sapiente.
Ecco perché ho osato parlarti di questi argomenti, non per ostentare presso di te la sapienza che io non posseggo, ma per mostrarti quale dev'essere.
Essa, nella vita presente, consiste nel vero culto del vero Dio, affinché nella vita futura il godimento di lui sia sicuro e intero: quaggiù la più perseverante pietà, lassù l'eterna felicità.
Se possiedo un po' di questa sapienza, ch'è l'unica vera, non ho la presunzione che sia una mia proprietà ma l'ho attinta da Dio e spero che sarà portata a maturazione da Colui dal quale, umilmente si, ma con gioia, riconosco che me n'è stato infuso il germe: non sono poi incredulo riguardo a quanto non m'ha ancora elargito né ingrato per quanto per quanto m'ha già concesso.
Se infatti ho qualche dote degna di lode, non lo devo alla mia indole né al mio merito, ma a un dono di Lui.
Alcuni ingegni, molto acuti e superiori agli altri, sono caduti in errori tanto più gravi con quanto maggior fiducia in sé stessi hanno voluto correre quasi con le proprie forze senza pregare con umiltà e sincerità Iddio di mostrar loro la vera strada!
Quali meriti, al contrario, possono avere gli uomini, quali che essi siano, dal momento che Dio, venendo sulla terra non con la ricompensa dovuta ma con la grazia gratuita, li ha trovati tutti peccatori, mentre egli è l'unico ad essere immune da peccati e l'unico salvatore?
Se dunque troviamo la nostra gioia nella vera virtù, rivolgiamoci a Dio con le parole che leggiamo nelle sue Sacre Scritture: Te solo, o Signore, mia forza, io amerò: ( Sal 18,2 ) se vogliamo essere veramente felici - né possiamo non volerlo - teniamo bene a mente la massima imparata dalle stesse Sacre Scritture: Beato chi ripone la propria speranza nel Signore e non segue la falsità né le pazzie menzognere. ( Sal 40,5 )
Orbene, qual falsità, quale pazzia, qual menzogna non è che l'uomo, soggetto alla morte, che mena una vita piena d'affanni, oppresso da tanti peccati, esposto a tante tentazioni, schiavo di tante passioni e destinato a pene meritate, confidi in se stesso per essere felice, dal momento che non può preservar dall'errore neppure la parte più nobile del proprio essere, cioè la mente e la ragione senza l'aiuto di Dio, luce dell'intelligenza?
Rigettiamo quindi, te ne prego, le stolte e pazze menzogne dei falsi filosofi, poiché non avremo la virtù senza l'aiuto di Dio né la felicità senza l'assistenza di Lui stesso, che sarà il nostro godimento, che mediante il dono dell'immortalità e dell'incorruttibilità distruggerà la parte mutevole e corruttibile del nostro essere, che per se stesso è molto debole e, per così dire, una miniera di miserie.
E poiché io conosco il tuo devoto attaccamento allo Stato, considera come la felicità delle singole persone e dello Stato ha la medesima origine. Infatti il Salmista, ispirato dallo Spirito Santo, prega in questi termini: Liberami dalle mani degli stranieri, la cui lingua pronuncia menzogne, la cui destra è piena d'iniquità.
I loro figli sono come virgulti vigorosi nella loro giovinezza.
Le loro figlie sono abbigliate e ornate a guisa d'un tempio.
Le loro dispense sono piene e traboccano d'ogni bene.
Le loro pecore sono feconde e si moltiplicano con i loro parti; le loro vacche sono pingui.
Non v'è breccia o apertura nelle loro mura né pianto nelle loro piazze.
Felice chiamano il popolo che possiede questi beni; felice invece è il popolo che per suo Dio ha il Signore. ( Sal 144,11-15 )
Ora tu vedi che un popolo non è proclamato felice per l'accumulazione dei beni terreni se non dagli estranei, cioè da coloro che non appartengono alla rigenerazione, mediante la quale diventiamo figli di Dio.
Il Salmista prega d'essere liberato dalle mani di costoro, per non essere attratto nella loro mentalità e nei loro peccati d'empietà.
Essi infatti con linguaggio mendace han chiamato felice il popolo, che possiede i beni ricordati del Salmista, beni che costituiscono l'unica felicità di cui vanno in cerca quelli che amano questo mondo.
Ecco perché la toro destra è iniqua; perché costoro mettono al primo posto ciò che deve mettersi al secondo, come la destra è preferibile alla sinistra.
Se infatti quei beni sono posseduti, non si deve far consistere in essi la felicità; devono servire, non dominare: seguire, non comandare!
Il Salmista che pregava così e desiderava d'esser liberato e separato dagli stranieri che hanno chiamato felice il popolo che possiede quei beni, a una domanda che gli si sarebbe potuta rivolgere come questa: " Ma tu come la pensi? Qual popolo chiami felice? ", non risponde " felice è il popolo che ha la propria virtù in sé stesso ".
Se avesse risposto in tal modo, avrebbe fatto bensì anche distinzione tra questo popolo e quello che ripone la felicità nella prosperità visibile e materiale, ma non avrebbe ancora oltrepassato tutte le falsità e le pazze menzogne.
Maledetto, infatti, chi ripone la sua speranza nell'uomo ( Ger 17,5 ), come insegnano le medesime Sacre Scritture in un altro passo; dunque nessuno deve riporre la speranza neppure in se stesso, poiché anch'egli è un uomo.
Per oltrepassare quindi le linee di confine di tutte le falsità e pazzie menzognere e per collocare la felicità in ciò in cui veramente consiste, il Salmista soggiunse: Beato invece è il popolo che ha per suo Dio il Signore.
Tu vedi dunque a Chi bisogna chiedere ciò che desiderano tutti, istruiti e ignoranti, e che molti, per ignoranza o superbia, non sanno a chi si debba chiedere e come si possa ottenere.
In un salmo poi sono biasimati tanto coloro che confidano nella propria forza quanto coloro che si vantano dell'abbondanza delle loro ricchezze, ( Sal 49,7 ) cioè non solo i filosofi di questo mondo, ma altresì quanti, pur lontani da tali scuole filosofiche, chiamano felice il popolo che sia ricco di beni terreni.
Chiediamo quindi a Dio, nostro Signore, il quale ci ha creati, sia la forza per vincere i mali di questa vita, sia la felicità da godere nella sua eternità dopo la vita presente, affinché, secondo quanto dice l'Apostolo: chi si vuol vantare, si vanti nel Signore. ( 2 Cor 10,17 )
Ecco quale dev'essere l'oggetto dei desideri per voi e per lo Stato, di cui siamo cittadini: in effetti una medesima origine ha la felicità dello Stato e quella dell'uomo, poiché uno Stato non è altro che la concorde società degli uomini.
Di conseguenza, se tutta la tua prudenza con cui ti sforzi di procurare il bene comune nel disbrigo delle faccende umane; se tutta la tua fortezza con cui ti mostri coraggioso nell'affrontare la malvagità degli avversari; se tutta la tua, temperanza con cui sai preservarti dalla corruzione in mezzo al fango dei più depravati costumi umani; se tutta la tua giustizia don cui nel giudicare dai a ciascuno il suo; se - dico - tutte queste virtù hanno di mira e tendono con ogni sforzo a salvaguardare l'incolumità fisica, la tranquillità e la sicurezza dagli attacchi dei malviventi per tutti coloro dei quali desideri il bene; se ti preoccupi solo che abbiano figli simili a virgulti vigorosi e rigogliosi e le figlie adorne come un tempio, le dispense traboccanti d'ogni ben di Dio, le pecore feconde, le vacche pingui, senza brecce nella cinta delle mura che guastino le loro proprietà, e che non risuonino nelle loro piazze le grida dei litiganti, le tue virtù non saranno autentiche, come non sarà autentica neppure la loro felicità.
Non deve qui impedirmi di dir la verità la mia rispettosa discrezione, che tu hai elogiata con gentili espressioni nella tua lettera.6
Se la tua amministrazione - ripeto - di qualunque specie essa sia, dotata delle virtù su accennate, ha per unico scopo quello di preservare le persone da qualsiasi ingiustizia e molestia fisica e non reputi tuo dovere di conoscere a quale scopo esse facciano servire la tranquillità che ti sforzi di procurare ad esse, cioè - per parlar senza ambagi - in qual modo adorino il vero Dio nel quale risiede tutto il godimento di ogni vita tranquilla, tutti i tuoi sforzi non ti gioverebbero a nulla per raggiunger la vera felicità.
Può darsi ch'io dica ciò con troppo poco rispetto e quasi dimentico dell'abitudine che ho nell'intercedere per gli altri.
Ma se la riservatezza non è altro che un certo timore di dispiacere, non mi vergogno in questo caso d'aver timore, poiché temo con ragione di dispiacere prima a Dio e poi alla stessa amicizia che ti sei degnato di stringere meco, qualora usassi minor libertà nel darti i consigli che stimo assai utili alla salvezza della tua anima.
Dovrò essere, certo, più riservato quando intercederò presso di te per gli altri, ma quando parlo per il bene di te stesso sarò tanto più franco quanto più ti sono amico, poiché ti sarò tanto più amico, quanto più ti sarò leale.
Non ti direi d'altronde queste stesse cose, se non agissi con una certa riservatezza.
Se è questa - come tu scrivi - " il mezzo più efficace per risolvere le difficoltà tra i galantuomini ", m'aiuti essa a farti del bene affinché io goda di te e con te di Colui che m'ha dato la possibilità d'entrare nella tua fiducia ed amicizia, soprattutto perché penso che i miei suggerimenti siano facili ad essere praticati dal tuo spirito, aiutato e fortificato da tanti favori divini.
Se infatti, persuaso che hai ricevuto da Dio le virtù che possiedi, te ne mostrerai riconoscente e le userai per servirlo con spirito di religione anche nelle tue alte cariche, incoraggerai e condurrai al suo servizio le persone soggette alla tua giurisdizione con l'esempio della tua vita religiosa e con lo stesso zelo con cui provvedi al loro bene, sia accordando loro dei favori sia incutendo loro il timore; se procurando loro tranquillità in questa vita, non hai altro scopo che quello di renderli degni di possedere Colui presso il quale potranno vivere felici, allora si che le tue virtù saranno autentiche.
Non solo; ma col benigno aiuto di Colui, che te le ha largite, cresceranno e si perfezioneranno in modo da condurti sicuramente alla vita veramente felice, la quale non può essere se non eterna.
Lassù non ci sarà bisogno della prudenza per distinguere il bene dal male, poiché questo non vi sarà, né della fortezza per sopportare le avversità, poiché vi saranno creature da amarsi, non da sopportarsi; non ci, sarà bisogno della temperanza per frenare le sensualità, poiché non ne sentiremo gli stimoli, né avremo bisogno della giustizia per venire in soccorso degli indigenti, poiché non vi sarà più alcun povero o indigente.
Lassù ci sarà una sola virtù, che sarà nello stesso tempo premio della virtù, come s'esprime nelle Sacre Scritture il Salmista, che n'è innamorato: Il mio bene è stare unito a Dio. ( Sal 73,28 )
In ciò consisterà la piena ed eterna sapienza del paradiso e nello stesso tempo la genuina felicità, poiché è l'approdo all'eterno e sommo Bene; essere uniti in eterno ad esso è il culmine della nostra felicità.
Ciò si potrebbe chiamare anche prudenza, poiché sarà somma prudenza restare sempre uniti al bene che non si potrà mai perdere; sarà fortezza, poiché sarà un rimanere saldamente uniti al bene, dal quale non potremo essere staccati; sarà temperanza poiché ci uniremo con perfetta castità, al bene che non soffre corruzione; sarà infine giustizia poiché ci uniremo con somma rettitudine al bene al quale con tutta ragione dovremo sottometterci.
Con tutto ciò, anche in questa vita la virtù non è altro che amare ciò che si deve amare: sceglierlo è prudenza, non esserne distaccati da nessuna molestia è fortezza, da nessuna lusinga è temperanza, da nessun sentimento di superbia è giustizia.
Che cosa poi dovremmo scegliere come l'oggetto più degno del nostro amore, se non quello di cui non si, trova di meglio, cioè Dio?
Se anteponiamo o uguagliamo a Lui nell'amore qualche altro oggetto, vuol dire che non sappiamo amare noi stessi.
Tanto meglio, sarà per noi, quanto più ci, avvicineremo a Colui, del quale non, v'è nulla di meglio; verso di Lui poi si va non camminando ma amando, ed avremo Dio tanto più vicino al cuore quanto più puro sarà lo stesso amore che ci porta verso di Lui, poiché non si estende o è racchiuso entrò spazi fisici.
Non coi piedi dunque, ma coi buoni costumi si può andare verso di Lui, ch'è dovunque presente ed intero ovunque.
I nostri costumi inoltre di solito vengono giudicati non in base a ciò che sappiamo, ma a ciò che amiamo, e sono resi buoni o cattivi dai buoni o cattivi affetti.
È dunque la nostra perversità ad allontanarci da Dio ch'è la rettitudine in persona; noi poi ci correggiamo amando la rettitudine per poter essere rettamente uniti alla rettitudine in persona.
Adoperiamoci dunque con tutti i nostri sforzi per far giungere, a Lui anche quelli che amiamo come noi stessi, se sappiamo già amare noi stessi mediante l'amore verso di Lui.
In realtà Cristo, cioè la Verità in persona, afferma che tutta la Legge e i Profeti dipendono da questi due comandamenti: amare cioè Dio con tutto il cuore con tutta l'anima, con tutta l'intelligenza e il prossimo come noi stessi. ( Mt 22, 37ss )
Il " prossimo ", di cui parla questo passo, non dobbiamo prenderlo nel senso di chi ci è congiunto per parentela carnale, ma per la comunanza della ragione che lega tra loro tutti gli uomini in un'unica società.
Se infatti ci associa il rapporto del danaro, quanto più ci deve legare il rapporto della natura per la legge non d'un comune commercio, ma della comune provenienza.
Ecco perché anche il famoso comico - giacché lo splendore della verità non difetta agli ingegni brillanti - in un dialogo, che immagina si svolga tra due vecchi, fa dire ad uno d'essi: I tuoi affari ti lasciano forse tanto tempo libero, da occuparti anche di quelli degli altri, che non ti riguardano affatto?
Al che l'altro risponde: Sono uomo e penso che nessun fatto umano debba essermi indifferente!7
Si narra altresì che l'intero teatro, pieno di gente stolta e ignorante, applaudì la suddetta battuta, tanto la comunanza delle anime umane aveva commosso il sentimento comune di tutti, che ciascuno dei presenti si sentì " prossimo " di qualunque altro uomo.
Sebbene dunque si debba amare Dio, sé stessi e il prossimo con l'amore ch'esige la legge divina, non per questo furono dati tre precetti e non fu detto: " Da questi tre precetti ", ma Da questi due precetti dipende tutta la Legge e i Profeti, ossia dall'amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta l'intelligenza e il prossimo come se stessi.
Con ciò Dio volle farci capire, naturalmente, che non esiste altro vero amore, con cui si ama se stessi, tranne quello di Dio.
Deve infatti dirsi che amarsi in modo diverso è odiarsi.
Poiché in tal modo l'uomo diventa malvagio e si priva della luce della giustizia per il fatto d'allontanarsi dal bene migliore e superiore e rivolgersi ai beni più meschini e inferiori, anche se si volge solo verso se stesso.
Allora, a proposito di lui, s'avvera quanto sta scritto con verità: Chi ama la malvagità, odia se stesso. ( Sal 11,6 )
Poiché quindi nessuno ama se stesso se non amando Iddio, non era necessario che, oltre al precetto d'amare Dio, fosse dato anche quello d'amare se stessi, poiché chi ama Dio, ama anche se stesso.
Dobbiamo dunque amare anche il prossimo come noi stessi in modo da condurre ad adorare Iddio chiunque ci sarà possibile consolare con la beneficienza, ammaestrare con la scienza, frenare col castigo, sapendo che da questi due precetti dipende tutta la Legge e i Profeti.
Con tali virtù largite da Dio mediante la grazia di Gesù Cristo Mediatore ( fra Dio e gli uomini ), Dio come il Padre e uomo come noi, ( 1 Tm 2,5 ) per grazia del quale dopo l'inimicizia contratta col peccato veniamo riconciliati con Dio nello Spirito dell'amore, con tali virtù - dico - non solo ci è concesso di trascorrere una buona vita, ma ci viene poi anche data in premio la vita beata che non può essere se non eterna.
Le medesime virtù, che quaggiù ispirano l'azione, lassù avranno il loro effetto; qui sono il movente delle opere, lassù ne saranno il premio; qui compiono il loro ufficio, lassù avranno il coronamento.
Perciò tutti i buoni e i santi, anche in mezzo ai tormenti d'ogni specie, sorretti dall'aiuto divino, sono chiamati beati per la speranza di quel coronamento.
Se infatti restassero sempre negli stessi, tormenti e dolori, atrocissimi, nessuno con la testa a posto esiterebbe a considerarli infelici pur con tutte le virtù possibili e immaginabili.
In conclusione la pietà, cioè il vero culto del vero Dio, è utile a tutto. ( 1 Tm 4,8 )
Essa infatti ci aiuta ad allontanare o ad alleviare le molestie di questa vita e ci conduce alla vita e alla salvezza in cui non dovremo soffrire più alcun male, ma solo godere il sommo eterno Bene.
Come esorto me stesso, così esorto anche te a conseguire più perfettamente e a conservare con fedele perseveranza questa pietà.
Se tu non la possedessi e non credessi tuo dovere mettere al servizio di essa i tuoi onori e cariche temporali, non avresti detto nella tua ordinanza agli eretici Donatisti per farli tornare all'unità e alla pace di Cristo: "È per il vostro bene che, si agisce così; è del vostro bene che si preoccupano i sacerdoti di fede incorrotta, del vostro bene si preoccupa l'Augusto imperatore, per voi ci diamo da fare anche noi, esecutori della sua giustizia "; così molte altre norme contenute nella medesima ordinanza mostrano che, indossando la fascia di giudice, tu pensi non poco alla patria celeste.
Se quindi ho voluto intrattenermi con te un po' a lungo a parlare delle vere virtù e della vita veramente beata, non mi reputare molesto alle tue occupazioni - te ne prego -; anzi non credo d'esserlo neppure io, dal momento che tu hai un animo si grande e così degno da non trascurare le cure del governo e occuparti più volentieri e più abitualmente di quelle religiose.
Indice |
1 | Aug., De civ. Dei, 1,17ss |
2 | Cicer., Tuscul. disput. 38ss |
3 | Cicer., Tuscul. disput. 40, 117: Portus enim praesto est aeternum nihil sentiendi receptaculum |
4 | Cicer., Tuscul. disput. 1, 31, 75 |
5 | Terent., Phorm. 318 |
6 | Ep. 154,1 |
7 | Terent., Heautontim. 1, 1, 75-77 |