Il libero arbitrio |
Ricerchiamo dunque, se vuoi, nel seguente schema:
primo, come si dimostra l'esistenza di Dio;
secondo, se da lui sono tutte le cose in quanto sono buone;
infine, se fra le cose buone sia da porre la libera volontà.
Dalla loro evidenza risulterà apodittico, come ritengo, se essa con ragione sia stata data all'uomo.
E tanto per cominciare con le nozioni più immediate, prima di tutto ti chiedo se tu stesso esisti.
Ma forse temi che nel corso di questo dialogo stai subendo una illusione perché se tu non esistessi, non potresti assolutamente subire illusioni?
E. - Passa ad altro piuttosto.
A. - Dunque poiché è evidente che esisti e non ti sarebbe evidente se non vivessi, è evidente anche che vivi.
E pensi che queste due nozioni sono assolutamente vere?
E. - Lo penso certamente.
A. - Dunque, anche questo è evidente: che tu pensi.
E. - Sì.
A. - E delle tre nozioni quale ritieni superiore?
E. - Il pensiero.
A. - E perché lo ritieni?
E. - Vi sono tre nozioni: essere, vivere e pensare.
Anche la pietra è, anche la bestia vive, ma non penso che la pietra viva e la bestia pensi.
È assolutamente certo invece che chi pensa è e vive.
Non ho alcun dubbio dunque nel giudicare superiore il soggetto, nel quale siano tutte e tre a preferenza di quello, al quale ne manchino due o una sola.
Chi vive, certamente esiste ma non segue che pensi.
E suppongo che tale sia la vita della bestia.
Chi esiste, non per questo vive e pensa.
Posso ammettere che esistono cadaveri, ma nessuno direbbe che vivono.
E chi non vive, a più forte ragione non pensa.
A. - Stiamo affermando dunque che delle tre nozioni due mancano al cadavere, una alla bestia, nessuna all'uomo.
E. - Sì.
A. - Affermiamo anche che delle tre è superiore quella che l'uomo possiede assieme alle altre due, cioè il pensare, perché implica in chi la possiede l'essere e il vivere.
E. - Sì, certamente.
A. - Dimmi ora se conosci di avere i sensi che tutti conoscono: della vista, udito, odorato, gusto e tatto.
E. - Sì.
A. - Che cosa pensi che sia di competenza della vista, cioè cosa pensi che si percepisca con la vista?
E. - Tutti gli oggetti sensibili.
A. - Dunque con la vista percepiamo anche il duro e il molle?
E. - No.
A. - Quale è dunque l'oggetto proprio della vista che con essa si percepisce?
E. - Il colore.
A. - E con l'udito?
E. - Il suono.
A. - Con l'odorato?
E. - L'odore.
A. - Col gusto?
E. - Il sapore.
A. - E col tatto?
E. - Il molle e il duro, il levigato e il ruvido e simili.
A. - E le figure sensibili, grandi e piccole, quadrate e rotonde e simili non si percepiscono forse col tatto e con la vista e quindi non sono di competenza soltanto del tatto o della vista, ma dell'uno e dell'altra?
E. - Comprendo.
A. - Comprendi dunque anche che i singoli sensi hanno oggetti propri che trasmettono alla coscienza e alcuni hanno oggetti comuni.
E. - Anche questo capisco.
A. - Si può dunque con uno dei sensi discriminare la competenza propria di ciascuno e quale oggetto comune hanno tutti o alcuni di essi?
E. - No assolutamente, ma tali competenze sono discriminate da un senso interiore.
A. - Ed è forse la ragione di cui le bestie sono prive?
Col pensiero appunto, come suppongo, ci rappresentiamo i sensibili e li conosciamo nel loro essere obiettivo.
E. - Direi piuttosto che con la ragione ci rappresentiamo l'esistenza di un determinato senso interno, al quale dai cinque sensi esterni sono rimandati tutti i sensibili.
Altro è infatti il senso con cui la bestia vede ed altro la facoltà con cui, nell'atto del vedere, percepisce, fugge o appetisce.
Il primo si ha nel senso della vista, l'altro dentro, nell'anima.
Con esso appunto gli animali appetiscono e si procurano, se soddisfatti nel bisogno, ovvero fuggono e respingono, se disgustati, gli oggetti che si percepiscono non solo con la vista, ma anche con l'udito e gli altri sensi.
E questa facoltà non si può considerare né vista, né udito, né odorato, né gusto, né tatto, ma non saprei quale altra facoltà che unifica gli altri.
E sebbene questo atto lo avvertiamo con la ragione come ho detto, non posso tuttavia chiamarlo pensiero poiché è chiaro che è presente anche nelle bestie.
A. - Conosco tale facoltà qualunque sia e non esito a chiamarla senso interiore.
Ma se l'oggetto percepito con i sensi non trascende anche questo senso, non può raggiungere scienza.
Si ha scienza soltanto dell'oggetto che è rappresentato con la ragione.
È scienza ad esempio, per tacere di altri casi, che è impossibile percepire i colori con l'udito e i suoni con la vista.
E nell'atto che se ne ha scienza, essa non si raggiunge né con la vista, né con l'udito, né col senso interiore, di cui anche le bestie non sono prive.
Non si può ammettere infatti nelle bestie la conoscenza che la luce non si percepisce con l'udito e il suono con la vista poiché tali competenze si distinguono per riconoscimento e rappresentazione del pensiero.
E. - Non posso dire di avere chiaro il concetto.
Quale difficoltà se le bestie col senso interno, di cui, per tuo consentimento, non sono prive, discriminassero che i colori non si percepiscono con l'udito e i suoni con la vista?
A. - Ma tu pensi davvero che siano capaci di distinguere un colore dall'altro, il senso che risiede nell'organo della vista da quello interiore anorganico e la ragione con cui queste nozioni sono separatamente definite e analizzate?
E. - No, certamente.
A. - E la ragione al contrario potrebbe distinguere queste quattro nozioni l'una dall'altra se ad essa non fossero riportati il colore mediante il senso della vista, questo a sua volta mediante il senso interno che lo regola, e questo da sé, a meno che non si sia interposta un'altra funzione?
E. - Non vedo come sarebbe altrimenti possibile.
A - E vedi anche che il colore si percepisce col senso della vista, ma che un senso da sé medesimo non si percepisce?
Infatti con lo stesso senso con cui vedi il colore non vedi che la vista vede.
E. - Non del tutto lo vedo.
A. - Sforzati di avere distinti questi concetti.
Non puoi negare, penso, che altro è il colore ed altro vedere il colore ed altro ancora, quando il colore non è presente, avere il senso per cui si possa vedere se fosse presente.
E. - Distinguo i concetti e ammetto che differiscono.
A. - E dei tre oggetti con la vista vedi altro che il colore?
E. - Nient'altro.
A. - Di' dunque con che vedi gli altri due.
Non potresti distinguerli se non fossero percepiti.
E. - Non so altro; so che ci sono, e basta.
A. - Non sai davvero se è già la ragione stessa, oppure quella facoltà vitale che abbiamo chiamato senso interno regolatore dei sensi, oppure altro?
E. - No.
A. - Sai per lo meno che tali oggetti possono essere distinti soltanto dalla ragione e che la ragione distingue soltanto gli oggetti che sono offerti alla sua attenzione.
E. - Certo.
A. - Ed ogni altra facoltà dunque con cui si può percepire tutto ciò di cui si avrà scienza è in funzione della ragione, alla quale offre e rimanda qualsiasi oggetto conosciuto.
Così gli oggetti percepiti possono essere distinti nelle rispettive competenze ed essere rappresentati non solo col senso ma anche con la ragione.
E. - Sì.
A. - Quindi la ragione stessa, che distingue l'una dall'altra le facoltà subalterne e le loro rappresentazioni e conosce la differenza fra di esse e se stessa, conferma su di loro la propria superiorità.
Può dunque essere rappresentata da altra facoltà fuorché da se stessa, cioè dalla ragione?
Oppure potresti esser cosciente di aver la ragione se non ne avessi la certezza dalla stessa ragione?
E. - Assolutamente vero.
A. - Quando dunque si percepisce il colore, col senso stesso non si percepisce di percepire, e quando si ode un suono, non si ode anche l'udito e quando si odora una rosa, non dà odore anche l'odorato e quando si gusta qualche cosa, non ha sapore lo stesso gusto e nel toccare qualche cosa, non si percepisce col tatto lo stesso senso del tatto.
È chiaro dunque che i cinque sensi non si possono percepire da sé, sebbene con essi si percepiscano i vari sensibili.
E. - Chiaro.
A. - È chiaro anche, suppongo, che il senso interno non percepisce soltanto gli oggetti che ha ricevuto dai cinque sensi esterni, ma che da esso sono percepiti i sensi stessi.
La bestia non si modificherebbe sensibilmente o appetendo un oggetto o fuggendolo, se non percepisse di percepire, non per avere scienza che è soltanto della ragione, ma per modificarsi, e questo certamente non lo percepisce con qualcuno dei cinque sensi.
Se il concetto rimane oscuro, si chiarirà se poni attenzione a ciò che, a titolo d'esempio, si nota sufficientemente in un senso, come la vista.
Sarebbe infatti assolutamente impossibile alla bestia aprire gli occhi e modificare la vista osservando l'oggetto che istintivamente vuol vedere se precedentemente non percepisse di non vederlo perché o tiene gli occhi chiusi o non modificati dall'oggetto in parola.
Se poi percepisce di non vedere mentre non vede, è necessario anche che percepisca di vedere mentre vede, giacché non col medesimo stimolo modifica la vista se vede e la modifica se non vede.
Indica così di percepire l'uno e l'altro.
Ma non è altrettanto evidente che una tale vita, che percepisce di percepire i sensibili, sia cosciente di sé.
Certo che ciascun uomo, se si analizza, scopre che ogni essere vivente rifugge dalla morte.
E poiché essa è contraria alla vita, è necessario che la vita abbia coscienza di sé nell'atto che rifugge, dal suo contrario.
E se il concetto non è ancora evidente, si passi avanti.
Dobbiamo muoverci verso il nostro obiettivo con argomenti pienamente evidenti.
Frattanto sono evidenti le nozioni: che col senso si percepiscono gli oggetti sensibili, che un senso non si può percepire da sé, che col senso interno si percepiscono i sensibili mediante il senso e immediatamente il senso stesso, che con la ragione si conoscono tutte le suddette nozioni ed essa stessa e divengono così contenuti di scienza.
Non ti pare?
E. - Sì, certo.
A. - Ed ora dimmi qual è l'origine di questa discussione.
Da un bel po', desiderosi di giungere alla soluzione, ci stiamo affaccendando per questa via.
E. - Per quanto ricordo, si sta ancora svolgendo il primo dei tre problemi che poco fa, per stabilire, il procedimento della discussione, ci siamo proposti, cioè come si possa rendere evidente che Dio esiste, sebbene si debba credere con assoluta fermezza.
A. - Ricordi con precisione.
Ma desidero che rammenti con esattezza anche che nel chiederti se hai pura conoscenza di esistere, ci si è rivelato che hai pura conoscenza non solo di questa nozione, ma anche di altre due.
E. - Anche questo ricordo.
A. - E adesso considera a quale di queste tre nozioni pensi che appartenga l'oggetto sensibile in genere.
In altri termini rifletti in quale categoria ritieni di dover assegnare in genere l'oggetto che il nostro senso percepisce con l'organo della vista o con qualsiasi altro corporeo, se cioè, nella categoria dell'essere che è soltanto reale, oppure anche vivente o addirittura pensante.
E. - In quella dell'essere soltanto reale.
A. - E in quale delle tre categorie includi il senso?
E. - In quella dell'essere vivente.
A. - E dei due quale giudichi superiore, il senso o il sensibile?
E. - Il senso, certamente.
A. - Perché?
E. - Perché l'essere vivente è superiore all'essere soltanto reale.
A. - Nella precedente indagine abbiamo considerato il senso interno inferiore al pensiero e comune con le bestie.
Ma dubiteresti di considerarlo superiore al senso, con cui ci rappresentiamo il sensibile e che, come è già stato detto, è da considerarsi superiore al sensibile stesso?
E. - No, certamente.
A. - Ma vorrei sapere da te anche la ragione per cui non ne dubiti.
Non potrai affermare certamente che il senso interno sia da assegnarsi, fra le tre categorie, a quella dell'essere pensante, ma sicuramente a quella dell'essere reale e vivente, sebbene sia privo di pensiero.
Il senso interno appunto è presente anche nelle bestie, in cui il pensiero non è presente.
Stando così le cose, chiedo perché consideri il senso interiore più perfetto del senso con cui si rappresentano i sensibili, dal momento che entrambi sono nella categoria dell'essere vivente.
Hai considerato il senso che rappresenta i sensibili superiore ai sensibili appunto perché essi sono sul piano dell'essere soltanto reale, esso invece su quello del vivente.
Dimmi dunque perché reputi più perfetto il senso interno, se anche esso è su quel piano.
Potrai dire che il senso interno percepisce l'altro.
Ma, secondo me, non troverai una regola con cui possiamo fissare che il senziente è in genere superiore al suo sensato.
Potremmo forse essere costretti ad ammettere che il pensante è in genere superiore al suo pensato.
Ed è falso.
L'uomo ha pura intellezione della sapienza, ma non è più perfetto della sapienza stessa.
Esamina dunque perché ti sei fatta l'opinione che il senso interiore è da considerarsi superiore al senso con cui si rappresentano i sensibili.
E. - Perché lo considero come regolatore e giudice dell'altro.
Se infatti al senso esterno venisse a mancare qualche aspetto della sua funzione, l'altro, per così dire, richiederebbe la dovuta prestazione come ad un subalterno, come dianzi è stato detto.
L'organo della vista non vede di vedere o non vedere e poiché non lo vede, non può giudicare per quale aspetto la percezione è manchevole o perfetta.
È il senso interno che stimola anche l'anima della bestia ad aprire gli occhi chiusi e a rendere compiuto ciò che percepisce manchevole.
E non si può certamente dubitare che chi giudica è superiore a ciò che si giudica.
A. - Vuoi dire dunque che l'organo corporeo in qualche modo giudica il sensibile?
Sono di sua competenza appunto il piacere e la molestia secondo che è stimolato dal sensibile con dolcezza o violenza.
Infatti come il senso interno giudica che cosa manca o è sufficiente alla sensazione visiva, così la sensazione visiva giudica che cosa manca o completa i colori.
Allo stesso modo, come il senso interno giudica del nostro udito se è insufficientemente o sufficientemente disposto, così l'udito giudica dei suoni distinguendo se una loro parte scorre armonicamente e un'altra urti perché stonata.
Non è necessario addurre gli altri sensi.
Già puoi avvertire, come penso, ciò che intendo dire, che cioè il senso interno giudica dei sensi esterni nell'avvertirne la integrità e nel richiederne la funzione, allo stesso modo che i sensi esterni giudicano i sensibili accogliendone l'impressione se piacevole, respingendola se spiacevole.
E. - Vedo e ammetto che i concetti sono del tutto veri.
A. - Ed ora considera se la ragione giudica anche del senso interno.
Ed ormai non ti chiedo più se dubiti che essa gli è superiore perché non dubito che così giudichi.
D'altronde non ritengo di dover chiedere se la ragione giudica del senso interiore.
In definitiva soltanto la ragione avverte in quali termini fra gli oggetti che le sono inferiori, cioè i corpi, i sensi esterni e il senso interno, uno sia superiore all'altro e di quanto esso sia loro superiore.
Non lo potrebbe se non li giudicasse.
E. - Chiaro.
A. - Allora alla natura che è soltanto reale, non vivente e non pensante, come è un corpo senza vita, è superiore quella che non è soltanto reale, ma anche vivente e non pensante, come è l'anima delle bestie, e a questa, a sua volta, è superiore quella che è insieme reale, vivente e pensante, come nell'uomo l'intelligenza.
Dunque, secondo te, in noi, cioè in esseri in cui la natura ha per costitutivo di renderci uomini, è possibile scoprire un principio superiore a quello che, fra i tre, abbiamo posto al terzo posto?
È chiaro che noi abbiamo un corpo e una determinata vita, per cui il corpo è animato e vivificato.
I due principi li troviamo anche nelle bestie.
Vi è poi un terzo principio, quasi capo oppure occhio della nostra anima, o altro che possa dirsi più convenientemente dell'intelligenza che pensa.
E la natura delle bestie non l'ha.
Rifletti dunque, ti prego, se puoi scoprire qualche altro principio che nella natura umana sia più sublime della ragione.
E. - Penso proprio che sia il più alto.
A. - E se si potesse scoprire un essere, di cui non puoi dubitare non solo che esiste, ma anche che è superiore al nostro pensiero, dubiteresti, a parte la sua essenza, di considerarlo Dio?
E. - Se io potessi scoprire un essere superiore a ciò che della mia natura è più perfetto, non necessariamente dovrei ammettere che è Dio.
Non sono d'accordo di dover considerare Dio l'essere, a cui il mio pensiero è inferiore, ma quello a cui nessun essere è superiore.
A. - Proprio così poiché egli ha concesso al tuo pensiero di pensarlo con vera religiosità.
Ma, scusa, se tu scoprirai che sopra il nostro pensiero v'è soltanto l'eternamente immutabile, dubiterai ancora di considerarlo Dio?
Sai infatti che i corpi sono nel divenire; ed è evidente anche che la vita stessa, da cui il corpo è animato, non è esente, attraverso vari fenomeni, dal divenire.
Si dimostra inoltre che è sicuramente nel divenire il pensiero stesso che ora si muove ed ora non si muove al vero e talora lo raggiunge e talora non lo raggiunge.
Dunque se il pensiero senza il sussidio dell'organo corporeo e senza la mediazione del tatto, del gusto, dell'odorato, dell'udito, della vista e altro senso, inferiore al pensiero stesso, ma da sé immediatamente intuisce un essere eterno e immutabile e ad un tempo se stesso inferiore, deve anche necessariamente ammettere che quell'essere è il suo Dio.
E. - Ammetterò che è Dio se risulterà che non v'è essere a lui superiore.
A. - D'accordo. A me basta dimostrare che esiste un essere tale che dovrai considerare come Dio, ovvero, se ve n'è uno a lui superiore, dovrai ammettere che è Dio.
Quindi tanto se v'è come se non v'è un essere a lui superiore, sarà evidente che Dio esiste, quando, secondo la promessa, avrò dimostrato col suo aiuto che è superiore al pensiero.
E. - Dimostra dunque ciò che dici di aver promesso.
A - Lo farò, ma prima chiedo se il mio senso esterno è il medesimo del tuo o al contrario il mio è soltanto mio e il tuo soltanto tuo.
Se così non fosse, io non potrei vedere un oggetto senza che anche tu lo veda.
E. - Ritengo che, quantunque identici come forma, noi abbiamo distinti i sensi della vista, dell'udito e gli altri.
Un individuo può non soltanto vedere, ma anche udire ciò che un altro non ode, e percepire col proprio senso qualsiasi oggetto che un altro non percepisce.
È chiaro dunque che il tuo senso è soltanto tuo e che il mio è soltanto mio.
A. - Ed anche del senso interno risponderai così o diversamente?
E. - Non diversamente.
Il mio senso interno percepisce il mio senso esterno e il tuo percepisce il tuo.
Spesso infatti da qualcuno che vede un determinato oggetto sono richiesto se anche io lo vedo perché io, e non l'interlocutore, percepisco di vedere o non vedere.
A. - Ed anche il pensiero, ciascuno ha il suo?
Può avvenire appunto che io sto pensando ad una cosa mentre tu non la pensi e che ti è impossibile sapere se la penso, mentre io lo so.
E. - È evidente anche che ogni individuo ha una propria mente.
A. - Ma puoi dire anche che nel vedere si ha un proprio sole o luna o stella di Venere, sebbene ciascuno li vede col proprio senso personale?
E. - Non lo potrei dire assolutamente.
A. - Si può dunque vedere contemporaneamente in molti un unico oggetto sebbene ognuno ha sensi propri.
Ma con essi tuttavia si percepisce un unico oggetto che si vede contemporaneamente.
Ne consegue dunque che, sebbene il mio senso sia distinto dal tuo, non sia distinto in mio e tuo l'oggetto che vediamo, ma si rappresenti ad entrambi e da entrambi sia visto contemporaneamente.
E. - Chiarissimo.
A. - Possiamo inoltre udire contemporaneamente un medesimo suono.
E sebbene il mio udito è distinto dal tuo, non è distinto in mio e tuo il suono che udiamo o che un suo aspetto è ricevuto dal mio udito e un altro dal tuo, ma tutto il suono nella sua unità e interezza si offre da udirsi contemporaneamente ad entrambi.
E. - Anche questo è chiaro.
A. - Puoi estendere il nostro discorso anche agli altri sensi esterni.
Per quanto attiene all'argomento, essi si comportano in maniera non del tutto eguale e non del tutto diversa dagli altri due della vista e dell'udito.
Infatti tu e io possiamo riempire le vie respiratorie della medesima aria e percepire come odore la condizione fisica dell'aria respirata.
Così entrambi possiamo gustare di un medesimo miele o altro cibo o bevanda e percepire come sapore la loro qualità.
E sebbene l'oggetto sia uno solo e i nostri sensi distinti, a te il tuo e a me il mio, entrambi percepiamo un solo odore e un solo sapore.
Tuttavia tu non lo percepisci col mio senso né io col tuo oppure con un altro determinato senso che sia comune ad entrambi, ma per me v'è il mio senso e per te il tuo, sebbene dall'uno e dall'altro si percepisca un solo odore o sapore.
Da quanto detto si mostra dunque che questi sensi hanno una tale caratteristica in comune quale gli altri due nel vedere e nell'udire.
Ma si differenziano per quanto attiene a ciò che stiamo per dire.
Sebbene entrambi aspiriamo attraverso le narici la medesima aria e gustiamo il medesimo cibo, tuttavia io non aspiro la medesima parte d'aria che aspiri tu e non prendo la medesima parte di cibo che prendi tu, ma una io e un'altra tu.
Dunque mentre respiro di tutta una massa d'aria, non ne aspiro se non quella parte che mi basta e tu ugualmente di tutta la massa ne aspiri quanto ti basta.
Anche il cibo, quantunque sia il medesimo e sia consumato tutto da me e da te insieme, non può tuttavia esser preso tutto da me e tutto da te al modo che io odo tutta una parola e tu la puoi udire tutta nel medesimo tempo.
Così tu puoi vedere di una determinata figura tanto quanto ne veggo io.
Al contrario è necessario che del cibo e della bevanda una parte passi in me e l'altra in te.
Non capisci molto queste cose?
E. - Ammetto anzi che sono molto chiare ed evidenti.
A. - E penseresti che sull'argomento di cui si tratta il senso del tatto sia da paragonarsi ai sensi della vista e dell'udito?
In effetti possiamo entrambi percepire col tatto non solo il medesimo corpo, ma tu potresti toccare anche la medesima parte che toccherò io.
Così entrambi potremmo percepire col tatto non solo il medesimo corpo, ma anche la medesima parte del corpo.
Non è possibile infatti che io prenda tutto un cibo presentato e tu tutto egualmente se entrambi ce ne cibiamo.
Ma non così avviene per il toccare, ma a te è possibile toccare un medesimo oggetto e tutto intero che io avrò toccato sicché entrambi lo tocchiamo, non in parti distinte, ma ciascuno di noi tutto intero.
E. - Ammetto che per questo aspetto il senso del tatto è molto simile ai primi due sensi anzidetti.
Ma è differente, secondo me, per il fatto che è possibile ad entrambi vedere oppure udire in un medesimo tempo un medesimo oggetto nella sua interezza, ma non è possibile ad entrambi toccare nel medesimo tempo un determinato oggetto nella sua interezza, ma in parti distinte oppure la medesima parte in tempi distinti.
Non mi è possibile applicare il tatto a una parte che tu percepisci col tatto se prima tu non avrai rimosso il tuo.
A. - Hai risposto con accortezza.
Ma devi notare anche questo fatto.
Di tutti i sensibili alcuni li percepiamo io e tu, altri o io o tu.
I nostri sensi al contrario li percepiamo ciascuno per proprio conto sicché io non percepisco il tuo senso e tu non percepisci il mio.
E degli oggetti che da noi sono percepiti mediante i sensi, cioè delle qualità sensibili, possiamo percepire, non entrambi insieme ma singolarmente, soltanto ciò che diviene così nostro che lo possiamo assimilare e trasformare in noi.
È il caso del cibo e della bevanda.
Non ne potrai prendere la medesima parte che prenderò io.
È vero che le nutrici offrono ai bimbi gli alimenti già masticati.
Ma è assolutamente impossibile che sia restituita come cibo del bimbo quella parte che l'organo di masticazione destinerà per ingurgitamento allo stomaco della nutrice.
Quando il palato gusta un alimento con piacere ne reclamerà una parte, sia pur piccola, ma irrestituibile e determina così il fenomeno conveniente alla natura del corpo.
Se non fosse così, non rimarrebbe nella bocca alcun sapore dopo che i cibi masticati sono restituiti per rigurgitamento.
La stessa cosa si può dire ragionevolmente del volume d'aria che inaliamo attraverso le narici perché, sebbene puoi immettere quell'aria che io emetterò, non potrai certamente immettere anche ciò che di essa si è convertito nel mio sostentamento e perciò non si può ridare.
I medici appunto insegnano che si riceve il sostentamento anche dalle narici.
Io soltanto posso percepire tale sostentamento respirando e non posso restituirlo emettendo, affinché inalato dalle tue narici sia percepito anche da te.
E sebbene percepiamo anche gli altri sensibili, tuttavia percependoli non li trasformiamo nel nostro corpo e tutti e due possiamo percepirli sia contemporaneamente sia in momenti successivi in maniera che sia percepito anche da te il tutto o la parte che io percepisco.
Tali sono la luce, il suono e anche insensibili che si percepiscono senza trasformarli.
E. - Capisco.
A. - È evidente dunque che gli oggetti che non si trasformano, eppure si percepiscono con i sensi esterni, non appartengono al modo di essere dei nostri sensi e sono quindi più comuni perché non sono trasformati col mutarsi in oggetto proprio e quasi privato.
E. - Sono proprio d'accordo.
A. - Si deve quindi intendere per proprio e quasi privato ciò che ciascuno di noi ha da solo, che da solo in sé percepisce e che appartiene a titolo particolare al proprio essere.
È al contrario comune e quasi pubblico ciò che si percepisce senza sostanziale trasformazione da tutti i soggetti senzienti.
E. - Sì.
A. - Ed ora sta attento.
Dimmi se si dà un oggetto che tutti i soggetti pensanti universalmente vedano con l'atto puro del proprio pensiero.
L'oggetto visto sarebbe rappresentabile a tutti, non si trasforma in possesso di coloro che se lo rappresentano, come il cibo e la bevanda, ma rimane totalmente inalterato, tanto se i pensanti lo vedono come se non lo vedono.
Ma forse tu ritieni che non v'è un tale oggetto?
E. - Anzi veggo che ve ne sono molti.
Basta ricordarne uno.
L'ideale verità del numero è così rappresentabile a tutti i soggetti pensanti che ogni studioso di matematica tenta di raggiungerla con un proprio atto di puro pensiero.
Ma uno lo può più facilmente, un altro più difficilmente e un altro non lo può affatto, sebbene essa si offre ugualmente a tutti coloro che hanno la capacità di comprenderla.
E quando qualcuno la conosce nella sua verità, non si trasforma divenendo un quasi cibo di chi la conosce, e quando qualcuno la esprime erroneamente, essa non viene a mancare, ma rimanendo vera e indefettibile, quegli è tanto più in errore quanto meno la comprende.
A. - Bene. Osservo però che hai imbroccato subito la risposta come competente in materia.
Ma se ti si dicesse che i numeri non in virtù della loro proprietà ma degli oggetti sensibili sono rappresentati al nostro pensiero come immagini determinate di cose visibili, che risponderesti?
La pensi anche tu così?
E. - Non potrei certamente pensarlo.
Se ho conosciuto secondo verità i numeri con un senso, mi sarebbe stato possibile conoscere col senso anche le regole della divisione o addizione.
Infatti con la luce dell'intelligenza disapprovo colui che mentre fa i calcoli nell'addizionare o sottrarre ottiene un risultato erroneo.
E non so per quanto tempo rimangano ancora gli oggetti che tocco col senso, come questa atmosfera e questa terra e gli altri corpi che percepisco esistenti in essi.
Ma sette e tre fanno dieci, e non solo ora ma sempre, e non v'è mai stato un tempo in cui non abbiano fatto dieci e mai vi sarà tempo in cui sette e tre non faranno dieci.
E ho già detto che l'indefettibile verità del numero è universale per me e per ogni soggetto pensante.
A. - Non ti faccio obiezioni perché affermi nella risposta verità innegabili.
Ma potrai anche facilmente notare che i numeri stessi non sono derivati dalla esperienza sensibile se penserai che ogni numero varia il nome ogni volta che aumenta dell'uno.
Ad esempio, se si ha due volte l'uno, il numero si chiama due; se tre, tre; e se si ha l'uno dieci volte, si denomina dieci ed ogni numero in genere si considera di tanto di quante volte ha l'uno.
Ora se si ha la vera nozione dell'uno, si trova certamente che non può essere percepito dai sensi.
Si ha certezza infatti che l'oggetto sensibile universalmente non è uno ma molteplice perché è corpo ed ha quindi innumerevoli parti.
Un corpuscolo, per non parlare delle sue parti ridottissime e meno differenziate, ha per lo meno una parte a destra e una a sinistra, una di sopra e una di sotto, oppure una di qua e una di là o anche alcune alla periferia e una al centro.
Dobbiamo per logica necessità riconoscere che esse sono presenti in ogni particella del corpo per quanto piccola.
Pertanto non si ammette che alcun corpo sia uno da un punto di vista ideale.
Ma soltanto mediante la distinta conoscenza dell'uno ideale si possono in esso suddividere tante parti.
Quando dunque cerco l'uno nel corpo e non dubito di non trovarvelo, so ciò che cerco, ciò che non vi trovo e che non potrò trovarvi, anzi che non v'è affatto.
Se dunque so che il corpo non è uno, so che cos'è l'uno.
Se infatti non conoscessi l'uno non potrei distinguere i molti nel corpo.
In tutti gli esseri infatti in cui apprenderò l'uno, non lo apprendo mediante il senso.
Mediante il senso conosco soltanto il corpo che, ne siamo certi, da un punto di vista ideale non è uno.
Inoltre se non si ha pura conoscenza dell'uno col senso, non si ha col senso conoscenza di alcun numero, ovviamente di quelli intelligibili.
Di essi appunto non ve n'è alcuno che non si denomini dalle volte che contiene l'uno e la conoscenza pura dell'uno non si ottiene col senso.
Infatti una mezza parte di un corpo per quanto piccolo, sebbene il tutto risulti di due parti, ha anche essa la sua metà.
Quindi le due parti sono in quel corpo ma non nel senso che siano due indivisibilmente.
E il numero che ha il nome di due, poiché contiene due volte quello che è indivisibilmente l'uno, non lo può la sua metà, cioè quello che è indivisibilmente l'uno non può a sua volta contenere la mezza, la terza o un'ulteriore parte perché è indivisibile e idealmente uno.
Inoltre seguendo la serie dei numeri dopo l'uno si incontra il due.
Esso rapportato all'uno è il doppio.
Il doppio di due non viene successivamente ma, interposto il tre, segue il quattro che è il doppio di due.
Questa norma si estende con legge fissa e immutabile a tutti gli altri numeri.
Così dopo l'uno, cioè il primo di tutti i numeri, con lo scarto che esso indica, è primo quello che contiene il suo doppio; infatti segue il due.
Dopo il secondo, cioè dopo il due, con lo scarto che esso indica è secondo quello che contiene il suo doppio; dopo il due infatti primo è il tre, secondo il quattro che è il doppio del secondo.
Dopo il terzo, cioè il tre, con lo scarto che esso indica, è terzo quello che è il suo doppio; infatti dopo il terzo, cioè il tre, primo è il quattro, secondo il cinque, terzo è il sei che è il doppio del terzo.
Così dopo il quarto con lo scarto corrispondente il quarto contiene il suo doppio; infatti dopo il quarto, cioè il quattro, primo è il cinque, secondo il sei, terzo il sette, quarto l'otto che è il doppio del quarto.
Così in tutti gli altri numeri scoprirai la norma che si verifica nella prima coppia di numeri, cioè nell'uno e nel due, e cioè di quante unità è un determinato numero inizialmente, di tante dopo di esso è il suo doppio.
Ma da quale facoltà si apprende questa norma che si conosce come immutabile, fissa e indefettibile attraverso tutti i numeri?
Non si raggiungono certamente col senso tutti i numeri.
Sono innumerevoli.
In quale facoltà dunque si conosce che questa legge si verifica in tutti i numeri ovvero in quale rappresentazione o rappresentabile sensibile si conosce con tanta certezza una verità tanto inderogabile nell'infinita serie dei numeri se non nella luce interiore che il senso ignora?
Con queste e molte altre dimostrazioni evincenti, coloro, ai quali Dio ha dato capacità alla teoresi e che l'eccessiva polemica non avvolge di foschia, sono convinti ad ammettere che l'intelligibile verità dei numeri non è di pertinenza del senso, permane idealmente immutabile ed è universale nella conoscenza per tutti i soggetti pensanti.
Molte altre nozioni possono presentarsi che universalmente e quasi di pubblico diritto si rendono accessibili ai soggetti pensanti e sono intuite con atto di puro pensiero da tutti coloro che sanno intuirle, sebbene esse permangano inderogabili e fuori del divenire.
Tuttavia non posso accettare malvolentieri il fatto che, quando hai inteso rispondere alla mia domanda, ti si è presentata a preferenza l'intelligibile verità del numero.
Non a caso nella Bibbia il numero è stato associato alla sapienza nel testo seguente: Io ho scrutato perfino il mio cuore per conoscere, valutare e ricercare la sapienza e il numero. ( Qo 7,26 )
E a proposito, scusa, che cosa si deve pensare, secondo te, della stessa sapienza?
Ritieni che ogni individuo abbia una certa personale sapienza, ovvero è una, universalmente accessibile a tutti e quanto più se ne partecipa, tanto più si è sapienti?
E. - Non so ancora di quale sapienza intendi parlare.
Osservo che gli individui hanno varie opinioni nei confronti dell'azione e del discorso sapiente.
Coloro che scelgono la milizia, a sentir loro, agiscono con sapienza e coloro che, abbandonata la milizia, impiegano un premuroso lavoro nel coltivare il campo, vantano quest'attività e la attribuiscono a sapienza.
Coloro che sono accorti nell'escogitare maniere per accumulare ricchezze si ritengono sapienti e coloro che trascurano o anche rifiutano questi e tutti gli altri interessi temporali e trasferiscono interamente l'impegno nella ricerca della verità per conoscere se stessi e Dio, giudicano che proprio questo è il grande compito della sapienza.
Coloro al contrario che non vogliono dedicarsi al libero esercizio della ricerca e contemplazione del vero, ma vivono in incombenze e incarichi molto faticosi per tutelare gli interessi dei propri simili e si occupano della legislazione e governo delle cose umane, ritengono di esser loro i sapienti
Quelli infine che fanno l'uno e l'altro e in parte vivono nella contemplazione della verità e in parte nelle attività pubbliche, che ritengono dovute alla associazione umana, pensano di avere in mano la palma della sapienza.
Non parlo poi delle innumerevoli sette.
Ognuna di esse, vantando i propri proseliti sugli altri, li ritiene gli unici sapienti.
Ora nell'argomento che trattiamo si deve rispondere non in merito a quel che accettiamo per opinione, ma a ciò che comprendiamo con illuminata intelligenza.
Dunque non potrò affatto rispondere alla tua domanda, se non conoscerò per intuizione e visione del pensiero ciò che ritengo per opinione, e cioè che cos'è sapienza in sé.
A. - Ma, secondo te, la sapienza non è verità, in cui si conosce e possiede il sommo bene?
Tutti coloro di varie opinioni che hai ricordato desiderano il bene e fuggono il male, ma hanno diverse opinioni perché ciascuno considera il bene diversamente dall'altro.
Se dunque si desidera ciò che non si doveva desiderare, sebbene non si desidererebbe senza l'opinione che sia un bene, si erra comunque.
Ma è impossibile errare se non si desidera nulla e se si desidera ciò che si deve desiderare.
Non si ha errore dunque nel senso che tutti gli uomini desiderano la felicità.
Si ha errore al contrario in quanto non tutti seguono la via che conduce alla felicità, sebbene esplicitamente si professi che non si vuole altro che raggiungere la felicità.
L'errore si ha appunto quando si segue una via, la quale non conduce alla meta che si intende raggiungere.
E quanto più si erra nella via della vita, tanto meno si è sapiente perché si è più lontani dalla verità, in cui si conosce e si possiede il sommo bene.
Ma si diviene felici soltanto col conseguimento e possesso del sommo bene.
E tutti concordemente lo vogliamo.
Come dunque è evidente che vogliamo esser felici, è evidente anche che vogliamo esser sapienti perché felici non si può esser senza sapienza.
Non si è felici infatti senza il sommo bene che si conosce e possiede nella verità che denominiamo saggezza.
Ora l'idea di felicità è impressa nel nostro spirito prima ancora di esser felici.
È mediante essa infatti che siamo coscienti e innegabilmente affermiamo, senza alcun dubbio, di voler essere felici.
Quindi, ancor prima di esser sapienti, abbiamo innata nello spirito l'idea di sapienza e mediante essa, ciascun individuo, richiesto se vuole esser sapiente, senza ombra di dubbio risponde di volerlo.
Dal nostro dialogo perciò risulterebbe già il concetto di sapienza che forse non riuscivi a spiegare a parole.
Se infatti non ne avessi l'idea nello spirito, non saresti affatto cosciente di voler essere sapiente e di doverlo volere.
Suppongo che non oserai negarlo.
Ed ora devi dirmi se, a tuo avviso, la sapienza si manifesta come universale a tutti i soggetti pensanti allo stesso modo della ideale legge del numero, o piuttosto, dal momento che tante sono le intelligenze umane quanti gli uomini, sicché io non conosco nulla della tua intelligenza e tu nulla della mia, se, secondo te, si danno tante sapienze quanti potrebbero essere i sapienti.
E. - Se il sommo bene è uno per tutti, necessariamente anche la verità, in cui si conosce e possiede, cioè la sapienza è universale.
A. - Ma tu hai dei dubbi che il sommo bene, qualunque cosa sia, è uno per tutti gli uomini?
E. - Naturalmente, perché osservo che qualcuno gode di una cosa come suo sommo bene ed altri di altre.
A. - Vorrei veramente che non si dubitasse del sommo bene come non si dubita, qualunque cosa sia, che soltanto conseguendolo si diventa felici.
Ma è un grosso problema e richiede un lungo discorso.
Supponiamo dunque addirittura che tanti siano i sommi beni, quante sono le varie cose che sono desiderate come sommo bene dai vari individui.
Ne conseguirebbe forse che anche la sapienza non è una e universale perché sono molti e vari i beni che mediante essa gli individui conoscono e scelgono?
Se lo pensi, potresti aver dubbi anche sull'unità della luce del sole perché sono molti e vari gli oggetti che si scorgono per la sua mediazione.
In questa moltitudine ciascuno sceglie a piacere l'oggetto, di cui può godere mediante la vista.
Un tale osserva volentieri l'altezza d'una montagna e gode nel guardarla, un altro il campo pianeggiante, un altro il fondo delle valli, un altro il verde dei boschi, un altro l'increspata superficie del mare, un altro infine di tutte queste cose o di alcune di esse ne raccoglie molte insieme per la gioia del vedere.
Dunque sono molti e vari gli oggetti che si vedono nella luce del sole e che si preferiscono per il godimento, eppure è una la luce, in cui lo sguardo di ciascuno vede e sceglie l'oggetto di cui gioire.
Così quantunque molti e vari siano i beni, fra cui ciascuno può scegliere quello che preferirà e che, conoscendo e possedendo per goderne, può considerare rettamente e veramente il proprio sommo bene, è possibile tuttavia che la luce stessa della sapienza, in cui si possono conoscere e possedere questi beni, sia una e comune a tutti i sapienti.
E. - È possibile, lo ammetto, e nulla impedisce che la sapienza sia universalmente una per tutti, anche se molti e diversi sono i sommi beni.
Ma vorrei sapere se è così in realtà.
Nell'ammettere la possibilità che una certa cosa sia così, non necessariamente ammettiamo che è così in realtà.
A. - Frattanto riteniamo per certo che la sapienza è una realtà.
Non riteniamo ancora se sia universalmente una, ovvero se ciascun sapiente ne abbia una propria come l'anima e l'intelligenza.
E. - Sì.
A. - Ma dove conosciamo che esistono sapienza e sapienti e che tutti gli uomini vogliono essere felici?
Non potrei proprio dubitare che ne hai conoscenza e che è vero.
Lo conosci dunque come una tua particolare rappresentazione che io non conosco affatto se non me la manifesti, ovvero di questo vero hai una pura conoscenza così che possa esser conosciuto da me anche se da te non viene espresso?
E. - Non dubiterei anzi che possa essere conosciuto da te, anche se io non voglio.
A. - E dunque un solo vero che conosciamo, ciascuno con la propria intelligenza, è comune a ciascuno di noi due?
E. - Chiarissimo.
A. - Inoltre, suppongo, non puoi negare che ci si deve applicare alla sapienza e devi ammettere che anche questo è vero.
E. - Non ne dubito affatto.
A. - Inoltre questo vero è uno e universale nella conoscenza per tutti quelli che ne hanno scienza, sebbene ciascuno lo intuisca con la propria intelligenza, e non con la mia, la tua o di un altro.
L'oggetto intuito infatti è universalmente accessibile a tutti quelli che lo intuiscono.
Lo possiamo negare forse?
E. - No, assolutamente.
A. - Così non dovrai ammettere come assolutamente vero e accessibile a me, a te e a tutti quelli i quali sono capaci di intuire, che si deve vivere con giustizia, che le cose meno perfette si devono subordinare alle più perfette, che fra le cose eguali è valido il criterio dell'equità, che si deve dare a ciascuno il suo?
E. - D'accordo.
A. - E potresti dire che l'essere immateriale non è più perfetto del materiale, l'eterno del temporale, il non diveniente del diveniente?
E. - Ma chi lo potrebbe?
A. - Dunque questo vero può forse esser considerato particolare, dal momento che si presenta invariabilmente oggetto di pura conoscenza per tutti coloro che sono capaci di averla?
E. - Non si può assolutamente considerarlo particolare perché è tanto uno e universale quanto è vero.
A. - E si può forse negare che si deve volgere lo spirito in direzione opposta al mondo materiale e volgerlo allo spirituale, cioè all'immateriale e che il mondo spirituale si deve amare?
E se si ammette che questo è vero, non si deve forse anche comprendere che è immutabile e conoscere che è universalmente accessibile a tutti quelli che sono capaci di averne puro pensiero?
E. - Assolutamente vero.
A. - E si potrà dubitare che la vita, la quale non si distoglie a causa delle avversità da una solida concezione morale, è più perfetta di quella che a causa dei disagi del mondo facilmente rovina in frantumi?
E. - Chi ne può dubitare?
A. - Non esaminerò altri temi in proposito.
Mi basta che assieme a me conosci e ammetti la innegabile certezza che queste quasi norme generali e certi luminosi concetti morali sono veri e non divenienti e che o l'uno o l'altro o tutti sono universalmente accessibili alla conoscenza di coloro che sono capaci di intuirli, ciascuno con un proprio atto di puro pensiero.
Ma mi sia concesso chiederti se, secondo te, essi sono di competenza della sapienza.
Dovresti ritenere appunto, suppongo, che è sapiente chi ha conseguito la sapienza.
E. - Certo che lo ritengo.
A. - E chi vive secondo giustizia, potrebbe vivere così, se non conosce quali azioni meno perfette deve subordinare alle più perfette, quali azioni eguali deve associare in una medesima valutazione e quali le cose di ciascuno che a ciascuno deve distribuire?
E. - No.
A. - E potrai dire che chi conosce queste norme, non le conosce secondo sapienza?
E. - No.
A. - E chi vive secondo prudenza non sceglie forse l'immunità dal male e stabilisce di preferirla alla soggezione?
E. - Chiarissimo.
A. - E si può dire che non sceglie secondo sapienza quando sceglie l'oggetto cui convertire lo spirito, dato che nessuno mette in dubbio che si deve scegliere?
E. - Io non potrei certo dirlo.
A. - Quando dunque converte lo spirito all'oggetto che sceglie con sapienza lo fa con sapienza.
E. - Pienamente evidente.
A. - E chi a causa di timori e sofferenze non si allontana dall'oggetto che sceglie con sapienza e al quale con sapienza si converte, senza dubbio agisce con sapienza.
E. - Senza alcun dubbio.
A. - È dunque pienamente evidente che quelle che abbiamo chiamato norme e luminosi concetti morali sono di competenza della sapienza.
Infatti quanto più se ne usa per realizzare la vita e secondo esse si realizza, tanto più si vive e si agisce con sapienza.
Ma tutto ciò che si fa con sapienza non si può ragionevolmente dire che sia separato dalla sapienza.
E. - È proprio così.
A. - Come dunque sono invariabilmente vere le leggi dei numeri, dei quali hai detto che la loro ideale verità è invariabilmente e universalmente accessibile a tutti coloro che la intuiscono, così sono invariabilmente vere le leggi della sapienza.
Ora, interrogato particolarmente su alcune di esse, hai risposto che sono evidentemente vere e ammetti che esse si presentano universalmente per la conoscenza a tutti coloro che sono capaci di intuire tali oggetti.
E. - Non ne posso dubitare.
Ma vorrei proprio sapere se le due idee di sapienza e numero sono contenute in un'unica determinata categoria poiché nella Bibbia, come hai ricordato, si trovano associate, ovvero se l'uno ha l'esistere dall'altro, oppure se uno si fonda sull'altro, ad esempio il numero dalla sapienza o nella sapienza.
Non oserei dire appunto che la sapienza ha l'esistere dal numero o il fondamento sul numero.
Conosco molti aritmetici o esperti di aritmetica, o comunque si debba denominarli, i quali fanno i calcoli con ammirevole abilità, ma pochissimi sono sapienti e forse nessuno.
Non saprei dunque per quale ragione, ma la sapienza mi si presenta di valore molto più alto del numero.
A. - Stai esponendo un concetto, di cui anche io abitualmente mi stupisco.
Quando rifletto sulla immutabile intelligibilità del numero e, per così dire, sul suo più intimo recesso o sfera determinata, o altro nome appropriato che si possa trovare con cui denominare, per così dire, il luogo di permanenza e la sede dei numeri, mi sento portare lontano dal mondo sensibile.
E incontrandomi per caso con un significato che posso rappresentarmi col pensiero ma che non sono capace d'esprimere a parole, per parlare, torno, come affaticato, nella nostra esperienza e dico, nel linguaggio usuale, le cose che sono poste davanti agli occhi.
Il fenomeno mi avviene anche quando con disciplinatissimo vigore dialettico, per quanto ne sono capace, penso alla sapienza.
Ed ecco perché mi stupisco fortemente.
Le due idee sono in una metempirica eppure evidentissima intelligibilità, anche perché vi si aggiunge la testimonianza della Scrittura, con cui le ho ricordate unite insieme.
Mi stupisco moltissimo, come ho detto, perché il numero per la massa è di poco pregio e di molto pregio la sapienza.
Al contrario non è da stupirsi che siano una sola e medesima cosa.
Infatti nella Scrittura è detto della sapienza che congiunge con forza un termine all'altro e dispone tutto con dolcezza. ( Sap 8,1 )
Il potere dunque che congiunge con forza un termine all'altro è forse il numero e quello che dispone tutto con dolcezza, con significato appropriato, è la sapienza, sebbene l'uno e l'altro siano di un'unica e medesima sapienza.
Ma la sapienza ha concesso una struttura numerica a tutti gli esseri anche ai meno perfetti e posti nel grado più basso della realtà.
Perfino i corpi in generale, sebbene siano al livello più basso nella realtà, hanno una propria struttura numerica.
Tuttavia non ha concesso l'averne scienza ai corpi e alle anime inferiori, ma soltanto a quelle ragionevoli, come se in esse dovesse stabilire la propria sede, da cui disporre tutti gli esseri, anche i meno perfetti, cui ha concesso una struttura numerica.
E poiché dei corpi giudichiamo facilmente come di esseri ordinati sotto di noi e poiché vediamo anche ad essi partecipati i numeri, pensiamo che i numeri siano sotto di noi e perciò li riteniamo di minor pregio.
Ma quando cominciamo a salire verso l'alto, troviamo che trascendono anche la nostra intelligenza e che rimangono immutabili nell'ideale verità.
E poiché è di pochi avere sapienza, ma far di conto è concesso anche ai non sapienti, si ammira la sapienza e si disprezzano i numeri.
Ma i dotti e coloro che si applicano alla dottrina, quanto più si allontanano dalla terrenità, tanto più intuiscono e numero e sapienza nell'ideale verità ed hanno in pregio l'uno e l'altra e, nel confronto con l'ideale verità, per essi non solo sono vili l'oro e l'argento e gli altri oggetti per cui gli uomini lottano, ma anche essi a se stessi.
E non ti stupire che i numeri sono meno valutati dagli uomini e che la sapienza è pregevole.
È più facile per loro far di conto che esser sapienti.
Puoi osservare anche che pregiano di più l'oro che il lume della lucerna, al cui paragone l'oro è da schernire.
Ma viene apprezzato di più un oggetto di gran lunga inferiore perché anche il mendico si accende la lucerna, pochi invece hanno l'oro.
Comunque non avvenga che al confronto col numero la sapienza venga considerata inferiore.
È di egual valore, ma richiede un occhio che sia capace di scoprirla.
In un unico fuoco si percepiscono consustanziali, per così dire, la luce e il calore e non possono esser separati l'una dall'altro.
Tuttavia il calore giunge soltanto agli oggetti posti vicino, la luce invece si diffonde più lontano in ogni direzione.
Così mediante il potere dell'intelligenza, che è presente nella sapienza, si riscaldano gli esseri più vicini, come le anime ragionevoli, ma esso non raggiunge col calore della sapienza i più lontani, come i corpi, ma li investe con la luce dei numeri.
Per te forse il concetto rimane oscuro perché nessuna immagine visibile si può adattare convenientemente all'oggetto invisibile.
Soltanto tieni presente un tema che basterà al problema che abbiamo impostato e che è evidente a modeste intelligenze, quali le nostre.
Quantunque non possa esserci chiaro se il numero è nella sapienza o dalla sapienza o viceversa se la sapienza è dal numero o nel numero, è certamente evidente che l'una e l'altro sono veri e immutabilmente veri.
Perciò non puoi assolutamente affermare che non esiste la verità immutabile che comprende tutti gli oggetti che sono veri immutabilmente e non puoi dire che è tuo o mio o di un altro individuo, ma che è universalmente accessibile e si mostra, come luce mirabilmente esposta e nascosta ad un tempo, a tutti coloro che conoscono gli immutabili veri intelligibili.
Ma si può forse dire che l'oggetto accessibile universalmente a tutti coloro che ne hanno puro pensiero appartiene alla particolare condizione di uno di loro?
Ricordi, penso, ciò che dianzi è stato detto dei sensi esterni.
Gli oggetti che si percepiscono col senso della vista e dell'udito, come colori e suoni, che contemporaneamente io e tu vediamo o udiamo, non appartengono alla nostra particolare esperienza visiva o uditiva ma sono comuni come oggetti sensibili.
Allo stesso modo dunque non puoi certo affermare che gli oggetti che io e tu pensiamo con la nostra particolare intelligenza appartengono alla condizione dell'intelligenza di uno di noi.
Non potrai affermare appunto che l'oggetto percepito dalla vista di due soggetti è la vista stessa dell'uno o dell'altro, ma un terzo termine, al quale si porta lo sguardo d'entrambi.
E. - È apoditticamente vero.
A. - Ed ora, secondo te, l'ideale verità, di cui da tempo stiamo parlando e nella cui unità intuiamo i molti intelligibili è superiore, eguale o anche inferiore alla nostra mente?
Ora se fosse inferiore, non esprimeremmo giudizi mediante essa, ma su di essa, come li esprimiamo degli oggetti sensibili perché ci sono inferiori.
Affermiamo appunto che hanno questa qualità o non l'hanno, ma anche che dovrebbero averla o non averla.
Altrettanto del nostro carattere sappiamo non solo che è in questo modo, ma spesso anche che non dovrebbe esserlo.
Ad esempio, si esprimono giudizi sui sensibili quando si dice: " è meno candido di quanto doveva "; ovvero: " è meno quadrato ", e così via; e del carattere: " è meno disposto di quanto dovrebbe ", ovvero: " meno mite ", o: " meno dinamico ", come comporterà appunto la norma del nostro costume.
E si esprime il giudizio mediante le regole interiori della ideale verità che universalmente si intuiscono, ma di esse non si giudica assolutamente.
Quando qualcuno dice infatti che le cose eterne sono più degne delle temporali e che sette più tre fanno dieci, non dice che così doveva essere, ma conoscendo che così è, non trasforma da arbitro, ma si allieta come scopritore.
Se poi l'ideale verità fosse eguale alla nostra mente, anche essa sarebbe nel divenire.
La nostra mente ora la intuisce di più ed ora di meno.
Palesa così di essere nel divenire.
Al contrario l'ideale verità, permanendo in sé, non aumenta quando ci si manifesta di più, non diminuisce quando ci si manifesta di meno, ma integra e immateriale, allieta di luce quelli che ad essa si volgono, punisce con la cecità quelli che si volgono in opposta direzione.
E che dire, dal momento che mediante essa giudichiamo della nostra stessa mente mentre non possiamo affatto giudicare di essa?
Si dice infatti: " Pensa di meno di quanto deve ", ovvero: " Pensa tanto quanto deve ".
La mente deve appunto tanto più pensare quanto più si avvicina all'immutabile verità.
Pertanto se essa non è inferiore ed eguale, rimane che sia eminentemente superiore.
Avevo promesso, se ricordi, di dimostrarti che v'è un essere più alto dell'atto puro del nostro pensiero.
Ed eccoti, è la stessa verità.
Abbracciala, se ne sei capace, e godine e prendi diletto nel Signore e ti accorderà le richieste del tuo cuore. ( Sal 37,4 )
Che desideri di altro se non esser felice?
E quale essere è più felice di chi gode della stabile, non diveniente e altissima verità?
Gli uomini si dichiarano felici quando godono nell'amplesso di un bel corpo ardentemente desiderato, sia delle mogli che delle amanti.
E noi dubitiamo di esser felici nell'amplesso con la verità?
Certi individui dichiarano di esser felici quando con la gola asciutta dall'arsura giungono ad una sorgente che scaturisce limpida, ovvero se affamati trovano un pranzo o cena ben servita e abbondante.
E noi diremmo di non esser felici quando siamo dissetati e nutriti dalla verità?
Si è soliti udire le voci di coloro che si proclamano felici se possono riposarsi fra rose e altri fiori o anche se fanno uso di unguenti molto profumati.
E che cosa di più odoroso e delizioso dell'alito della verità e potremmo dubitare di considerarci felici se ne siamo alitati?
Molti pongono la propria felicità nel canto corale e degli strumenti a corda e a fiato e quando loro mancano si considerano infelici e quando ne dispongono si entusiasmano per la gioia.
E noi, quando si cala nella nostra intelligenza senza alcun rumore un certo, per così dire, musicale ed eloquente silenzio della verità, potremmo cercare altra felicità e non godere di una tanto vera e interiore?
Gli uomini, dilettati dalla luce dell'oro e dell'argento, dalla luce delle gemme e di pietre di altri colori, ovvero dalla chiarezza e splendore della stessa luce visibile, sia essa in sorgenti luminose terrene ovvero nelle stelle, nella luna e nel sole, quando non sono impediti da tale godimento per difetti fisici e privazioni, si ritengono felici e desiderano vivere sempre per tali beni.
E noi temeremmo di stabilire la felicità nella luce della verità?
Anzi, poiché nella verità si conosce e raggiunge il sommo bene e la verità è sapienza, sforziamoci di vedere e raggiungere in essa il sommo bene e goderne.
È felice infatti chi gode del sommo bene.
La verità svela appunto tutti i beni che sono intelligibili e che gli individui, avendone puro pensiero secondo la propria capacità, si scelgono, o uno o più, per goderne.
Alcuni individui, nella luce del sole, scelgono l'oggetto da guardare con maggiore soddisfazione e al vederlo ricevono piacere.
E se fra di essi ve ne sono alcuni dotati di vista più resistente per salute e più acuta, nient'altro osservano con maggior piacere che il sole stesso, il quale illumina anche gli altri oggetti, da cui riceve piacere anche una vista più debole.
Allo stesso modo una resistente e acuta intuitività mentale, quando conoscerà con distinto atto di pensiero molti oggetti intelligibili e non divenienti, si eleverà alla stessa verità, da cui tutti essi sono resi intuibili e ad essa unita, è come se tutti li dimentichi e in essa di tutti goda.
Tutto ciò che è appunto sorgente di godimento nei diversi veri intelligibili, lo è mediante la verità.
Questo è il nostro riscatto: esser soggetti alla verità, ed è il nostro stesso Dio che ci riscatta dalla morte, cioè dalla soggezione al peccato.
La stessa Verità, che è anche uomo in dialogo con gli uomini, ha detto a coloro che lo credono: Se rimarrete nella mia parola, sarete veramente miei discepoli e conoscerete la verità e la verità vi libererà. ( Gv 8,31-32 )
L'anima infatti non gode di un bene con libertà, se non ne gode con sicurezza.
Ora non si è sicuri di quei beni che si possono perdere indipendentemente dalla volontà.
Ma la verità e la sapienza non si perdono indipendentemente dalla volontà.
Infatti non è possibile separarsene secondo lo spazio.
Quella che si chiama separazione dalla verità e dalla sapienza è la volontà perversa con cui si amano le cose inferiori.
E non si vuole una cosa senza volerlo.
Si ha dunque la verità, di cui si può godere tutti universalmente in egual misura perché in essa non esistono limiti, non esistono carenze.
Certamente non accoglie i suoi amatori rivali l'uno dell'altro.
È comune a tutti e casta con tutti.
Non si dice all'altro: " Vattene perché mi appressi anche io, allontana le mani perché anche io l'abbracci ".
Tutti le sono uniti, tutti toccano il medesimo oggetto.
Il suo cibo certamente non si spezza in bocconi, non puoi bere di essa senza che anche io lo possa.
Partecipandone non trasformi qualche cosa in un tuo oggetto particolare, ma ciò che di essa tu prendi, rimane un tutto anche per me.
Non devo attendere che ciò che ti dà il respiro sia restituito da te perché faccia respirare anche me.
Non v'è un qualche cosa di lei che diviene particolare di uno o alcuni, ma è universale contemporaneamente tutta a tutti.
Dunque gli oggetti che si toccano, gustano e odorano sono meno simili alla verità, ma di più gli oggetti che si odono e vedono.
La parola che si ode da alcuni, si ode da tutti costoro, e tutta da ciascuno insieme, e della figura che si rappresenta alla vista quanto se ne vede dall'uno tanto dall'altro insieme.
Tuttavia questi oggetti sono simili ma con una notevole differenza.
La voce in generale non suona tutta nell'istante perché si tende e prolunga nel tempo e una parte suona prima, l'altra dopo.
La figura visibile invece si estende in genere come volume nello spazio e non è tutta in ogni spazio.
E certamente tutti questi oggetti possono essere sottratti anche a chi non lo vuole e si può essere impediti dal goderne da determinati limiti.
Ad esempio, se il canto dolce di un tale individuo potesse durare in eterno e gli amatori venissero a gara per ascoltarlo, si comprimerebbero e si contenderebbero il posto quanto più numerosi sono per essere ciascuno più vicino al cantante.
Nell'udire comunque non otterrebbero che qualche cosa rimanga con loro, ma sarebbero impressionati da tutti suoni fuggevoli.
Così se volessi fissare il sole e lo potessi di continuo, esso mi abbandonerebbe al tramonto, sarebbe velato dalle nubi e perderei contro il mio volere il piacere di vederlo per molti altri ostacoli.
E infine, anche se fosse permanente la bellezza della luce, quando vedo, e della voce, quando ascolto, che cosa di degno me ne verrebbe, dal momento che mi è comune con le bestie?
Ma la bellezza della verità e della sapienza, purché si abbia una continua volontà di goderne, non esclude i nuovi arrivati anche se assediata da una moltitudine di uditori, non si estende nel tempo, non si muove nello spazio, non s'interrompe con la notte, non è intercettata dall'ombra, non soggiace ai sensi.
Ed è vicinissima a tutti coloro che da tutto il mondo a lei si volgono perché la amano, per tutti è supertemporale.
Non è nello spazio e non manca in alcuno spazio; avverte dall'esterno, insegna nell'interno; cambia in meglio tutti quelli che la scorgono, da nessuno è cambiata in peggio; nessuno può giudicarla, nessuno senza di essa giudica bene.
E per questo è chiaro che è innegabilmente superiore alla nostra intelligenza, che soltanto per la sua mediazione diviene sapiente, perché non di essa puoi giudicare, ma mediante essa di ogni altro oggetto.
Tu avevi ammesso che se avessi dimostrato l'esistenza di un essere sopra alla nostra intelligenza, avresti riconosciuto che è Dio, se non ve n'è un altro superiore.
Accogliendo questa tua dichiarazione, avevo affermato che potevo dimostrarlo per apodissi.
Se infatti v'è un essere superiore, questi è Dio, se non v'è, la stessa verità è Dio.
Dunque tanto se v'è, come se non v'è, non potrai negare che Dio esiste.
Questo era il problema propostoci da discutere e sciogliere.
E se ti turba il tema da noi accettato per fede nel divino insegnamento di Cristo, che v'è un padre della sapienza, ricordati che per fede abbiamo accettato anche che all'Eterno Padre è eguale la Sapienza da lui generata.
E su questo tema ora non si deve discutere, ma si deve ammetterlo per fede incrollabile.
Esiste infatti Dio ed esiste in un ordine sommamente intelligibile.
E riteniamo per fede tale verità non solo innegabile, come suppongo, ma la raggiungiamo anche con una ben definita, per quanto assai tenue, forma della conoscenza.
Ma basta al problema preso in considerazione, affinché possiamo svolgere gli altri temi attinenti all'argomento, a meno che non hai da obiettare in contrario.
E. - Accolgo queste conclusioni, invaso da indicibile gioia che non potrei spiegarti a parole e proclamo che sono assolutamente certe.
Proclamo poi con la voce interiore, con cui desidero essere ascoltato dalla stessa verità e a lei unirmi, la mia convinzione che essa non è soltanto un bene, ma il sommo bene beatificante.
A. - Proprio bene, anche io ne godo assai.
Ma, prego, siamo forse già sapienti e felici o vi tendiamo affinché questo fine sia da noi raggiunto?
E. - Penso che vi tendiamo piuttosto.
A. - Da dove dunque hai la certezza di questi principi, della cui verità ed evidenza dici di godere e perché affermi che essi appartengono alla sapienza?
Ovvero anche un insipiente può raggiungere la sapienza?
E. - Finché è insipiente, non lo può.
A. - Tu dunque o sei già sapiente o ancora non conosci la sapienza.
E. - Certamente non sono ancora sapiente, ma non potrei dire di essere insipiente nei limiti con cui conosco la sapienza poiché i principi che conosco sono certi e debbo affermare che sono attinenti alla sapienza.
A. - Ma dimmi, scusa; non devi ammettere che chi non è giusto è ingiusto, che chi non è prudente è imprudente e che chi non è temperante è intemperante.
Se ne può forse dubitare?
E. - Ammetto che un individuo, finché non è giusto, è ingiusto e lo direi anche del prudente e del temperante.
A. - Perché dunque, finché non è sapiente, non sarebbe insipiente?
E. - Ammetto anche questo, che finché non è sapiente è insipiente.
A. - E tu dei due che sei?
E. - Comunque mi vorrai considerare, non oso ancora dichiararmi sapiente e da quanto ho concesso veggo che ne consegue di dovermi dichiarare insipiente.
A. - Dunque l'insipiente conosce la sapienza.
Al contrario, come è stato detto, non sarebbe certo di voler esser sapiente e che è necessario esserlo, se non fosse presente nella sua intelligenza la nozione della sapienza, come pure dei concetti, su cui, singolarmente richiesto, hai risposto.
Anche essi sono attinenti alla stessa sapienza e tu hai perfino goduto della loro conoscenza.
E. - È come tu dici.
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