La musica |
La memoria non conserva soltanto i movimenti carnali dell'anima, e di questi ritmi abbiamo già parlato, ma anche i movimenti spirituali, di cui parlerò brevemente.
Infatti quanto più sono semplici, tanto meno parole richiedono, ma il massimo di puro pensiero.
Lo spirito non desidererebbe l'eguaglianza che non trovavamo pura e non diveniente nei ritmi sensibili, ma che tuttavia riconoscevamo, sebbene posta nella copia e nel divenire, se non fosse oggetto di conoscenza in qualche luogo.
Ma questo luogo non si trova nelle lunghezze di spazio e di tempo, perché quelle sono solide e queste divenienti.
Rispondimi dunque dove, se lo sai.
Tu non pensi certo che esista nelle figure sensibili che ad un sereno esame non puoi considerare eguali, né nelle lunghezze di tempo, perché non sappiamo se in esse ve ne sia qualcuna più lunga o più breve di quanto sia richiesto che sfugge all'udito.
Io domando dunque dove si trova, secondo te, l'eguaglianza ideale, giacché, avutane l'idea, desideriamo che certi dati e movimenti sensibili siano eguali, ma dopo un'approfondita teoresi su di lei, non osiamo più credere che esista in essi.
D. - Io penso che si trovi in qualche luogo più nobile del mondo sensibile ma non so se nell'anima stessa o anche al di sopra dell'anima.
M. - Supponi che stiamo indagando sull'arte ritmica e metrica, usata da coloro che compongono versi.
Pensi che essi abbiano in sé alcuni ritmi, sul cui modello compongono i versi?
D. - Non posso ritenere diversamente.
M. - Quali che siano questi ritmi, ritieni che siano nel divenire con i versi o che permangano?
D. - Permangono, certamente.
M. - Devi dunque ammettere che certi ritmi divenienti sono formati con altri non divenienti?
D. - La ragione mi costringe ad ammetterlo.
M. - E, secondo te, questa arte non è altro che un'attitudine della coscienza dell'artista?
D. - Sì.
M. - E credi che questa attitudine si trovi anche in chi è profano in questa arte?
D. - No, certo.
M. - E in chi l'ha dimenticata?
D. - Neanche in lui, perché anche egli è profano, anche se una volta ne era intenditore.
M. - E pensi che se qualcuno in un dialogo gli fa ricordare, i ritmi passeranno dalla coscienza del dialogante alla sua, oppure che egli interiormente nella propria coscienza si muova verso qualche cosa da cui gli viene restituito quel che aveva perduto?
D. - Penso che egli ricordi in se stesso.
M. - E pensi che col dialogo possa esser mosso a ricordare, se l'ha completamente dimenticato, quale sillaba è breve e quale è lunga, sebbene a causa di una umana antica precettistica e convenzione sia stata data ad alcune sillabe una lunghezza maggiore e ad altre minore?
Infatti se ciò fosse stabilmente deciso dalla natura o dall'arte, alcuni grammatici più vicini a noi non avrebbero considerato lunghe alcune sillabe che gli antichi hanno considerato brevi o e considerato brevi altre che quelli han considerato lunghe.
D. - Credo che è possibile perché qualsiasi cosa venga dimenticata può tornare alla memoria in un dialogo che induce a ricordare.
M. - Mi stupisci se pensi che mediante dialogo con qualsiasi individuo tu puoi ricordare ciò che hai mangiato a pranzo un anno fa.
D. - Confesso che non mi è possibile e non penso più che si possa mediante un dialogo far ricordare a quel tizio sillabe, di cui ha dimenticato completamente le lunghezze.
M. - Ma è così, soltanto perché nella parola Italia la prima sillaba era considerata breve per decisione di alcuni individui e ora per decisione di altri è considerata lunga.
Ma nessuno dei morti ha potuto, nessuno dei viventi può e nessuno dei posteri potrà fare che uno più due non facciano tre e che il rapporto fra due e uno non sia due.
D. - Niente è più evidente.
M. - Ma supponi che, come abbiamo fatto noi espressamente per l'uno e il due, quel tizio fosse interrogato su tutte le regole riguardanti i numeri dell'aritmetica, che non conosce non perché se n'è dimenticato ma perché non le ha mai apprese.
Non ritieni che, salvo le sillabe, potrebbe apprendere nello stesso modo l'arte poetica?
D. - Che dubbio?
M. - Dunque a quale oggetto, secondo te, egli volgerà l'atto del pensiero affinché i numeri della ritmica siano partecipati alla sua mente e vi producano quell'attitudine che si chiama arte?
Oppure ritieni che a lui almeno li comunicherà il dialogante?
D. - Penso che anche egli come l'altro dialogante rifletterà su se stesso per conoscere intellettivamente, mentre risponde, che sono veri i concetti trattati nel dialogo.
M. - Ed ora dimmi se, secondo te, i ritmi, sui quali si indaga in questi termini, sono nel divenire?
D. - No, assolutamente.
M. - Dunque non neghi che sono eterni.
D. - Al contrario, lo affermo.
M. - E potrebbe insinuarsi il timore che si dia una loro ineguaglianza e che essa ci sfugga?
D. - Per me non v'è assolutamente nulla di più immune da timore della loro eguaglianza.
M. - Da chi dunque si deve credere che venga partecipato all'anima l'essere eterno e non diveniente se non da Dio il solo eterno e non diveniente?
D. - Non vedo che si possa credere altro.
M. - Infine non è forse evidente che chi nel dialogo con un altro muove nell'interiorità l'atto del pensiero a Dio per avere pura intellezione del vero non diveniente, se non conserva questo suo atto nella memoria, non può tornare ad avere pura conoscenza di quel vero, senza che qualcuno lo faccia ricordare?
D. - Chiaro.
M. - Chiedo ora a quale oggetto si volgerà costui nell'allontanarsi dalla pura intellezione del mondo ideale perché vi debba essere richiamato dalla memoria.
O si deve forse pensare che la coscienza volta ad altro ha bisogno di un nuovo ritorno?
D. - Penso che sia così.
M. - Consideriamo, se vuoi, qual è l'oggetto, al quale egli si può volgere per distogliersi dalla pura intellezione della non diveniente e somma eguaglianza.
Non ne vedo più di tre modi.
La coscienza dunque, quando se ne distoglie, o si volge a un essere di egual valore ma altro o superiore o inferiore.
D. - Non riconosco esseri superiori all'eterna eguaglianza, quindi si deve indagare sugli altri due casi.
M. - Ma conosci, scusa, qual essere si possa dare di egual valore, ma altro da lei?
D. - No, non lo conosco.
M. - Resta dunque da cercare che cosa le è inferiore.
Ma non ti si presenta prima di tutto l'anima stessa appunto perché ammette decisamente che l'ideale eguaglianza non diviene, mentre avverte che lei diviene per il fatto stesso che ha pura conoscenza in maniera diversa dei vari oggetti?
Avendo dunque conoscenza di oggetti diversi l'uno dall'altro, attua la successione del tempo che non esiste negli oggetti eterni e non divenienti.
D. - Sono d'accordo.
M. - E questa attitudine o movimento dell'anima, con cui essa conosce intellettivamente le cose eterne e che le temporali, anche se sono in essa stessa, sono loro inferiori, e sa che si deve tendere alle superiori anziché alle inferiori, secondo te, non è la prudenza?
D. - Non altro, secondo me.
M. - E credi che si debba esaminare di meno il fatto che nell'anima l'aderire alle cose eterne non si verifica nell'atto stesso che in essa si ha la conoscenza che bisogna aderirvi?
D. - Al contrario chiedo insistentemente che lo esaminiamo e desidero sapere da che cosa deriva.
M. - Lo capirai facilmente se considererai a quali oggetti di solito si volge intensamente l'atto della coscienza e per i quali si mostra particolare interesse, perché, secondo me, sono quelli che si amano assai.
O tu pensi diversamente?
D. - No, certo.
M. - Dimmi, ti prego, che altro si può amare se non le cose belle?
Infatti anche se alcuni, che i greci nella loro lingua chiamano σαπροφίλοι sembrano amare le cose deformi, importa tuttavia vedere quanto siano meno belle di quelle che piacciono ai più.
È chiaro appunto che non si amano le cose, della cui bruttezza il senso rimane offeso.
D. - Hai ragione.
M. - Dunque le cose belle, di cui stiamo parlando, dilettano col ritmo, nel quale, come abbiamo già mostrato, si ricerca l'eguaglianza.
Essa infatti non si trova soltanto nella bellezza che riguarda l'udito e che si ha nei movimenti sensibili, ma anche nelle forme visibili.
Anzi ad esse ormai si applica più comunemente il concetto di bellezza.
Tu pensi che si abbia altro che ritmica eguaglianza, quando le parti si rapportano a coppia, proporzionalmente eguali, e che quelle che non hanno la corrispondente siano poste nel mezzo in maniera che ad esse da entrambi i lati siano riservate lunghezze eguali?
D. - No, la penso così.
M. - E nella luce visibile da cui traggono origine tutti i colori?
È appunto il colore che ci diletta nelle forme sensibili.
Che cosa dunque nella luce e nei colori si cerca se non ciò che è conveniente alla nostra vista?
Infatti si distoglie lo sguardo dalla luce abbagliante e non si vuole guardare oggetti male illuminati.
Così per quanto riguarda i suoni, si é frastornati da suoni assordanti e non si gradiscono quelli, per così dire, ridotti a un bisbiglio.
Il fenomeno non consiste nelle lunghezze di tempo, ma nello stesso suono che è come la luce dei ritmi e al quale è opposto il silenzio come le tenebre ai colori.
Dunque noi tendiamo a cose convenienti secondo il modo di essere della nostra natura e respingiamo le cose non convenienti che, come esperimentiamo, sono convenienti ad altri animali.
Anche per questo aspetto quindi noi ricaviamo godimento grazie a un determinato diritto d'eguaglianza, quando notiamo che in modi misteriosi cose eguali sono poste proporzionalmente a cose eguali.
Il fenomeno si può constatare anche negli odori, nei sapori e nella sensazione tattile.
Sarebbe lungo esporre questi fatti con precisione ma è assai facile sperimentarli.
Infatti ogni dato di questi oggetti sensibili ci dà piacere soltanto in virtù della eguaglianza e somiglianza.
E dove si hanno eguaglianza e somiglianza, si ha la categoria del numero.
Niente infatti è tanto eguale e simile come il rapporto di uno a uno.
Hai da fare qualche osservazione?
D. - Sono perfettamente d'accordo.
M. - La nostra precedente discussione non ha forse accertato che l'anima attua questi fenomeni nei sensibili e che non li subisce dai sensibili?
D. - Sì.
M. - Dunque l'amore di reagire al succedersi delle modificazioni del proprio corpo distoglie l'anima dalla pura intellezione delle cose eterne, giacché tale amore svia il suo interesse a causa della sollecitudine per il piacere sensibile.
Compie questo atto con i ritmi espressi.
Anche l'amore di dar forma mediante i sensibili la distoglie e la pone in movimento.
Compie questo atto con i ritmi in formazione.
La distolgono anche le rappresentazioni dei fantasmi e compie questo atto con i ritmi del ricordo.
La distoglie anche l'amore della vuota conoscenza di simili nozioni e compie questo atto con i ritmi del senso, i quali si valgono di determinate norme, per così dire, che traggono diletto dalla imitazione dell'arte.
Da esse nasce perciò la curiosità pedantesca, nemica della serenità, come appare perfino dalla etimologia, e per vuotezza incapace della pienezza del vero.
L'amore in genere dell'attività che distoglie dall'intellegibile ha origine dalla superbia.
Con questo vizio l'anima ha scelto di imitare Dio anziché essere soggetta a Dio.
Giustamente perciò è stato scritto nei libri santi: Primo atto della superbia umana è distaccarsi da Dio, ( Sir 10,14 ) e ancora: Primo atto di qualsiasi peccato è superbia. ( Sir 10,15 )
E non si può meglio chiarire il concetto di superbia che in questo passo del medesimo testo: Perché insuperbisce la terra e la cenere per aver fatto getto durante l'esistenza della propria interiorità? ( Sir 10,9-10 )
Infatti l'anima per sé è un non essere, altrimenti non sarebbe nel divenire e non subirebbe l'andare verso il nulla dal proprio essere ideale.
Poiché dunque per sé è un non essere e tutto ciò che in lei è essere le viene da Dio, quando si conserva nella sua dignità, dalla presenza di Dio stesso viene vivificata nella coscienza di essere pensante.
Dunque ha la perfezione dell'essere nella interiorità.
Perciò dilatarsi con la superbia è versarsi nella esteriorità e, per così dire, svuotarsi, cioè essere per nientificarsi.
Versarsi nella esteriorità è appunto far getto della propria interiorità, cioè rendere Dio lontano da sé, non con lo spazio ma con la disposizione del pensiero.
E questa tendenza dell'anima è avere sotto di sé altre anime, non di bruti perché è permesso dall'ordinamento divino, ma anime ragionevoli, cioè dei propri simili, unite a un medesimo destino sotto una legge comune.
L'anima superba tende ad agire su di esse e questa azione le sembra tanto più alta di quella sui corpi, quanto l'anima in generale è più perfetta del corpo.
Ma solo Dio, non per mezzo del corpo ma da sé, può agire su anime ragionevoli.
Tuttavia per la nostra condizione di peccatori avviene che sia consentito a certe anime influire su altre agendo mediante i corpi delle une o delle altre con segni, o naturali come l'espressione del viso o il cenno, o convenzionali come le parole.
Infatti agiscono con segni coloro che usano il comando o la persuasione o altro mezzo, se v'è oltre il comando e la persuasione, con cui ottengono l'effetto mediante o assieme ad altre anime.
Ne è conseguito giustamente che le anime, le quali han voluto eccellere per superbia sulle altre, non riescano, in parte perché insipienti in sé, in parte perché asservite all'essere fisico destinato a morire, a dominare senza difficoltà e dolori neanche le attività del proprio corpo.
Essi dunque mediante questi ritmi e movimenti, con cui anime influiscono su altre, si distolgono col tendere a onori e lodi dalla visione della pura e ideale verità.
Infatti Dio solo onora l'anima rendendola felice nel segreto, se vive alla sua presenza nella giustizia e nella pietà.
Dunque i movimenti che un'anima mostra esteriormente per mezzo di altre anime, di persone aderenti o soggette, sono simili ai ritmi in formazione perché essa li compie come se li compisse mediante il proprio corpo.
I movimenti poi che mostra esteriormente, quando desidera rendere aderenti o soggette altre anime, sono annoverati fra gli espressi.
Muovendo in questa maniera infatti essa agisce come mediante i sensi in modo da rendere uno con sé ciò che si accoglie come dal di fuori e da respingere ciò che non può.
E la memoria riceve entrambi questi movimenti e li rende oggetto di ricordo, gonfiandosi, quale un mare in tempesta, come avviene nelle immaginazioni e fantasmi di tal genere di attività.
Non mancano movimenti come i ritmi di giudizio per valutare ciò che in tale attività si ottiene con vantaggio o svantaggio.
Non dispiaccia considerarli propri del senso, perché sono sensibili i segni con cui le anime in questo modo influiscono su altre.
Non c'è da meravigliarsi dunque se l'anima, presa da tanti e così pressanti interessi, si distoglie dalla pura intellezione della verità.
Certamente, per poco che ha tregua da essi, ha visione di lei, ma poiché non li ha ancora superati, non le è permesso di fissarsi nella verità.
Da ciò deriva che l'anima non abbia insieme il conoscere dove si deve trovar quiete e il poter trovarla.
Ma avresti forse qualche obiezione?
D. - Non v'è nulla che osi obiettare.
M. - Che resta dunque?
Ma forse, dopo aver considerato, come ci è stato possibile, la contaminazione delle passioni e la caduta dell'anima, dobbiamo esaminare quale pratica le sia comandata per legge divina perché resa più leggera mediante la purificazione torni a salire dove non c'è movimento ed entri nel godimento del suo Signore?.
D. - Va bene.
M. - Non pensare che ne parli troppo a lungo, giacché le divine Scritture con tanti libri forniti di grande autorità e santità, non inculcano altro che di amare il Dio Signore nostro con tutto il cuore, tutta l'anima e tutta la nostra mente e di amare il prossimo nostro come noi stessi. ( Dt 6,5; Mt 22,37-39; Mc 12,30; Lc 10,27 )
Se dunque volgiamo a questo fine tutti i movimenti e ritmi dell'azione umana, senza dubbio saremo purificati.
O pensi diversamente?
D. - No, certo. Ma quanto questo precetto è breve a udirsi, tanto è veramente difficile a praticarsi.
M. - Ma che cosa è facile?
Forse amare i colori, i suoni, i piaceri del gusto, il profumo delle rose e i corpi piacevoli al tatto?
Ed è forse facile per l'anima amare questi oggetti, giacché in essi ricerca soltanto la proporzione di eguaglianza, ma se li esamina un po' più attentamente, vi scorge solo una copia e impronta lontana?
E le sarebbe difficile amare Dio, giacché rappresentandoselo nel pensiero, per quanto le è possibile quando è ancora ferita e macchiata, non può concepire in lui alcunché di ineguale, di dissimile in sé, di diviso nello spazio, di mutato nel tempo?
Ovvero le dà forse godimento costruire grandi monumenti e perpetuarsi nelle opere d'arte, poiché in esse le sono graditi i ritmi?
Altro io non vi scorgo.
Eppure niente vi si può scorgere di proporzionalmente eguale che i principi dell'arte pura non possono sottoporre a critica.
E se è così, perché dall'alto edificio della intelligibile eguaglianza crolla tanto in basso e innalza edifici terreni con i propri rottami?
Questo non è stato promesso da colui che non sa ingannare.
Il mio giogo, ha detto, è leggero. ( Mt 11,30 )
Dunque l'amore di questo mondo presenta maggiori difficoltà.
Infatti l'anima non trova in esso quel che cerca, cioè l'essere fuori del movimento nell'eternità, poiché la bellezza infima ha la sua compiutezza nel movimento dei sensibili e ciò che in essa è imitazione dell'essere posto fuori del movimento le viene partecipato da Dio sommo mediante l'anima.
E per questo la forma, mobile soltanto nel tempo, viene prima di quella che è mobile nel tempo e nello spazio.
Come dunque dal Signore è stato comandato alle anime ciò che devono amare, così dall'apostolo Giovanni ciò che non devono amare: Non amate, ha detto, il mondo, poiché tutte le cose che sono nel mondo sono concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e desiderio smodato della vita che passa. ( 1 Gv 2,15-16 )
Ma come giudichi l'individuo che riferisce non al piacere sensibile ma soltanto alla salute fisica tutti i ritmi che si compiono mediante il corpo o come reazione alle modificazioni del corpo e che sono conservati nella memoria?
O se riconduce non a personale prestigio sociale ma al bene delle anime stesse tutti i ritmi che si ottengono mediante le anime di persone a lui legate o che si compiono per legarle e che si conservano nella memoria?
O se usa i ritmi che nell'una e nell'altra categoria hanno nell'udito funzioni di critica e ricerca degli altri nel loro succedersi, non a scopo di una vuota e dannosa pedanteria ma di una indispensabile approvazione o disapprovazione?
Costui non forma forse tutti questi ritmi senza incappare nelle loro reti?
Infatti ha come fine la salute fisica, ché non sia compromessa, e riconduce tutte queste azioni al bene del prossimo che ha il dovere di amare come se stesso in virtù del vincolo naturale del rapporto civile.
D. - Stai parlando di un uomo grande e veramente pieno di umanità.
M. - Dunque non i ritmi inferiori alla ragione, nel loro genere belli, ma l'amore della bellezza inferiore macchia l'anima.
Se in essi infatti ama non solamente l'eguaglianza, di cui abbiamo già sufficientemente parlato nei limiti del nostro assunto, ma li ama anche come fine, l'anima ha perduto il proprio fine.
Non è uscita tuttavia dalla finalità delle cose poiché si trova nel grado e dignità in cui, per universale ordinamento, esse si trovano.
Altro è infatti disporsi al fine ed altro esser disposto al fine.
Essa si dispone al fine amando con tutta se stessa ciò che è al di sopra di lei, cioè Dio, e come se stessa le anime dei propri simili.
Con questa forza dell'amore essa dispone al fine le cose, senza esserne contaminata.
E ciò che la contamina non è cattivo, poiché anche il corpo è una creatura di Dio ed è ornato di una sua bellezza anche se infima, ma che in confronto alla dignità dell'anima ha poco valore, come il pregio dell'oro è contaminato dall'unione con l'argento anche il più puro.
Pertanto non escludiamo dall'azione della divina provvidenza i ritmi, quali che siano, anche se formati dalla nostra soggezione alla morte, pena del peccato, poiché essi nel loro genere sono belli.
Ma non li amiamo come se, godendo di essi, trovassimo la felicità.
Ce ne libereremo, giacché sono nel tempo, come di una tavola nel naufragio, cioè non buttandoli come zavorra e non aggrappandoci ad essi come se non andassero a fondo, ma usandone bene.
E dall'amore del prossimo praticato nella sua pienezza parte per noi la scala sicura per unirci a Dio e per non essere conservati nel fine soltanto dal suo ordinamento, ma per conservare, stabile e definitivo, il nostro fine.
Ma l'anima ama la disposizione al fine giacché lo provano gli stessi ritmi sensibili.
E proprio da questa disposizione il primo piede è il pirrichio, secondo il giambo, terzo il trocheo e così di seguito gli altri.
Giustamente potresti osservare che qui l'anima ha seguito piuttosto la ragione che il senso.
Ma bisogna accreditare ai ritmi sensibili il fatto che sebbene, ad esempio, otto sillabe lunghe hanno la medesima quantità di sedici brevi, tuttavia nella lunghezza di un piede le brevi richiedono di essere unite alle lunghe.
E quando la ragione valuta il senso e i piedi proceleusmatici le vengono presentati come eguali agli spandei, essa trova che nel caso ha valore soltanto la funzione di una ordinata disposizione, poiché le sillabe lunghe sono lunghe soltanto nel confronto con le brevi e le brevi sono brevi soltanto nel confronto con le lunghe.
E perciò un verso giambico, sebbene pronunciato più lentamente, purché si rispetti il rapporto dell'uno a due, non perde il suo nome.
Al contrario un verso formato di piedi pirrichi, se gradualmente gli si aumenta la lunghezza nel pronunciarlo, diviene all'improvviso un verso spondaico, se ci si attiene ovviamente alla musica e non alla prosodia.
Ma se il verso è formato di dattili e anapesti, poiché le lunghe sono percepite nel confronto con le brevi, quale che sia la lunghezza con cui si pronuncia, conserva il suo nome.
Così le aggiunte di un semipiede non vanno applicate all'inizio col medesimo schema che alla fine e non tutte si devono usare, anche se si accordano nella percussione.
Egualmente si ha la collocazione in fine di due brevi anziché di una lunga.
E tutti questi fenomeni sono misurati dal senso.
E in essi non è in discussione il ritmo dell'eguaglianza, che non ha nulla da perdere tanto se è quello o un altro, ma il legame della disposizione nell'unità.
Sarebbe troppo lungo percorrere gli altri casi attinenti alla medesima funzione nei ritmi di tempo.
Ma ovviamente il senso biasima anche le figure visibili quando sono chinate oltre il conveniente o rovesciate o simili.
In esse non è in discussione l'eguaglianza poiché la proporzione delle parti rimane, ma la cattiva disposizione.
Infine in tutte le nostre sensazioni e azioni, quando gradualmente adattiamo al nostro desiderio oggetti insoliti e perciò sgraditi, li accettiamo dapprima con sopportazione e poi con soddisfazione.
Così ci costruiamo il piacere con una disposizione finalizzata e sentiamo avversione se gli oggetti precedenti non sono legati a quelli di mezzo e questi ai seguenti.
Pertanto non riponiamo il nostro godimento nel piacere della carne, negli onori e lodi degli uomini e nella ricerca delle cose che stimolano il corpo dal di fuori, giacché possediamo nella nostra interiorità Dio, in cui tutto ciò che amiamo è stabile e immutabile.
Accade così che, pur avendo questi beni temporali, non se ne rimane irretiti, che senza provar dolore possono mancar i beni esterni e che senza provar dolore alcuno o per lo meno non grave il corpo stesso sia tolto a noi e restituito dalla morte alla natura per essere trasformato.
Infatti il riferirsi dell'anima alla sola porzione di tempo in cui vive la limita ad attività che turbano.
Altrettanto fa, nella non considerazione della legge universale, l'amore di una determinata attività limitata all'individuale, che tuttavia non può rendersi altra dal tutto che Dio ordina al fine.
Dunque è soggetto alle leggi chi non ama le leggi.
Ma se meditiamo abitualmente le realtà spirituali, che sono sempre medesime a se stesse e se per caso nel medesimo tempo formiamo dei ritmi di tempo con un movimento qualsiasi del corpo, ma che sia molto facile a divenir abitudine, come camminare o cantare, essi si svolgono a nostra insaputa, benché non esisterebbero senza la nostra azione.
Così se siamo intenti alle nostre vuote fantasticherie, questi ritmi scorrono con la nostra azione, ma senza che ce ne accorgiamo.
Quanto più dunque e con quanto maggiore immobilità, quando questo essere corruttibile avrà indossato l'incorruzione e questo essere mortale avrà indossato l'immortalità, ( 1 Cor 15,53 ) cioè, per parlate più chiaramente, quando Dio darà vita al nostro corpo di morte, come dice l'Apostolo, in considerazione dello spirito che rimane in noi, ( Rm 8,11 ) quanto più dunque allora, avendo visione, come è stato detto, faccia a faccia, ( 1 Cor 13,12 ) del Dio Uno e della Verità nella sua trasparenza, intuiremo senza disporci nell'alterità i ritmi, secondo cui moviamo i corpi, e ne avremo godimento.
A meno che non si debba credere che potendo l'anima godere delle cose che mediante lei sono buone, non possa godere delle cose da cui essa è buona.
Ma la pratica per cui l'anima, con l'aiuto di Dio suo Signore, si libera dall'amore della bellezza inferiore, combatte per debellare la propria abitudine in lotta contro di lei e con questa vittoria trionferà in se stessa sulle potenze di questa aria e poiché esse la contrastano e tendono ad impedirglielo, sale a Dio che la rende immobile e forte, non è, secondo te, la virtù che si chiama temperanza?
D. - La ravviso e capisco.
M. - Inoltre l'anima progredisce in questo cammino e non l'atterriscono la perdita dei beni temporali o la morte stessa mentre pregusta e quasi afferra i godimenti eterni e ha la forza di dire ai propri compagni a lei inferiori: Per me è bene scioglier la vela ed esser con Cristo, ma a voi è necessario che io rimanga nella carne. ( Fil 1,23-24 )
D. - È così, credo.
M. - Ma questa disposizione dell'anima per cui essa non teme avversità o morte, non si deve forse chiamarla fortezza?
D. - Anche questo conosco.
M. - E la legge che l'anima si è data, per cui non si assoggetta ad alcuno se non a Dio solo, non desidera essere eguagliata ad alcuno se non agli spiriti più puri e non dominare su alcuno salvo i bruti e i corpi, quale virtù pensi che sia?
D. - Chi non capisce che è la giustizia?
M. - Comprendi bene.
Ti propongo un altro quesito.
Dianzi è emerso dal nostro dialogo che la prudenza è una virtù con cui l'anima conosce il luogo in cui trovar quiete.
Vi si eleva con la temperanza, cioè col volgersi dell'amore a Dio, che è detto carità, e col volgersi in altro senso dall'amore del mondo e a questo si accompagnano fortezza e giustizia.
Chiedo dunque la tua opinione sul tempo, in cui l'anima giungerà alla maturazione del proprio amore ed elevazione dopo aver compiuto la propria santificazione e compiuto anche il ritorno a nuova vita del proprio corpo.
Eliminate dalla memoria le perturbazioni dei fantasmi, comincerà a vivere in Dio stesso a Dio solo, quando avrà avuto compimento ciò che ci si promette in questi termini: Dilettissimi, ora siamo figli di Dio e non si è ancora manifestato che cosa saremo.
Ma sappiamo che quando si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo come è. ( 1 Gv 3,2 )
Ti chiedo dunque se, secondo te, le virtù che abbiamo elencato esisteranno anche allora.
D. - Io non vedo, quando saranno passate le contrarietà, contro cui si lotta, come potrebbe esservi la prudenza, la quale non sceglie che cosa seguire se non nelle contrarietà, o la temperanza, la quale non distoglie l'amore se non dalle cose che le sono contrarie, o la fortezza, la quale non sopporta che le contrarietà, o la giustizia la quale desidera di essere eguale alle anime più felici e dominare la natura inferiore soltanto nelle contrarietà, cioè quando non ha ancora raggiunto ciò che vuole.
M. - La tua risposta non è del tutto irragionevole e a certi dotti è così sembrato, lo ammetto.
Ma nel leggere i libri, che sono i più autorevoli di tutti, vi trovo scritto: Gustate e vedete che il Signore è soave. ( Sal 34,9 )
L'apostolo Pietro ha espresso così il medesimo concetto: Se tuttavia avete gustato che il Signore è buono. ( 1 Pt 2,3 )
E ciò si avvera, secondo me, in queste virtù che purificano l'anima con la conversione stessa.
Infatti l'amore delle cose temporali non sarebbe debellato se non con l'attrattiva delle cose eterne.
Ma quando si è giunti al passo che dice: E i figli degli uomini si rifugeranno sotto la copertura delle tue ali, saranno inebriati dall'abbondanza della tua casa e tu li disseterai al torrente del godimento di te, perché la sorgente della vita è presso di te, ( Sal 36,8-10 ) il testo non dice più che il Signore sarà soave ad esser gustato.
Puoi osservare però quale scaturire e scorrere della sorgente eterna viene indicato, giacché se ne ha come conseguenza una specie di ebbrezza.
E con questo termine, mi pare, è mirabilmente significato l'oblio dei vuoti fantasmi posti nel divenire.
Il testo soggiunge di seguito altri concetti e dice: Nella tua luce avremo visione della luce.
Continua ad offrire la tua misericordia a coloro che hanno scienza di te. ( Sal 36,10-11 )
Nella luce si deve intendere in Cristo che è la Sapienza di Dio ed è tante volte chiamato luce.
Non si può dunque negare che si avrà la prudenza nel luogo dove si dice Avremo visione, e: A coloro che hanno scienza di te.
Non si potrebbe infatti avere visione e scienza del bene ideale dell'anima dove non si ha la prudenza.
D. - Ora capisco.
M. - E i retti di cuore possono essere senza giustizia?
D. - Ammetto che con questo termine assai spesso si designa la giustizia.
M. - E di che altro vuole avvertirci il medesimo Profeta in seguito, quando canta: E la tua giustizia a coloro che sono di cuore retto? ( Sal 36,11 )
D. - È evidente.
M. - E allora ricorda, per favore, che ne abbiamo abbastanza trattato poco fa, e cioè che per la superbia l'anima scende in basso verso certe attività in suo potere e che nella non considerazione della legge universale è caduta a compiere azioni limitate all'individuale, e questo è un distaccarsi da Dio.
D. - Me ne ricordo bene.
M. - Quando dunque essa fa in modo che ciò in seguito non le dia più piacere, secondo te, non fissa il suo amore in Dio e vive immune da macchia nella più grande temperanza, castità e libertà dal timore?
D. - Sì, certamente.
M. - Osserva anche che il Profeta aggiunge anche questo concetto col dire: Non mi venga il piede di superbia. ( Sal 36,12 )
Col termine di piede designa infatti l'andar lontano o lo scivolare.
Ma usando contro di esso la temperanza, vive nell'eterno a Dio unita.
D. - Capisco e sono d'accordo.
M. - Resta dunque la fortezza.
Ma come la temperanza è virtù contraria alla caduta che dipende dalla libera volontà, così la fortezza è virtù contraria alla violenza con cui si può essere illiberamente condizionati, se si è meno forti a fronteggiare gli eventi da cui si è abbattuti e lasciati a terra nella più grande infelicità.
Questo tipo di violenza di solito nella sacra Scrittura è convenientemente designato col termine di mano.
Soltanto i peccatori dunque tentano di imporla.
Ma l'attitudine per cui allora l'anima attraverso questa stessa esperienza si premunisce ed è difesa dal sostegno di Dio, affinché l'assalto non le possa venire addosso da alcuna parte, comporta un potere stabile e, per così dire, impassibile.
Ed esso, salvo un tuo disparere, ragionevolmente si può chiamare fortezza e, secondo me, è designata quando si aggiunge: E la mano dei peccatori non mi getti a terra. ( Sal 36,12 )
Ma sia che nelle parole citate si deve intendere questo o altro, potresti negare che l'anima, posta nella felicità della perfezione morale, ha visione diretta dell'intelligibile, rimane stabilmente senza macchia, non può subire alcuna contrarietà, si assoggetta a Dio solo e si eleva al di sopra di tutti gli esseri?
D. - Anzi non vedo come altrimenti sarebbe nella piena perfezione e felicità.
M. - Dunque la sua pura intellezione, santificazione, impassibilità e adeguazione alla legge o sono le quattro virtù nel loro grado più perfetto e alto, ovvero, per non affaticarci invano con i nomi se si è d'accordo sui concetti, in luogo di queste virtù, di cui l'anima si serve nella vita terrena, essa deve sperare facoltà corrispondenti nella vita eterna.
Noi ricordiamoci soltanto un concetto che è il più attinente al nostro argomento.
È stabilito dunque dalla provvidenza di Dio, con cui egli ha creato e dirige al fine tutte le cose, che anche un'anima peccatrice e piena di mali è mossa al fine da ritmi ideali e ne muove fino alla infima manifestazione della sensibilità.
Ovviamente questi ritmi possono essere sempre meno belli ma non possono mancare del tutto di bellezza.
E Dio sommamente buono e giusto non condanna la bellezza tanto se è prodotta dalla defezione dal fine dell'anima quanto dal suo ritorno e stabilità in esso.
Il ritmo-numero inizia dall'uno ed è espressione di bellezza in virtù della proporzione d'eguaglianza e si congiunge l'uno all'altro in una serie unitaria.
Si viene ad ammettere perciò che ogni essere, per essere ciò che è, si muove all'unità, tende, quanto gli è possibile, a rimanere simile a se stesso, mantiene, con un determinato equilibrio, come auto-conservazione il proprio ordinamento nello spazio, nel tempo, nella materia.
Bisogna anche ammettere dunque che da un principio uno, per mezzo di una persona a lui eguale in essenza e perfezione, con la ricchezza della sua bontà, con cui in carità, per così dire, altamente unitiva, si uniscono fra di loro, che sono uno e uno da uno, sono state prodotte originariamente tutte le cose nell'ordine del loro essere.
Perciò questo verso che ci siamo proposto come esempio: Deus creator omnium, è molto gradito non solo all'udito per il suono ritmico ma anche all'anima per la razionalità e verità del pensiero.
Potrebbe turbarti però la pigrizia mentale, per parlare con indulgenza, di coloro i quali affermano che non si può produrre l'essere dal nulla, sebbene è detto nella Scrittura che Dio onnipotente l'ha fatto. ( Gen 1,1; Sap 2,2; 2 Mac 7,28 )
Ma l'artigiano con i ritmi razionali propri della sua arte può produrre i ritmi sensibili propri della sua tecnica, inoltre con i ritmi sensibili può produrre i ritmi in formazione con cui muove le membra nell'agire e ai quali competono già lunghezze di tempo, e infine può costruire dal legno forme visibili disposte razionalmente nello spazio.
E la natura, che obbedisce agli ordini di Dio, non potrebbe produrre il legno stesso dalla terra e dagli altri elementi ed egli gli stessi elementi primi senza che preesistessero?
È necessario anzi che un muoversi ordinato nel tempo preceda il disporsi ordinato dell'albero nello spazio.
Infatti ogni genere di piante in determinate quantità di tempo, a seconda del seme, attecchisce, germoglia, spunta fuori, mette le foglie, si irrobustisce e produce o il frutto o di nuovo la vigoria del seme in un misterioso avvicendarsi di ritmi.
A più forte ragione ciò avviene per i corpi degli animali, in cui la disposizione delle membra offre allo sguardo assai di più una ritmica proporzione.
Ora sarebbe possibile che mediante gli elementi siano prodotti questi esseri e sarebbe stato impossibile che gli elementi fossero prodotti dal nulla?
Come se fra di essi ve ne sia qualcuno più imperfetto e basso della terra.
Ma essa ha inizialmente la forma elementare di corpo, giacché si è d'accordo che esistano in essa una determinata unità, valori numerici e l'ordinamento al fine.
Infatti qualsiasi sua particella, per quanto piccola, da un punto indivisibile si estende necessariamente nella linea, riceve per terza la superficie e per quarto il volume con cui il corpo è completo.
Da chi proviene dunque questa progressione aritmetica dalla prima alla quarta?
Da chi anche l'eguaglianza delle parti, che si trova nella linea, superficie e volume?
Da chi questo rapporto razionale ( ho voluto così tradurre analogia ), per cui il rapporto che ha la linea indivisibile, lo ha anche la superficie alla linea e il volume alla superficie?
Da chi dunque, scusa, tutto ciò se non dalla somma eterna principialità dei valori numerici, della proporzione, della eguaglianza e della finalità?
Ma se si toglieranno queste dimensioni alla terra, diverrà un nulla.
Perciò Dio onnipotente ha prodotto la terra, e la terra è stata prodotta dal nulla.
Ed inoltre la stessa struttura qualitativa, per cui la terra si distingue dagli altri elementi, non mostra forse l'uno nel limite con cui l'ha ricevuto?
Infatti nessuna delle sue parti manca di proporzione col tutto e nel congiungimento organico di esse tiene nel suo genere la sfera più bassa ma la più adatta alla sua conservazione.
Le si riversa sopra l'elemento acqua, che tende anche essa all'unità perché più ornata e più penetrata dalla luce a causa della maggiore proporzione delle parti e che occupa la sfera conveniente alla propria finalizzazione e conservazione.
Che dire dell'elemento aria che tende all'unità mediante un'organicità molto più agevole, che è tanto più ornata dell'acqua quanto questa lo è della terra e tanto più sicura nell'autoconservazione?
Che dire infine della sfera più alta del cielo, in cui ha limite il tutto dei corpi visibili, in cui si hanno l'ornamento più grande del mondo visibile e il grado più alto dell'autoconservazione?
Certamente le sfere, di cui percepiamo il muoversi nel tempo con la funzione dei nostri sensi, e tutti gli esseri che in esse esistono possono ricevere e conservare la disposizione nello spazio che appare con l'essere in un luogo, soltanto se li precede, fuori dello spazio e del tempo, una successione di tempi che sono nel movimento.
Allo stesso modo un movimento animatore precede e misura in una successione di tempi gli esseri posti nello spazio nel loro formarsi.
E questo movimento esegue l'ordinamento del Signore creatore di tutte le cose e non ha in sé in atto le lunghezze dei tempi della propria successione secondo numero, ma in potenza che distribuisce i tempi.
E sopra di questa potenza i ritmi razionali e intelligibili delle anime costituite stabilmente nella felicità trasmettono senza riceverlo da altri esseri, fino all'ordine costituito sulla terra e sotto di essa, lo stesso ordinamento di Dio al fine, senza di cui non cade una foglia dall'albero e per cui i capelli del nostro capo hanno il loro numero. ( Mt 10,30 )
Ho trattato con te dei concetti che ho potuto e come l'ho potuto, io tanto piccolo di cose tanto grandi.
Ma se qualcuno legge questo nostro discorso una volta pubblicato, sappia che è stato scritto per individui molto più deboli di quelli che seguendo l'autorità dei due testamenti adorano la consustanziale e incommutabile Trinità dell'uno sommo.
Dio, principio ordinatore e fondamento del tutto, e la onorano in fede speranza e carità.
Infatti essi non sono purificati dal freddo bagliore delle filosofie umane ma dal grande e ardente fuoco dell'amore.
Ma non riteniamo che si devono trascurare coloro che gli eretici ingannano con la promessa fallace del pensiero e della scienza, e per questo nell'esame delle vie procediamo più lentamente degli uomini santi che, volando al di sopra di esse, non si degnano di prenderle in considerazione.
Ma non oseremmo farlo se non vedessimo che molti figli devoti della ottima madre la Chiesa cattolica i quali, avendo conseguito, quanto è richiesto, la capacità dialettica con gli studi del periodo scolastico, lo hanno già fatto per necessità di ribattere gli eretici.
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