Gli stati di vita del cristiano

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I due stati d'elezione nel Nuovo Testamento

Già la prima descrizione dell'elezione dei discepoli lasciò trasparire quanto nel Vangelo l'unità delle due forme d'elezione sovrasti ogni successiva distinzione.

Da una parte c'è qui un'unione personale tra gli eletti al sacerdozio e quelli allo stato dei consigli.

È l'unica e medesima separazione dal mondo e dalla folla, in cui i discepoli ricevono la chiamata alla sequela esistenziale e il conferimento del ministero.

E le promesse che ad essi vengono date, che riguardano loro stessi, il loro futuro operare, l'assistenza del Signore, il loro destino di gente esposta, perseguitata, vittoriosa nella perdita di sé, valgono in inseparabile unità per essi come persone consacrate e come persone contrassegnate dal ministero.

Quella speciale fecondità che, poiché essi hanno lasciato tutto e hanno seguito il Signore, viene ad essi promessa come il centuplo di ciò che nel mondo, nello stato laicale, avrebbero potuto fare, è certo in primo luogo il compenso per la loro totale dedizione, il loro coraggio di rinunciare a tutti i beni di questo mondo.

Infatti questa scena si pone espressamente di fronte alla scena del giovane ricco che non ha seguito la chiamata allo stato dei consigli ( Mt 19,27-30 ).

Ma nella stessa promessa si dice anche: « In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele » ( Mt 19,28 ).

Le stesse parole ai dodici Apostoli le riferisce Luca durante la scena dell'ultima Cena, anteponendo ad esse la frase: « Io preparo per voi il regno, come il Padre l'ha preparato per me » ( Lc 22,29 ).

Possiamo lasciare aperta la questione, quale preciso significato Gesù attribuisca a questo numero dodici.

Le dodici tribù già da lungo tempo non esistono più; il numero rappresenta perciò in primo luogo l'Israele originario, ideale, anche qualitativamente completo, integrale.

A ripristinare questo Israele qualitativo come il perfetto popolo di Dio era Gesù venuto, e i suoi discepoli eletti dovevano dapprima formare con lui le primizie di esso.

Giudici sarebbero stati allora come allineatori, linee direttrici.

Solo allorché il ministero di Gesù richiamò l'attenzione in misura sempre crescente sulla croce, apparve chiaramente, dalla loro rappresentatività universale, la ministerialità ecclesiale dei Dodici.

Essa è pienamente sviluppata nella consapevolezza degli Undici dopo la resurrezione del Signore, ad esempio nel discorso in cui Pietro propone la sostituzione del traditore nel collegio dei dodici: « Egli era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero ( … ) nel libro dei Salmi sta infatti scritto: ( … ) il suo ufficio di testimone lo prenderà un altro ».

E poi pregano per coloro che sono stati proposti per l'ufficio: « Signore ( … ), mostra quale di questi due tu hai designato a prendere il posto in questo ministero e apostolato » ( At 1,17-20-24-25 ).

D'altra parte Giovanni, nell'Apocalisse, dove il promesso giudicare insieme con Cristo viene descritto come una realtà raggiunta, vedrà i troni, innalzati in una specie di indeterminatezza, affidati a tutti coloro che hanno combattuto e vinto insieme con Cristo: « Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono » ( Ap 3,21 ).

« Poi vidi alcuni troni, e a quelli che vi si sedettero fu dato il potere di giudicare.

Vidi anche le anime dei decapitati a causa della testimonianza di Gesù e della parola di Dio, e quanti non avevano adorato la bestia e la sua statua e non ne avevano ricevuto il marchio sulla fronte e sulla mano » ( Ap 20,4 ): le anime dei martiri e dei confessori.

Sono coloro « sui quali la seconda morte non ha potere alcuno » ( Ap 20,6 ), poiché essi già in questo mondo sono definitivamente morti con Cristo e hanno preso parte alla sua resurrezione nel cielo.

Sono i santi, che « hanno disprezzato la vita sino a morire » ( Ap 12,11 ), i medesimi che « sono vergini e seguono l'Agnello dovunque egli va; essi sono stati redenti tra gli uomini come primizie per Dio e per l'Agnello » ( Ap 14,4 ).

Essi sono « beati e santi, ( … ) saranno sacerdoti di Dio e del Cristo e regneranno con lui per mille anni » ( Ap 20,6 ), vale a dire per il tempo della Chiesa fino al Giudizio finale.

Il sacerdozio di cui qui si parla è un sacerdozio personale, non ministeriale; è la partecipazione delle anime vergini, che senza riserve si sono consacrate a Dio, al Suo giudizio redentore, alla sua conduzione del mondo e della Chiesa.

Così il « ministero » promesso nel Vangelo di giudicare insieme col Signore si estende dagli Apostoli a tutti quei santi che a motivo della speciale elezione o della disposizione interiore dei voti ( come i martiri ) hanno parte al sacerdozio esistenziale di Cristo.

A partire di qui può poi Paolo trasmettere il ministero del giudicare insieme con Cristo a tutti i ( realmente ) santi: « Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? » ( 1 Cor 6,2 ), con la qual cosa egli ha in mente la comunità.

Ma certo in modo tale che devono essere considerati come santi quelli che si sono distinti dal mondo, sono morti ad esso e « non appartengono più a se stessi » ( 1 Cor 6,19 ), quelli che dunque vivono dello stesso spirito che per Giovanni è esemplarmente e pienamente impersonato nella verginità sacerdotale.

Nell'originaria separazione degli Apostoli dalla folla il Signore esige tutto: l'abbandono di tutto ciò che è proprio e la sequela incondizionata.

In questo salto totale fuori dal mondo per andare incontro a Lui risiede quella interezza di vita cristiana che rende idoneo l'eletto a divenire nella sua sequela anche ministerialmente pastore buono delle « pecore stanche e sfinite » ( Mt 9,36 ).

Egli esige questo salto non solo dai suoi Apostoli, ma da ognuno che voglia far le cose per intero e « voglia seguirlo dovunque egli vada » ( Mt 8,19 ); quindi certamente anche da certuni che non perverranno alla consacrazione sacerdotale.

Egli lo esige a fortiori dai suoi preti.

Il salto viene continuamente descritto come un « lasciare tutto », di conseguenza come piena povertà, all'interno della « sequela dovunque tu vada », dunque nella piena obbedienza.

La verginità, come già abbiamo visto, non è urgentemente richiesta dal Signore, poiché i discepoli, provenendo dall'Antico Testamento, sono per lo più sposati, e « l'uomo non separi ciò che Dio ha unito » ( Mt 19,6 ), Gesù stesso non venne « ad abolire la Legge, ma ad adempierla » ( Mt 5,17 ).

Nel Vangelo viene accennata qui una prima differenziazione tra sacerdozio e stato dei consigli: quest'ultimo aggiunge alla povertà e all'obbedienza sacerdotale anche la verginità.

Se perciò Pietro, che è sposato, appare come il rappresentante del sacerdozio ministeriale, gli apostoli Giovanni e Paolo, vergini, sono i rappresentanti designati di quel sacerdozio personale e interiore che sta nella esplicita sequela del sommo Sacerdote ( Eb 9,14 ) che consacra se stesso.

Per Paolo, che con tale vigore richiama continuamente l'attenzione su se stesso come modello, sulla sua personale conduzione di vita, questo non abbisogna di spiegazione alcuna.

Egli si sa e si sente non solo funzionario di Cristo, ma è del tutto consapevole di essere lo « strumento prescelto » che deve soffrire per il Signore ( At 9,15-16 ), che reca nel suo corpo le stimmate di Gesù ( Gal 6,17 ), « portando sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo » ( 2 Cor 4,10 ), e questo in rappresentanza della Chiesa ( 1 Cor 4,9-13 ): « Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo, che è la Chiesa » ( Col 1,24 ).

Tutto ciò è sacerdozio assolutamente soggettivo, che si appoggia anche chiaramente alla - consigliata, non comandata ( 1 Cor 7,25 ) - verginità.

Infatti chi come Paolo è per la comunità un padre ( 1 Cor 4,15 ) e una madre ( 1 Ts 2,7 ) non può, accanto a questo doloroso partorire figli spirituali ( Gal 4,19 ), occuparsi anche nella maniera dovuta di una famiglia secondo la carne.

E chi gelosamente si fa garante della verginità spirituale della Chiesa - « io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promesso a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo » ( 2 Cor 11,2 ) - come potrebbe non dare l'esempio con la verginità propria?

Come potrebbe egli « prodigarsi volentieri, e anzi sacrificare se stesso fino all'ultimo per le vostre anime » ( 2 Cor 12,15 ) e rallegrarsi di « spargere il suo sangue ( … ) nel servizio sacrificale per la vostra fede » ( Fil 2,17 ), se avesse da preoccuparsi di una moglie e dei figli?

Ancora una volta però alla fine del Vangelo di Giovanni viene evidenziato chiaramente il rapporto tra un sacerdozio prevalentemente ministeriale e uno prevalentemente soggettivo, e perciò in senso più ampio anche il rapporto tra il sacerdozio ( secolare ) prevalentemente funzionale e lo stato dei consigli che è prevalentemente da eseguire in maniera personale: ciò avviene nella crescente, sempre più simbolica, sequenza scenica fra Pietro e Giovanni, finché entrambi, alla fine, diventano per un certo tempo, all'inizio degli Atti degli Apostoli, una specie di indivisibile unità duplice ( At 3,1-3-11; At 4,13-19; At 9,14 ).

Pietro, che incontra il Signore dopo Giovanni e si chiama già allora « figlio di Giovanni ( Giona ) » ( Gv 1,42 ), rimane fino al conferimento finale del suo ufficio in una certa qual dipendenza da lui.

Giovanni non si intromette a forza tra il Signore e l'ufficio, ma viene insediato dal Signore stesso nel « ministero dell'amore », che deve mediare fra Lui e il ministero ufficiale.

Così Pietro, nella sala dell'ultima Cena, si rivolge a lui, che poggia il capo sul petto del Signore, per pervenire alla per lui importante conoscenza del traditore.

E il Signore risponde apertamente e chiaramente, perché egli non lascia senza risposta nessuna domanda che gli venga posta dall'amore.

Il mattino di Pasqua Pietro e Giovanni si affrettano insieme verso il sepolcro; l'amore, non appesantito come lo è il ministero, è più veloce nel raggiungere la méta; non sfrutta però la vicinanza concessagli contro il ministero, ma aspetta finché Pietro arriva, lascia entrare lui, ed entra a sua volta solo dopo che Pietro ha terminato il suo controllo ministeriale.

« Allora entrò anche quel discepolo che per primo era arrivato al sepolcro. Egli vide e credette » ( Gv 20,8 ), cosa che per Pietro non viene espressamente notata.

Ancora una volta in occasione della pesca sul lago l'amore è più svelto e comunica al ministero la conoscenza del Signore ( Gv 21,6-7 ).

Adesso Pietro può svolgere il suo ufficio e condurre gli eventi: egli si getta in mare per essere per primo presso il Signore, e trae personalmente a Lui la rete con la grande pesca che gli altri discepoli sulla barca avevano portato a riva ( Gv 21,11 ).

Sin qui il rapporto fra personale e ministeriale all'interno dell'unità della Chiesa appare bilanciato, nella reciproca sovra - e subordinazione.

Ma in quest'attimo il Signore pone a Pietro la domanda che ribalta tutto: « Simone, figlio di Giona, mi ami tu più di costoro? » ( Gv 21,15 ).

Ciò che qui è incomprensibile è non tanto la domanda circa l'amore come presupposto per il conferimento del ministero, quanto piuttosto il « più di costoro ».

Più di Giovanni, il discepolo dell'amore, deve Pietro amare il Signore, per corrispondere a ciò che egli ora riceverà dal Signore.

La « polarità » sinora vigente fra ministero e amore è alla fine.

Pietro non può più, come ha fatto sinora, affidarsi semplicemente al più grande amore di Giovanni, quando c'è da apprendere qualcosa dal Signore o circa il Signore.

Egli non può nemmeno giustificarsi dicendo che il peso del ministero è già grande abbastanza, che egli perciò può lasciare il peso dell'amore, che è di per sé un ministero proprio, a colui che è stato eletto per questo: Giovanni.

Egli deve impersonare anche l'amore.

Egli deve incorporarlo a sé, come rappresentante della Chiesa intera; non è egli forse responsabile per la Chiesa intera?

Le cose non stanno così, che il ministero valga solo per ciò che è esteriore, lasciando ciò che è interiore in dominio dell'amore privo di ministero.

E non è nemmeno così, che il ministero governi solo certi ambiti inferiori della sfera religiosa, mentre le regioni superiori, quelle dell'incontro immediato con Dio, le regioni del puro amore e della mistica, sarebbero trascendenti nei confronti del ministero.

Ora però è impossibile comprendere qualcosa nelle regioni dell'amore senza viverlo.

« Chi non ama, rimane nella morte » ( 1 Gv 3,14 ); « Chi non ama, non ha conosciuto Dio, poiché Dio è amore » ( 1 Gv 4,8 ).

Ciò ha valore così universale, che il ministero non costituisce qui eccezione alcuna, nemmeno esso.

In base a questa domanda del Signore a Pietro gli viene messo a disposizione l'amore più grande di Giovanni.

Egli dispone di esso, poiché riceve l'intero ministero; ma può disporne solo appropriandosi egli stesso, personalmente e non solo ministerialmente, di questo amore più grande.

Un gesto impegnativo da entrambe le parti deve avvenire: da parte di Giovanni, che per amore al Signore e alla Chiesa trasmette a Pietro, rinunciandovi, il suo primato dell'amore, e da parte di Pietro, che può assumere il suo primato del ministero solo se si appropria personalmente di questo amore più grande di Giovanni.

Così la « tensione » tra amore e ministero nella Chiesa è superata.

Dove il Signore compie la decisiva trasmissione di poteri, vuole unità.

Pietro riceverà una funzione, e tutto il suo essere personale aderirà a questa funzione e in essa si perderà: « Tu sei Simone, figlio di Giona; ti chiamerai Cefa ( che vuoi dire Pietro ) » ( Gv 1,42 ).

Ma alla fine Pietro viene personalmente chiamato per nome - un nome la cui nascosta simbolica difficilmente sarà sfuggita al quarto Evangelista - e richiesto di giurare un amore personale: « Simone, figlio di Giona, mi ami tu? »

Dove l'intero amore di Giovanni si riversa al di fuori di sé, espropriato nella generazione della Chiesa, il ministero viene riempito con la sostanza dell'amore.

Viene iniziato all'amore, a questo divino-umano mistero di amicizia e tenerezza fra Gesù e Giovanni, e deve rispondere al Signore donandogli in contraccambio tutta la persona.

Pietro dice sì anche perché lo assale l'afflizione per il suo triplice no.

Il Signore, però, non solo gli conferisce tre volte il ministero, ma allo stesso tempo anche l'altro dono: quello della sequela fino alla morte.

Egli dona a Pietro la sottrazione della libertà: « Quando tu eri giovane, ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi ( … )

E detto questo aggiunse: Seguimi » ( Gv 21,18-19 ).

Attraverso questa specie di morte, in cui egli perderà la sua libertà tanto fisica quanto spirituale, Pietro glorificherà Dio e potrà in tal modo partecipare al legame di tutto il proprio io, quale lo, conosce e lo ha per nucleo lo stato dei consigli.

Colui che può legare e sciogliere deve per primo essere pienamente legato, e sciolto da tutto ciò che non è il Signore.

Ciononostante egli non ha cessato di essere Pietro, e non Giovanni.

Non ci sarà nessuna fusione fra i due.

Lo stato dei consigli non è eliminato dalla realizzazione di Pietro, non è fuso col ministero.

Tuttora Pietro vede l'altro discepolo, « quello che Gesù amava, seguirli, quello che nell'ultima cena si era trovato al Suo fianco e gli aveva domandato: « Signore, chi è che ti tradisce? »

Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: « Signore, che ne sarà di lui? » » ( Gv 21,20-21 ).

L'amore offertosi in sacrificio nella Chiesa ufficiale è, dopo il suo sacrificio, ancora qui.

E sebbene Pietro abbia ottenuto il ministero sul gregge intero e inoltre la grazia della sequela personale, il Signore gli sottrae il controllo sul destino di Giovanni.

« Se io voglio che egli rimanga sino al mio ritorno, che importa a te? Tu seguimi! » ( Gv 21,22 ).

C'è questo confine del ministero.

Esso ha il diritto di porre domande al Signore, ma deve anche aspettarsi che il Signore non ad ogni domanda ministeriale impartisca informazioni.

Egli ha coi suoi prediletti dei misteri che sono così intimi, così ultraterreni, che sfuggono ad ogni altra vista che a quella del Signore.

Il ministero ha ottenuto l'amore per arrivare a comprendere che nessun ministero abbraccia il perimetro dell'amore, perché l'amore è sempre di più di quanto si può misurare.

Così il ministero ecclesiale può ben richiedere - e addirittura lo deve - di gettare lo sguardo dentro le coscienze delle persone che vivono nello stato dei consigli, persino dei contemplativi e degli anacoreti.

Ma solo Dio conosce le grazie che egli dona alle anime a lui consacrate.

C'è questo regno interiore che nessun occhio ha visto e nessun orecchio ha udito, e che tuttavia appartiene talmente alla Chiesa che senza di esso la Chiesa verrebbe derubata della sua vita più preziosa, della sua energia più viva.

Questo regno « rimane » e deve rimanere fino al ritorno del Signore; ma è a disposizione soltanto del Signore.

Ciò non significa affatto, per ripeterlo ancora una volta, l'esistenza di una Chiesa esoterica o pneumatica all'interno o accanto alla Chiesa exo-terica, ufficiale.

L'autenticità di questo regno nascosto dell'amore viene garantita solo dalla sua sempre nuova prontezza ad aprirsi e a sottomettersi al ministero.

Non è egli stesso a sottrarsi alla conoscenza di Pietro, ma è il Signore che può riservarsi la sfera del segreto.

Giovanni ha sempre inteso l'amore come un ministero: il ministero di servire « alla signora eletta e ai suoi figli » ( 2 Gv 1 ).

Di questo privilegio di amare egli non ha fatto uso altrimenti che per Pietro, per comunicare a questi cosa l'amore può ottenere.

Egli, che è stato sotto la croce e là ha ottenuto come dono dell'amico morente la madre, aspetta al sepolcro vuoto finché il tre volte rinnegatore non sopraggiunga, e cede il passo a lui nella contemplazione della Risurrezione.

Egli possiede i pieni « sentimenti ecclesiali », poiché ama ciò che ama il Signore, e serve a quello a cui il Signore serve.

D'altra parte egli è ben consapevole del suo ministero d'amore.

Dopo che egli ha consegnato se stesso e il suo primato dell'amore nel primato di Pietro, l'ultima parola che lo contrassegna è tuttavia una parola del Signore circa questo primato e una umiliazione del ministero.

E nelle sue lettere Giovanni sviluppa in maniera davvero regale « la legge regale » ( Gc 2,8 ).

Egli lo fa in una tale assolutezza, in una così chiusa ( così bastante a se stessa, spiegabile solo da sé ) legalità, che si capisce: se l'amore obbedisce al ministero, segue la sua propria legge, poiché diviene obbediente sino alla morte; il ministero, che da ordini all'amore, lo fa solo affinché esso adempia fedelmente questa sua legge.

Certo nella Chiesa l'amore non basta a se stesso, in quanto esso è dipendente dai Sacramenti e da tutte le mediazioni della grazia della Chiesa ministeriale, e in nessun « grado di perfezione » può fare a meno di questa Chiesa ministeriale.

Ma la Chiesa amministra le grazie di Dio unicamente per trasmetterle a coloro che amano; la sua autorità è un servizio agli amanti, affinché in essi l'amore cresca.

E ultimamente Giovanni stesso è sacerdote; in quanto vergine egli è rappresentante dei « preti regolari » nei confronti del coniugato « prete secolare » Pietro.

E come Pietro portò in sé Giovanni allorché egli fu incluso nell'amore più grande, così anche Giovanni porta in sé Pietro.

Ma essi effettuano un movimento che va in direzioni opposte.

Pietro ottiene un ufficio, e per l'ufficio, per esercitarlo meglio, gli viene in aggiunta donato l'amore.

Giovanni impersona originariamente l'amore; così egli segue il Signore fino al Gòlgota e là viene iniziato ai misteri ultimi del sacrificio: a partire dall'aspetto personale egli ottiene l'ufficio di sacerdote.

Non è in contraddizione con questo il fatto che nel Cenacolo gli Apostoli ricevano insieme la consacrazione sacerdotale ( Gv 17,17-19 ).

Infatti per Giovanni, reclinato sul petto del Signore, l'Eucaristia è solo « l'amore del Signore che giunge sino in fondo » ( Gv 13,1 ), il « corpo dato » in anticipo, il « sangue versato per voi » ( Lc 22,19-20 ) in anticipo, anticipazione della croce.

Per lui è la personalità dell'amore che si espande nei discorsi d'addio, che si estende a tal punto da diventare il canone di ogni amore e perciò realtà oggettiva che include il ministero.

È un fatto della massima necessità che proprio egli incontri sotto la croce la madre del Signore, che proprio egli la riceva dal Figlio come propria, che nell'attimo in cui l'amore profluisce definitivamente fuori di sé venga fondata questa comunità soprannaturale, la cellula originaria di ogni vita secondo i consigli.

Il ministero può esser conferito prima o dopo.

Non era necessario che sotto la croce fosse presente il protagonista del ministero.

Il suo ministero non è un compenso per il suo amore.

Esso può venir conferito anche ad un altro uomo fallito.

Ultimamente esso è indifferente rispetto alla persona.

Ma lo stato dei consigli non poteva venir fondato nell'assenza di coloro che sono chiamati a formarlo.

Esso è infatti sacerdozio soggettivo e richiede il coadempimento della Passione e l'assenso tanto alla Croce quanto al nuovo legame in comunità soprannaturale.

I membri di un ordine religioso vanno incontro nella Croce l'uno all'altro, e il Crocifisso li unisce nell'amore, in un amore che può essere partecipazione al suo abbandono.

Lo stato dei consigli viene infine fondato insieme con Maria, non solo sotto il suo patronato, ma in maniera tale che essa viene espressamente legata alla nuova comunità.

Con ciò viene chiarito che essa non soltanto ha parte alla forma di vita della dedizione di sé, ma viene impiantata in essa come sua anima.

Ella consacra la forma di stato di vita, facendo diventare quella forma di vita sua propria, così come il Signore trasmette funzionalmente il suo sacrificio al presbiterato, ed ella introduce con ciò anche la donna in generale nella forma di stato di vita ecclesiale che è interiormente sacerdotale, in quanto offerentesi.

Mentre Maria insieme alle donne credenti sperimenta ed esegue sotto la croce la liturgia viva e personale ( alla quale i discepoli, tranne uno, rimangono assenti e della quale ad essi verrà dopo trasmessa solo la forma funzionale ), ottiene un posto, per sé e per la donna in generale, nel cuore della vita ecclesiale.

Se la donna rimane esclusa dal sacerdozio funzionale, e se qui si rispecchia nella Chiesa qualcosa dell'ordine naturale della creazione, secondo il quale « l'uomo è immagine e gloria di Dio, la donna è gloria dell'uomo, ( … ) e non l'uomo fu fatto per la donna, ma la donna per l'uomo » ( 1 Cor 11,7-9 ), secondo il quale il funzionale in generale spetta all'uomo, mentre è proprio della donna il « portare un velo sul capo » in segno di modestia ( 1 Cor 11,13-16 ), è anche vero tuttavia che questa esclusione non significa affatto un'inferiorità della donna, o che a questa rimanga precluso un « grado di perfezione ».

Ogni teoria che soppesi gli stati d'elezione secondo la loro rispettiva « perfezione » l'uno rispetto all'altro è un'offesa per la donna e per la madre del Signore in modo speciale.

La sovra - e subordinazione dei sessi conforme alla creazione serve piuttosto solo alla loro ordinazione paratattica: « tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l'uomo, né l'uomo è senza la donna; come infatti la donna deriva dall'uomo, così l'uomo ha la vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio » ( 1 Cor 11,11-12 ).

Ciò significa, applicato agli stati della Chiesa: la so-vraordinazione dell'ufficio gerarchico, che alla donna non è concesso, sta solo a servizio dell'amore, che alla donna non solo è concesso, ma è essenzialmente da lei, conformemente allo stato di vita, co-fondato ( mitbe-grùndet ), mentre il puro ministero, impersonato da Pietro, alla sua fondazione è assente.

Durante questa assenza ( e senza chiedere il suo parere ) il Signore lega i vergini in una nuova unità, elargita direttamente dall'alto, che Pietro in seguito dovrà riconoscere come originante dal Signore.

Così si effettueranno anche più tardi le vere fondazioni di ordini religiosi: attraverso missioni donate direttamente dallo Spirito Santo, che vengono calate sui fondatori come un nuovo « Spirito », una nuova « spiritualità », e, dopo il dovuto esame della loro autenticità, vengono riconosciute dalla Chiesa ministeriale e innestate nella più intima vita della Chiesa.

Maria stessa, la cofondatrice dello stato dei consigli, sta solo indirettamente sotto l'autorità di Pietro.

Ella sta al di sopra degli stati; insieme col Signore è principio che li rende possibili entrambi.

Ma nella misura in cui il suo « stato » definitivo sulla terra è il legame a Giovanni, e Giovanni sta sotto la giurisdizione di Pietro, ella ottiene parte indirettamente anche alla vita della Chiesa governata ministerialmente.

Fra lei e Pietro media Giovanni, il « sacerdote regolare », che unisce nella sua persona il sacerdozio soggettivo e quello ministeriale.

Attraverso di lui vengono legati insieme i due punti della Chiesa che in forza della grazia e garanzia divina sormontano il mondo decaduto: l'immacolata e l'infallibile; il grembo della Chiesa, da cui questa fuoriesce, e la roccia su cui essa sta.

Legata alla Chiesa attraverso lo stato dei consigli, Maria, la genitrice della Chiesa ( Ap 12,1-2.17 ), diventa membro di questa Chiesa.

Attraverso lo stesso stato dei consigli innalzato, Pietro ( che ottiene il ministero esteriore ) viene condotto ad una corrispondenza ad esso anche nella sua persona.

Tutta questa interpretazione del rapporto fra gli stati in base al carattere simbolico-rappresentativo di Maria, Giovanni e Pietro non può naturalmente venir isolato dall'insieme del procedimento della fondazione della Chiesa, o addirittura visto in una contrapposizione ad esso.

Se si è detto che lo stato religioso deriva dalla croce e viene fondato sotto la croce, questo vale in nessun altro senso che in quello che anche la Chiesa nella sua totalità nasce dalla Croce, come nuova Eva che esce dal fianco squarciato del nuovo Adamo.

Ciò che Cristo aveva fatto durante la sua vita pubblica per formare questa Chiesa si rapporta al momento attuale come la preparazione del materiale, come la formazione del corpo di Adamo dal fango della terra si rapporta all'insufflazione dell'anima, al conferimento dell'intima forma vivente.

Così l'affermazione della fondazione dello stato dei consigli sotto la croce non sta in contrapposizione alcuna all'affermazione tradizionale che il Signore ha fondato questo stato durante la sua vita pubblica, con la chiamata degli Apostoli, la proposta dei consigli evangelici e soprattutto la concreta formazione di una comunità insieme coi discepoli, in cui anche Pietro ha parte, a modo suo, alla vita secondo i consigli.

La comunità dei discepoli con Gesù deve pure rappresentare in nuce tutti gli essenziali rapporti ecclesiologici e le strutture della Chiesa successiva: essa è tanto rappresentazione della Chiesa intera ( chiamata fuori dal resto dell'umanità ) quanto dell'intero stato d'elezione ( di fronte al « popolo ecclesiale » ), come pure dello stato sacerdotale ( di fronte ai « laici » ), e come infine del vero e proprio stato dei consigli ( di fronte ad un cerchio più ampio di eletti, che all'incirca può venir rappresentato dai settantadue discepoli ).

In questo senso l'affermazione che Cristo ha fondato direttamente lo stato dei consigli appartiene al patrimonio fondamentale della tradizione ecclesiale.

« Status religionis secundum se et quoad substantiam suam ab ipso Christo Domino immediate traditus et institutus fuit ( … ) haec est sententia omnium catholicorum recte sentientium » ( Suarez, op. cit., lib 3, e 2, n 3; Opp xv, 231 ).

Suarez cita in favore di ciò una gran quantità di testimoni.

Egli spiega inoltre che il Signore ha fondato lo stato dei consigli in tale generalità ( « religionis statum secundum se ») che le forme di questo stato poterono venir concretizzate nelle più diverse singole forme di « ordine religioso »; che egli però d'altra parte formò insieme coi suoi discepoli un determinato, concreto « ordine » ( « quandam religionem in particulari » ), la cui figura era esattamente delineata.

I discepoli, dice Tommaso, avrebbero ( almeno implicitamente ) emesso dei voti ( « Apostoli intelliguntur vovisse pertinentia ad perfectionis statum, quando Christum relictis omnibus sunt secuti », S Th il il, q 88 a 4 ad 3 ) e ciò definitivamente, senza possibilità di ritirarsi ( q 186 a 6 ad 1 ).

Così anche Agostino ( De conson. Ev., lib 2, e 17; De Civ. Dei 17, e 4; Ep. 89,4), Crisostomo ( bom. 17 ad pop.; in Mt hom. 17 e 69; Contro vitup. mo-nast., lib 4 ), Guglielmo di S. Thierry ( Ad fratres de Monte Dei ), Bernardo ( Apol. ad Guill. ecc. ).

Suarez si spinge oltre e determina il carattere di questo « ordine » apostolico come « vita mixta » con il « finis specialis cooperandi Christo in salute animarum », dunque la « aedo », ma secondo At 6 « ex plenitudine contemplationis » ( loc. cit. n 10 ).

Questo « ordine » di Cristo si fonda su di una perfetta povertà, castità e una speciale obbedien-za, che in primo luogo fu accettata da Cristo stesso, poi però, poiché questa forma di vita si deve conservare nella Chiesa, fu trasmessa in consegna ad essa ( n 12-14 ).

Qualunque cosa si possa pensare di questa tesi, certo è che lo stato dei consigli non risale ad una tardiva utilizzazione di alcuni sparsi accenni della Scrittura, ad esempio il consiglio della povertà e della verginità solamente, bensì che esso, altrettanto direttamente quanto il sacerdozio e in strettissimo collegamento con esso, fu voluto da Gesù come una realtà concreta, fu da lui fondato e anche vissuto nella sua prima comunità.

Ciò è stato recentemente confermato anche dalla trattazione di Heinz Schurmann citata nell'introduzione.

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