Gli stati di vita del cristiano

Indice

Gli elementi della chiamata

Finora la chiamata di Dio è stata considerata come una realtà indivisibile, come l'unità della volontà di Dio presentata al chiamato, la quale può avere un'impronta diversa a seconda della forma e del colore che essa assume.

Ma abbiamo già visto che questa unità della chiamata e della volontà di Dio può comporsi anche di più elementi, che sono tutti da prendere in considerazione, se si vuole raggiungere e rendere comprensibile la chiarezza della chiamata.

Finché siamo in questo mondo non vediamo Dio in volto, nemmeno nella più alta contemplazione mistica.

Così pure non udiamo la voce di Dio altrimenti che mediata attraverso i veli della creaturalità.

Cristo stesso, che è Dio, ci lascia vedere la sua divinità solo attraverso i veli della sua umanità, e anche i più intimi suggerimenti e impulsi dello Spirito Santo nella nostra anima, che psicologicamente sembrano possedere un'assoluta immediatezza, considerati quanto all'essere sono trasmessi attraverso il medium della creaturalità.

Ciò vale anche per la chiamata divina.

Questo non significa però che da questa mediazione essa debba venir indebolita, o diventi meno chiara e comprensibile.

Così come per il credente la parola di Cristo ricevuta dal Padre, sebbene mediata creaturalmente, conserva integrale chiarezza e perciò uguale forza di richiesta, anche la sua chiamata mediata dai mezzi mondani è inequivocabile.

Solo "l'orecchio incirconciso non è in grado di udirla" ( Ger 6,10 ).

All'interno di questa mediazione della voce di Dio ci sono ora due serie di componenti: soggettive, che ci fanno conoscere la chiamata in esperienza, avvenimenti e visioni interiori e personali, e aggettive, che ce la manifestano dall'esterno, soprattutto attraverso gli esponenti e gli elementi dell'oggettivo ordine della salvezza divino ecclesiale.

"Deus vocat exterius et interius" ( S. Tommaso ).

In quanto però ogni chiamata di Dio è un'interpellazione personale di uno spirito umano, della quale il cristiano è destinato dalla Chiesa e dalla sua missione a fare uso all'interno della Chiesa come un ministero ecclesiale oppure come un carisma, ogni chiamata deve in qualche modo aver parte tanto alla mediazione soggettiva quanto a quella oggettiva.

È impossibile che una chiamata divina giunga su di un uomo soltanto dall'esterno, cosicché la Chiesa potrebbe ad esempio ordinare sacerdote uno che non si sente in alcun modo intimamente chiamato a diventar prete, e solo attraverso questa consacrazione ( che certo sarebbe valida, qualora il consacrato dia il suo assenso ) egli diverrebbe realmente un chiamato.

Così pure la chiamata di Dio non può avvenire nemmeno soltanto dall'interno, al modo da poter o dover compiersi al di fuori della Chiesa o contro la Chiesa.

Possibile è soltanto che una chiamata personale non venga subito riconosciuta dalla Chiesa e che un chiamato debba condurre avanti la sua missione anche contro forti opposizioni, per quanto egli possa farlo bene all'interno della Chiesa e del suo spirito.

Questa missione sarà, malgrado queste opposizioni, una missione ecclesiale.

Così pure, infatti, in quasi tutte le grandi missioni di riforma all'interno della Chiesa i chiamati ebbero da superare dure resistenze, per trovare infine, con la grazia di Dio che combatteva per essi, anche il riconoscimento ecclesiale ( durante la loro vita o dopo la morte ).

Il rapporto tra soggettivo e oggettivo si sposta nella crescente analogia della chiamata.

Nella comune chiamata del cristiano ad uscire dal mondo ed entrare nella Chiesa la chiamata oggettiva, presupposto il caso normale del battesimo dei bambini, va talmente davanti che la risposta soggettiva dell'uomo rimane qualcosa che viene dopo, una conferma della grazia battesimale già oggettivamente ricevuta per mezzo della Chiesa.

A motivo di questa grazia sacramentale nell'anima del battezzato vive lo Spirito Santo e là grida il suo "Abba, Padre!" ( Rm 8,15 ), al quale egli invita lo spirito di colui che ha ricevuto la Grazia.

"Questo Spirito attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio" ( Rm 8,16 ).

L'oggettiva attestazione della chiamata di Dio da parte della Chiesa ha qui tale preponderanza su quella soggettiva, che sembra dapprima che ci sia solo essa, e il consenso soggettivo alla chiamata di Dio ha luogo per il momento solo per rappresentanza dei padrini.

In una conversione e nel caso di una vocazione sacerdotale le componenti si trovano in una specie di equilibrio.

Nella conversione precede una soggettiva chiamata di Dio, la quale conduce lentamente il chiamato, che deve dapprima affidarsi con tutta la sua anima alla "tiepida luce che lo guida" ( Newman ), incontro alla Chiesa.

A poco a poco egli riconosce come a tastoni le componenti oggettive e i criteri della chiamata, l'ordine salvifico di Dio concretizzato nella Chiesa, e la Chiesa riconosce da parte sua in colui che attende il Battesimo la vera chiamata di Dio.

È un reciproco riconoscere l'autenticità dei segni di Dio: nel convertito, poiché egli impara che l'aspetto soggettivo da lui vissuto ha la sua prova di autenticità nella sottomissione ad un'autorità oggettiva e ad un ordinamento sacramentale, e nella Chiesa, poiché essa pone la sua funzione ministeriale a servizio della via soggettiva che la grazia di Dio ha percorso con questa anima.

Qualcosa di simile avviene in una vocazione sacerdotale.

Anche qui si incontrano una certezza soggettiva di esser chiamato e un'oggettiva accettazione e riconoscimento da parte della Chiesa.

Gli accenti dell'evidenza da entrambe le parti possono esser ripartiti in modo diverso: una forte luce interiore e coscienza della missione può dover lottare lungo tempo per un riconoscimento ecclesiale, ma può anche essere che lo sguardo della Chiesa penetri la vocazione e le attitudini di colui che è in questione più rapidamente di quanto egli stesso faccia, e con la sua accettazione gli doni il pezzetto che ancora manca alla sua intima fiducia e alla sua certezza.

Poiché nel caso della vocazione sacerdotale la Chiesa ministeriale è così fortemente implicata più fortemente che nel caso dell'accoglimento di un uomo nella Chiesa, ma anche più fortemente che nel caso di una vocazione allo stato dei consigli, in questo caso l'attestazione oggettiva, ministeriale, della chiamata e quindi l'ammissione fondamentale al ministero è di un'importanza speciale.

L'equilibrio si sposta chiaramente dalla parte dell'aspetto soggettivo nel caso della vocazione all'esplicita sequela personale nella vita secondo i consigli o ad un'esplicita missione personale in generale, come ad esempio nel caso di Giovanna d'Arco o del Curato d'Ars.

Qui il riconoscimento da parte del superiore non può semplicemente completare o rimpiazzare la carente sicurezza della vocazione, e la missione sussiste anche qualora essa temporaneamente non venga riconosciuta dall'autorità oggettiva nell'ordine religioso o dalla gerarchla ecclesiastica.

Infatti per quanto la Chiesa è competente come oggettiva istituzione ministeriale in tutto ciò che riguarda la mediazione sacramentale della Grazia, le decisioni dottrinali, la predicazione, il governo e la guida dei credenti, altrettanto Dio si conserva però il suo accesso personale alle anime, per agire in esse e insegnar loro quello che egli crede bene.

Che tutte le grazie vengono comunicate per mezzo della comunione dei santi non vuol dire che esse devono venir comunicate anche espressamente dalla Chiesa in quanto istituzione esteriore.

E che nella valutazione dei soggettivi suggerimenti interiori e persino delle missioni ecclesiali la Chiesa opera con la massima accuratezza, questo dato di fatto non contraddice quell'altro che tutte le chiamate alla sequela personale del Signore e tanto più tutte le grandi missioni ecclesiali singolari hanno origine in primo luogo puramente da Dio e psicologicamente giungono al chiamato direttamente.

Lo stesso Ignazio, che nelle sue "Regole circa gli atteggiamenti ecclesiali" preme tanto sul fatto che noi "deposto ogni privato giudizio, teniamo l'animo apparecchiato e pronto a obbedire in tutto alla vera Sposa di Cristo nostro Signore, che è la nostra santa Madre, la Chiesa gerarchica" ( Eserc. Nr 353 ), insiste nondimeno sul fatto che "unicamente Dio nostro Signore può dare consolazione all'anima senza precedente causa ( cioè senza nessuna mediazione creaturale che lo freni ), poiché è proprio del Creatore entrare, uscire, provocare mozioni in essa, attirandola tutta nell'amore della sua Maestà divina" ( ibid. Nr 330 ).

In corrispondenza a ciò colui che da gli Esercizi ottiene per il tempo degli Esercizi, nei quali si tratta proprio di percepire una chiamata a personale sequela, l'istruzione di "restare in equilibrio come l'ago di una bilancia, lasciando che il Creatore agisca direttamente con la sua creatura, e la creatura col suo Creatore e Signore" ( ibid. Nr 15 ).

Mentre dunque nella vocazione del prete secolare il ministero ecclesiastico condiziona molto più fortemente la chiamata, il superiore religioso che accoglie un candidato è meno centralmente implicato nella costituzione dell'unità della chiamata.

Egli è autorizzato e obbligato ad esaminare se la chiamata interiore è autentica; ma se essa lo è, e nessun ostacolo o obiezione sono di impedimento a che vi si dia seguito, allora egli commetterebbe una mancanza non solo contro l'amore, ma contro lo Spirito Santo, se respingesse colui che chiede di essere accolto.

Non si deduca da ciò che il postulante abbia un vero e proprio diritto a venir accettato da un determinato ordine religioso o monastero; un simile diritto dovrebbe, per esistere, essere anche fissato dal diritto canonico.

Certo però ha lo Spirito Santo il diritto, di fronte alla Chiesa nel suo insieme, che le sue sollecitazioni e i suoi impulsi vengano da essa accolti e seguiti.

Se Dio "chiama dall'esterno e dall'interno", come dice S. Tommaso, è sua volontà che entrambi gli elementi si riuniscano in un'unità di vocazione e di missione.

Questo caso è simile ad altre erogazioni di una grazia unitaria che avvengono allo scopo di una unificazione fruttuosa, come per esempio la grazia della confessione giunge all'unità se si incontrano pentimento soggettivo e assoluzione oggettiva da parte del prete.

Un breve sguardo alla storia recente del concetto di vocazione può qui chiarire quanto detto.

Una controversia circa il concetto di vocazione scoppiò in occasione delle tesi del sulpiziano L. Brancherau ( La vocation sacerdotale, 1896 ), che dava il massimo peso all'attrazione interiore, alla forte inclinazione soggettiva al sacerdozio come criterio di autenticità, e di quelle del canonico J. Lahitton ( La vocation sacerdotale, 1909 ) che in parecchie opere, nelle quali il suo pensiero si muta leggermente, evidenzia soprattutto che la vocazione sacerdotale avviene per mezzo della Chiesa ministeriale, del vescovo, mentre da parte del soggetto non viene richiesto altro che la "chiamabilità", che consiste essenzialmente nella idoneità per il servizio sacerdotale nella diocesi.

Mentre nella prima edizione Lahitton rappresenta la scelta come se la chiamata esteriore da parte del vescovo fosse la manifestazione dell'eterna scelta divina, più tardi trasferisce tutto il potere d'elezione da Dio alla Chiesa, al punto che Dio si sarebbe addirittura privato del suo potere di scegliere, per lasciarlo alla Chiesa altrettanto come per la consacrazione sacerdotale ( Lahitton, Deux conceptions divergente! de la vocation sacerdotale, 1910, p. 237 ).

Il vescovo crea ( crée ) la vocazione, cosa che Lahitton cerca di sostenere con la teologia circa il vescovo di S. Tommaso, secondo la quale il vescovo elegge i suoi aiutanti come un rè i suoi ministri ( Suppl. q 38 a 1 ), per cui egli consacra i suoi preti sempre "valide", anche se non sempre "licite", poiché si richiede pur sempre una certa "vocabilité" ( l'attitudine del candidato ).

Incontriamo qui in un tutt'altro punto della dottrina dello stato di vita il medesimo clericalismo che vedemmo in Mercier e nei suoi discepoli.

Brandenburger fa notare non a torto, nella sua sarcastica presentazione della controversia, che si è trattato essenzialmente di una polemica fra clero secolare e clero regolare.

Serviti, domenicani, cappuccini afferrarono la penna per respingere le esagerazioni di Lahitton, in modo particolarmente esauriente F.J. Hurteaud O.P. ( La vocation au sacerdoce, 1911 ).

Tuttavia una commissione insediata da Pio X si decise nei punti essenziali a favore della tesi di Lahitton ( AAS 1912, 15 luglio ), dichiarando:

1. Nessuno ha un diritto all'ordinazione sacerdotale precedente alla libera scelta del vescovo.

2. La condizione da trovare nel candidato, chiamata "vocatio sacerdotalis", non consiste, perlomeno non necessariamente a "de lege ordinaria", in un impulso interiore del soggetto, cioè in un invito dello Spirito Santo all'ufficio sacerdotale.

3. Piuttosto si richiede, affinchè il candidato possa in maniera conforme al diritto canonico venir chiamato dal vescovo, niente di più che la retta intenzione, unita all'attitudine, che è fondata dai doni della grazia e della natura ed è dimostrata da una vita onesta e da sufficiente scienza, cosicché c'è fondata speranza che egli eseguirà bene i compiti del sacerdote e potrà adempiere santamente ai suoi obblighi.

Da questa decisione, che si riferisce primariamente ai candidati al sacerdozio e concerne solo del tutto indirettamente i postulanti allo stato dei consigli, diventa molto chiara l'importanza, prevalente nella vocazione sacerdotale, della chiamata esterna.

Brandenburger fa notare con ragione che il sacerdozio è primariamente una funzione sociale ( p. 71 ) e che per l'accettazione decide in parte anche il posto che il prete assumerà all'interno della diocesi.

Il vescovo non è assolutamente obbligato a consacrare un candidato solo perché questi si sente chiamato al sacerdozio, anzi ci si può persino chiedere di fronte a questa decisione romana se tutto sommato esiste propriamente una diretta vocazione interiore al sacerdozio come tale, cioè alla semplice funzione, indipendentemente dalla soggettiva sequela del Cristo, come lo stato dei consigli l'impersona allo stato puro; o se piuttosto la "interna aspiratio", gli "invitamenta Spiritus Sancti" non tendono completamente a questa sequela personale, la quale poi viene interpretata da molti di coloro che la avvertono come un intimo invito al sacerdozio ( secolare ).

Che però non ci può essere una vocazione semplicemente esterna, e quindi nemmeno alcuna semplice funzione presbiterale senza un accenno di assenso interiore e disponibilità a corrispondere alle esigenze della funzione, era troppo ovvio e dovette venir ammesso anche da Lahitton, che ultimamente interpreta la vocabilité come una "vocation intérieure dispositive", e d'altra parte deve riconoscere che la validità dell'ordinazione dipende tuttavia ultimamente dal libero assenso del candidato: "L'Egli se rejette en definitive sur le sujet la responsabilité dernière de la vocation recue ( … )

Cette vocation ( par l'Evéque ) elle-méme est condition-nelle et subordonnée a la libre acceptation de Ferdinand" ( II ed., pp. 93-94 ).

Così oggi è chiaro che la sentenza romana non voleva mettere in questione l'esistenza della vocazione interiore ( come certo fa Lahitton nelle sue formule estreme ), ma soltanto chiarire che il "sentire" di essere chiamati non crea nei confronti della Chiesa alcun diritto alla consacrazione, e che questo sentire soggettivo non è nemmeno richiesto ai fini di una consacrazione valida e lecita.

"Sarebbe anche strano che Roma avesse condannato in così breve tempo il linguaggio durato per secoli e adoperato da asceti, teologi, congregazioni romane, persino da papi, compresi Leone XIII e Pio X" ( Brandenburger, p. 72 ), i quali tutti parlarono di un elemento interiore, soggettivo, della vocazione.

"Eos rectores recipit Ecclesia, quos Spiritus Sanctus praeparavit" ( S. Leone Magno ).

Quindi ciò che ultimamente la linea clericale di Lahitton poteva fissare è in fondo il limite più basso nel concetto di vocazione, quale deve essere giusto raggiunto per una vocazione sacerdotale affinchè l'ordinazione sia valida e possa venir conferita "licite".

Questo limite è contrassegnato dal fatto che la vocazione interiore non è rappresentata da niente di più che dalla "vocabilitas", cioè da una attitudine e inclinazione naturale e soprannaturale talmente comune che le funzioni presbiterali possano venir giustamente e degnamente eseguite.

Se questo vale per la vocazione sacerdotale, nella misura in cui essa è una funzione ecclesiastica, non è detto con ciò che valga anche per la vocazione allo stato dei consigli.

Una semplice applicazione delle decisioni romane del 1912 a questo stato è inammissibile, poiché qui non si tratta assolutamente di una chiamata della Chiesa a partecipare ad una funzione ecclesiastica.

La proporzione tra l'elemento interno e quello esterno si è qui assolutamente spostata.

Se nella discussione circa la sentenza romana si avesse tenuto questo davanti agli occhi, tutto sarebbe stato molto più semplice.

J.B. Raus CSSR tratta nella sua stimolante opera "La doctrine de S. Alphonse sur la vocation et la gràce en regard de l'enseignement de S. Thomas et des prescription du Code" ( 1926 ) soprattutto della vocazione all'ordine religioso.

Egli non ha difficoltà a dimostrare che tanto Alfonso quanto Tommaso mettono l'accento sulla vocazione interiore.

Tommaso parla chiaramente di un "instinctus" o "impetus Spiritus Sancti", di un "auditus consiliorum Christi" ( "Contra retrahentes" ).

Hùrth, che voleva applicare la sentenza romana anche alla vocazione religiosa, non contesta nella sua recensione dell'opera di Raus questo fatto, ma tenta una duplice limitazione delle affermazioni.

In primo luogo non gli sembra evidente che la vocazione ed elezione che Raus richiede tanto per il prete quanto per il religioso debba essere realmente una vocazione speciale e non si possa ridurre alle grazie generali della divina Provvidenza, come sono date anche ai cristiani che vivono nel mondo.

Non ci sono forse anche per lo stato matrimoniale grazie speciali, che però come tali "sono da subordinare alla stessa universale legge della Grazia"?

Si deve realmente supporre, come fa Raus insieme con Vermeersch, che quelli che non sono chiamati nello stato d'elezione "in statu communi potius relinquuntur quam ad illum eligantur"?

Non si può forse anche nello stato dei consigli - è questo l'altro lato dell'obiezione di Hurth-limitare la vocazione interiore da parte di Dio semplicemente al fatto che Egli da all'uomo doni e inclinazioni tali che certo rendono possibile la scelta dello stato dei consigli, ma non necessaria?

Una "praeelectio" da parte di Dio può certo per molti casi venir supposta, ma non deve necessariamente esser presupposta in tutti, perché una persona possa compiere validamente la scelta dello stato dei consigli.

Dio può piuttosto dare all'uomo "o almeno a parecchi uomini" un'attitudine che è sufficiente per diverse vocazioni, e per il resto lasciare alla sua libera valutazione la decisione di quale di queste vocazioni scegliere.

Non si potrà negare che qui Hùrth costruisce un possibile caso che noi abbiamo già preso in considerazione, quando dicemmo che Dio invita alcuni uomini in modo tale da lasciare ad essi la scelta dello stato di vita.

La vocazione soggettiva si limiterebbe in questo caso ancora una volta al minimum della "recta intentio" e della "idoneitas" richieste.

Sarebbe ancora una volta il caso-Umile più basso di una vocazione alla vita secondo i consigli.

Così infatti interpreta Hùrth la sentenza romana nel senso che essa non contesta in alcuna maniera che "ci possa essere e di fatto spesso ci sia ( … ) un invito interiore dello Spirito Santo"; viene piuttosto "rifiutata l'opinione che coloro nei quali questo invito interiore non si trova non abbiano alcuna " vocazione " ( loc. cit. 102 ).

Nella misura in cui dunque in ogni caso è necessario nella vocazione un momento soggettivo, esso deve essere contenuto anche nelle condizioni del soggetto richieste dalla sentenza romana ( e dal cee, soprattutto can. 1353 ).

Paul Vigne ( in: Le Camus, La vocation religieuse, Paris 1913 ) ha ricondotto la questione che era originariamente in discussione a due sistemi, dei quali il primo è caratterizzato da una vocazione diretta, il secondo da una vocazione mediata.

Per Lahitton la via della vocazione è: Dio, Chiesa, soggetto.

Per gli altri: Dio, soggetto, Chiesa.

Là la Chiesa comunica o crea la vocazione, qui essa la constata.

Là solo la vocazione presbiterale è intimabile dalla Chiesa, qui essa si differenzia dalle altre vocazioni solo per il suo oggetto.

Là c'è nel soggetto solo la disposizione della chiamabilità, qui veri segni di vocazione avvenuta tramite Dio.

In questi due sistemi non vedremo niente di più che forme di prevalenza di una forma-base di vocazione, e cioè in modo che la prima forma è propria prevalentemente della vocazione presbiterale, la seconda prevalentemente della vocazione allo stato dei consigli.

Sono possibili però forme di passaggio, e quanto più una vocazione interiore ( autentica e provata ) è spiccata, tanto più la Chiesa dovrà avervi riguardo nella sua chiamata e accettazione.

L'affermazione che nessuno ha un diritto ad essere ordinato o accolto in un convento contiene in base a ciò anche una certa analogia interna.

Per l'ordinazione sacerdotale essa vale sempre, per le vocazioni personali in maniera più tenue, poiché ci sono vocazioni che esigono un'obbedienza assoluta e cioè, qualora esse siano provate e dimostrate come autentiche, obbedienza anche da tutti coloro senza i quali la vocazione non può essere condotta a termine.

La sentenza romana, che per la vocazione presbiterale creò una norma oggettiva sicura, favorì indirettamente anche un certo minimalismo, in maniera del tutto contraria alla tendenza clericale della linea di Mercier.

L'esagerata accentuazione dell'aspetto ontologico-sacramentale, che condusse ad una chiara sovraordinazione del sacerdozio rispetto allo stato dei consigli, finisce qui, portata avanti conseguentemente, con l'esteriorizzare il concetto di vocazione e di conseguenza anche la santità sacerdotale.

Proprio se si vuole comprendere questa in maniera non individualistica, ma ecclesiale-carismatica e perciò ministeriale, bisogna arrivare a prestare attenzione per quanto è possibile, anche nel caso del prete, alla elezione personale alla sequela particolare.

Ciò che vale per la vita secondo i consigli vale in misura ancor maggiore per ogni spiccata missione qualitativa nella Chiesa.

Essa ha diritto, se è autentica, ad esser esaminata dalla Chiesa; se è riconosciuta come autentica, allora la Chiesa ha l'obbligo di riconoscerla ufficialmente.

Infatti è certo vero che il singolo cristiano sta sotto il pastorale della Chiesa, ma la Chiesa stessa nel suo insieme sta sotto il pastorale del divin Pastore, il quale insieme con la gerarchia può pascerla a suo piacimento.

Missioni straordinarie che Dio può far giungere alla Chiesa per mezzo di un qualsiasi uomo al suo interno richiedono a tutta la Chiesa un'obbedienza che non è lasciata al suo arbitrio.

In tutte le grandi fondazioni di ordini religiosi essa ha riconosciuto il "dito di Dio" - per prendere solo un esempio fra altri - e si è lasciata formare e fermentare da questo nuovo spirito, che era una grazia immediata dello Spirito Santo.

Essa ha dunque riconosciuto ufficialmente, dopo una dovuta analisi, la quale deve avvenire pure nello spirito dell'obbedienza, l'esistenza e la legittimità di una vocazione soggettiva che non proveniva da essa, ma che traeva origine da Dio stesso.

Il portatore di una simile missione rimane fino al riconoscimento di essa, e anche dopo, un normale cristiano, che come tale deve obbedienza alla Chiesa.

Egli dimostrerà l'autenticità della sua vocazione cattolica - a differenza di vocazioni presunte - anche in questo, che egli rappresenta quello spirito di obbedienza d'amore, che egli è chiamato a rinnovare nella Chiesa, in primo luogo con la sua propria obbedienza ecclesiale.

Egli sopporterà i conflitti che necessariamente sorgono nell'incontro fra queste due esigenze d'obbedienza - tanto più in mezzo a peccatori, quali noi tutti siamo - con la pazienza di chi è certo pronto a impegnare la sua vita per la sua missione, ma ne lascia però la conduzione allo Spirito divino.

Una contraddizione insolubile tra Chiesa e missione personale non può permetterla Dio, "poiché noi crediamo infatti che tra Cristo nostro Signore, Sposo, e la Chiesa, sua Sposa, è lo stesso Spirito che governa e guida le nostre anime, giacché la nostra madre Chiesa è retta e guidata dallo stesso Spirito e Signor nostro che diede i dieci comandamenti" ( Eserc. Nr 365 ).

Certamente una missione può talvolta svilupparsi solo dopo la morte dell'inviato, forse solo molto tempo dopo ( Angela Merici, Mary Ward ).

Da ciò diventa chiaro che il conflitto esiste solo come caso limite, mentre il caso normale è rappresentato dal cooperare delle componenti soggettive e di quelle oggettive.

Questa congiunzione può essere sfumata in toni diversi: può andare da una piena preponderanza dell'elemento oggettivo ( come nel caso del Battesimo dei bambini ), passando attraverso una specie di equilibrio - quando la chiamata risuona contemporaneamente tanto all'interno del chiamato quanto da parte dell'autorità ecclesiastica che media ed elegge - fino a una preponderanza dell'elemento soggettivo, dove certamente non può mai mancare del tutto l'appoggio all'elemento oggettivo come incoraggiamento e conferma.

Infatti anche vocazioni alla vita secondo i consigli vengono in caso normale stimolate da un qualche prete o persona che vive nello stato dei consigli, condotte dallo stato latente a quello attuale e guidate col consiglio e l'assistenza durante il tempo della lotta per la vocazione.

Dio guida gli uomini per mezzo di uomini; non solo nella "pastorale ordinaria", ma proprio anche là dove si tratta di vocazioni straordinarie.

Non è che quanto più una chiamata è interiore e comunicata soggettivamente senza mediazioni, tanto più autonomamente possa venir ricevuta, compresa ed eseguita dal chiamato.

Proprio le forme più sottili di vocazioni abbisognano maggiormente di interpretazione e guida oggettiva; anzi la forma della chiamata divina interiore viene in simili casi riconosciuta come giusta in senso cattolico solo se questa chiamata tende da se stessa all'interpretazione e alla conduzione oggettiva del sacerdote, che la completa, e se la volontà d'obbedienza a Dio si esprime senza conflitto interiore anche in un'umile obbedienza ecclesiale.

Così facendo, il chiamato non cerca affatto di allontanare da sé la responsabilità.

Soltanto egli obbedisce alla voce divina stessa, la quale non può mai essere una voce isolata, senza comunità, non ecclesiale.

Dio distribuisce i doni della sua chiamata in ambedue le componenti, quella interiore e quella esteriore, poiché la sua opera di creazione e redenzione presenta questa figura doppia.

Se già l'etica naturale colloca la norma della volontà di Dio nella tensione fra coscienza personale e legge oggettiva, e la coscienza, che certo rimane la norma ultima del comportamento pratico, è obbligata a orientarsi secondo norme oggettive e se si da il caso a mutare se stessa, questa viva operazione di scambio si adempie nell'ambito della Grazia, dove la "volontà di Dio" può concentrarsi in una chiamata personale, in una rivelazione percepibile.

Praticamente la pietra di paragone di una autentica vocazione soggettiva rimane, in base a ciò, la prontezza a sottomettersi all'interpretazione oggettiva e alla conduzione ad opera di una guida ecclesialmente "chiamata".

Solo così la missione soggettiva viene anche efficacemente legata davvero all'ambito della missione oggettiva in cui più tardi essa deve operare.

Se questo non avviene, allora si può star certi che la missione traligna, giacché il chiamato non può far altro, nella sua soggettività liberamente sospesa in se stessa, che tematizzare e prendere come importante se stesso e il fatto che è stato chiamato.

Con ciò è già posto l'inizio di ogni eresia.

Dove si tratta di espressi incarichi soggettivi, come nella mistica, che tuttavia è da considerare come autentica ed essenzialmente cattolica solo se le esperienze e le "situazioni" donate divengono feconde all'interno della comunione ecclesiale e non si esauriscono in se stesse, provvede Dio stesso a mettere il contemplativo in relazione con uno che possa oggettivamente interpretare; non di rado egli guida i chiamati insieme a due a due, in modo tale che essi non sono più due chiamati distinti l'uno dall'altro, ma sono "due in una chiamata sola".

Simili legami possono possedere la stessa necessità e urgenza della chiamata stessa, e può valere per essi ciò che sta scritto del legame naturale ad opera di Dio: "Non separi l'uomo ciò che Dio ha unito" ( Mt 19,6 ).

Modello di tale conduzione comune, corrispondente al sacramento della carne a livello dei consigli e dei voti, rimane il legame, disposto e per così dire benedetto dal Signore, di Maria e Giovanni.

Questo gioco d'assieme fra gli elementi soggettivi e quelli oggettivi della chiamata è stato però finora descritto solo nell'ambito propriamente soprannaturale, ecclesiale.

Poiché però si tratta di una continua mediazione della voce di Dio attraverso i mezzi della creaturalità, devono ora esser presi in considerazione anche i fattori mondani.

Di essi fa parte tutto quello che, nel soggetto, ne costituisce la natura: il suo essere spirituale, volontà, intelletto e indole, carattere, talenti e inclinazioni, tutto ciò che è connesso coi substrati corporali, sanità, energie fisiche e capacità, subconscio, elementi ereditari latenti o appariscenti ecc. Dal lato og-gettivo sopraggiunge alla Chiesa tutto l'ambiente naturale, i molteplici rapporti della famiglia, le richieste dello Stato, tutta la costellazione storica dell'epoca coi compiti particolari che essa pone ai contemporanei, ecc.

Tutti questi momenti possono essere mezzi attraverso i quali la chiamata di Dio si fa comprensibile; tutti quanti possono - forse devono - venir presi in considerazione nell'esaminazione di una chiamata, nella scelta di una vocazione.

Tutti possono contribuire più o meno ad arrotondare la somma, la cui totalità esprime l'unità del volere di Dio.

Questo volere può ora incarnarsi nei mezzi mondani in diversa specie.

La sua divinità può brillare così chiara e "immediata" attraverso il tramite mondano, che esso supera in splendore tutto ciò che è nel mondo e lo fa scivolare in disparte per manifestarsi inequivocabilmente.

Il chiamato viene colpito da tale evidenza, cosicché non gli passa affatto per la testa di serbare dei dubbi o di effettuare un'esaminazione adesso oramai superflua.

Egli ha udito e compreso, gli rimane soltanto da obbedire.

Può anche essere però che la chiamata soprannaturale, che c'è sempre, si rivesta di più o meno spessi e cangianti veli, parli attraverso di essi, e debba venir letta, con accurata ponderazione della loro portata religiosa, da diverse componenti mondane.

Il passaggio dalla prima forma di chiamata psicologicamente immediata alla seconda, comunicata ( non solo quanto all'essere, ma anche quanto alla coscienza ) attraverso gli ordinamenti mondani, può essere un passaggio graduale.

Di questo tiene conto Ignazio, allorché nella sua dottrina dei "Tre tempi nei quali può esser compiuta una giusta e buona scelta" inserisce un secondo tempo che costituisce il passaggio tra il primo e il terzo.

"Il primo tempo è quando Dio nostro Signore muove e attrae la volontà in modo che, senza dubitare ne poter dubitare, l'anima devota segue quello che le è mostrato, come fecero S. Paolo e S. Matteo nel seguire Cristo nostro Signore.

Il secondo, quando l'anima acquista sufficiente chiarezza e conoscenza per l'esperienza di consolazioni e desolazioni, e per l'esperienza del discernimento dei vari spiriti.

Il terzo tempo è tranquillo, ( … ) quando l'anima non è agitata da vari spiriti e usa liberamente e tranquillamente delle sue facoltà naturali.

Se l'elezione non si compie nel primo o nel secondo tempo, allora [ deve venir intrapresa ] nel terzo tempo" ( Eserc. Nr 175-178 ).

Nel primo tempo il volere di Dio si manifesta così elementarmente che riflessione e dubbio non sono assolutamente possibili.

Nel secondo esso preme, più rapidamente o più lentamente, come il sole attraverso la nebbia, come il risultato maturato da esperienze interiori, disposizioni di spirito, visioni, suggerimenti, certezze.

La sfera in cui in questo secondo tempo si svolge la chiarificazione è quella del "discernimento degli spiriti", la sfera cioè in cui le forze personali e soprannaturali del bene e del male si manifestano nelle forze naturali dell'anima, poiché in effetti fede, speranza e carità anche come "virtù infuse" rimangono atti personali, e quindi la grazia soprannaturale non può non rispecchiarsi e ripercuotersi nella vita della coscienza.

La sfera del "discernimento degli spiriti", che Ignazio ricollegandosi alla tradizione ecclesiale tratta dettagliatamente nelle sue regole per il discernimento ( Eserc. Nr 313-336 ), sta così nel soggetto al confine fra natura e grazia: nella sfera dove la luce della grazia, senza ancora essere mistica vera e propria, brilla attraverso i fenomeni della coscienza nella normale vita di coscienza del cristiano, e dove la vita della sua anima si lascia distinguere anche a livello di coscienza da ogni coscienza puramente naturale.

In questa fluidità di passaggi si irradia attraverso le forze naturali dello spirito la personale chiamata divina per grazia; soprattutto ciò che viene chiamato "coscienza" naturale diventa il giudizio della ragione su ciò che nel caso presente dev'essere fatto, restando in ascolto della personale voce e conduzione dello Spirito Santo.

Ma come questo "secondo tempo" nella sua frontiera superiore può passare senza soluzione di continuità nella raggiante evidenza del "primo tempo", così nella sua frontiera interiore esso trapassa senza soluzione di continuità nella velatezza del "terzo tempo", dove il carattere indiretto della chiamata è divenuto tale anche a livello psicologico.

Il chiamato sa adesso che c'è una chiamata di Dio; bisogna però capirla dai dati naturali.

Mentre nel primo caso la luce pura della certezza si presenta davanti agli occhi come un bianco abbagliante, nel secondo essa si riunisce da sé a poco a poco dallo spettro scomposto fino a formare un semplice bianco.

Nel terzo caso stanno dapprima davanti agli occhi di colui che guarda solo i colori isolati del prisma, ed egli deve unirli con la propria azione fino a che non risulti ugualmente la semplicità del bianco.

Sarà bene considerare la velatezza della chiamata, che esige un più intenso impegno dell'attività della ragione nel senso del "terzo tempo", non come ( o perlomeno non necessariamente come ) un indebolimento della chiamata, come sembra fare Franz Hùrth ( loc. cif., pp. 98-99 ).

Raus ( loc. cif., p. 32 ) rende il pensiero di S. Alfonso con le seguenti parole: " Volere entrare in un ordine religioso presuppone una scelta, un'elezione; questa ponderata e sincera scelta dello stato di perfezione spirituale a servizio di Dio può però essere solo il risultato di una grazia che proviene dall'alto, di un aiuto divino, di un invito o di un'azione interiore di Cristo sulla volontà umana".

Hùrth vorrebbe interpretare il senso di questo passo in questo modo, che "se qualcuno ha l'onesta convinzione di avere le predisposizioni e i doni necessari per la vocazione religiosa o sacerdotale ( … ) e se egli si decide allora con retta intenzione per questa vocazione, ( … ) il semplice fatto di una simile considerazione e di una tale decisione [ è ] il segno di tutta una mozione interiore, di una vocatione divina; e questo anche qualora alla soggettiva coscienza di colui che è in questione manchi ogni ( non semplicemente una straordinaria ) inclinazione spontanea della volontà per una delle vocazioni, e considerazione della vocazione come pure decisione riposino semplicemente su un pacato esercizio dell'intelletto e su motivi puramente obiettivi e vengano compiute con la chiara consapevolezza che ci si potrebbe decidere altrettanto bene e con altrettanti motivi.

L'apparente scomposizione della chiamata di Dio nelle diverse sfaccettature che gli aspetti naturali mostrano, non può mai indurre a credere che la volontà di Dio non sia una o che non sia trovabile nella sua unità.

Ignazio indica i mezzi e le vie per arrivare a udire la semplice chiamata attraverso la molteplicità di questo "terzo tempo".

L'uomo non può in nessun caso considerare le componenti naturali nel loro naturale smembramento, per lasciarsi determinare da esse; egli seguirebbe allora soltanto una qualche inclinazione disordinata.

E risulta disordinato tutto ciò che fa apparire un motivo parziale o una decisione parziale già come espressione della totale volontà di Dio.

Colui che è in atto di vagliare deve quindi dapprima guardare tutti gli aspetti naturali come pura trasparenza e semplice strumento di espressione del volere di Dio, deve prendere distanza da ciò, in modo da non lasciarsi determinare da essi, se non in quanto sono manifestazione della chiamata di Dio.

Questa posizione Ignazio la chiama "indifferenza".

Essa è soltanto espressione della volontà di tendere l'orecchio, attraverso tutti i motivi e le "chiamate" naturali, verso l'unica volontà di Dio discendente dall'alto come dono di grazia.

"La prima regola è che quell'amore che mi muove a scegliere una determinata cosa discenda dall'alto, dall'amore di Dio, in modo che colui che sceglie senta prima in sé che quell'amore più o meno intenso che ha per la cosa che elegge, è unicamente per il suo Creatore e Signore" ( Nr 184 ).

Una volta conseguita questa relativizzazione di tutti i punti di vista e le inclinazioni naturali e mondane e scelto l'unico punto assoluto nella pura volontà e chiamata di Dio, che è da cercare, allora non c'è più alcun pericolo che la scelta, anche se avviene con le energie apparentemente puramente naturali della ragione e della volontà, si lasci guidare per un altro stato di vita".

Ma questa interpretazione del "terzo tempo" sembra però di fatto inserita troppo - o troppo poco - al suo interno.

Raus ha descritto ( con ragione ) l'elezione interiore come uno stato di fatto essenzialmente soprannaturale e come tale ha cercato di distinguerlo accuratamente da "sentimenti" ed "entusiasmi" naturali.

Essa è un'esperienza della fede, le cui leggi possono e devono andare al di là delle leggi della coscienza puramente naturale, senza essere per questo già esperienze mistiche.

E se Ignazio anche per il "terzo tempo", che egli chiama tranquillo, non accetta alcuna consapevolezza attuale attraverso i diversi spiriti ( Nr. 177 ), la "riflessione raziocinante" assume tuttavia subito anche per lui di nuovo la forma di un "avvertire" ( Spuren ), che presupposta l'indifferenza decide la scelta nel senso della maggior gloria di Dio ( Nr. 179, 184 ).

L'apparente "razionalità" del terzo tempo non giustifica ancora la supposizione che la scelta di Dio che viene compiuta durante questo tempo non si distingua intimamente dalla "abituale" conduzione della Grazia relativa ad ogni uomo da qualcosa d'altro che non dall'atto di scelta di Dio stesso.

Le "incarnazioni" di questa volontà nelle situazioni mondane soggettive e oggettive non diventano obiezione alcuna contro la sua "purezza e limpidezza" (Nr 172 ).

Adesso sarà permesso "osservare da quale parte la ragione inclini di più" e così pure "deliberare secondo la maggiore mozione della ragione, e non secondo alcuna mozione sentimentale" ( Nr 182 ).

La "ragione", che qui senza influssi della "sensibilità" compie la scelta, è ( in quanto indifferente alla maniera cristiana, non stoica! ), nonostante la carenza di suggerimenti percepibili coi sensi, "spirito che si lascia guidare dallo Spirito di Dio" ( Rm 8,14 ).

La sensibilità che fa resistenza a questa ragione, sebbene essa sembri essere la sensibilità puramente psicologica, è invece in realtà "carne, che porta alla morte ed è ostile a Dio" ( Rm 8,6-7 ).

Così infatti la scelta apparentemente naturale si traspone immediatamente nell'elezione divina: "Fatta tale elezione o deliberazione, chi l'ha fatta deve andare con molta diligenza a pregare davanti a Dio nostro Signore, ed offrirgli questa elezione affinchè la sua divina Maestà voglia riceverla e confermarla, se è di suo maggior servizio e lode" ( Eserc. Nr 183 ).

La più o meno profonda velazione della chiamata all'interno dei veli delle componenti mondane non è così in nessun caso un allontanarsi, un divenir flebile o non chiaro, una dispersione che il chiamato non potrebbe più raccogliere di nuovo in unità.

Questa velazione è piuttosto la condizione normale della chiamata nel mondo, anche nel mondo cristiano, e la prima e seconda forma dell'esser chiamati rimangono un'eccezione.

Per percepire chiaramente la chiamata di Dio nella quotidianità del mondo non si richiede niente di più che il puro, semplice atteggiamento della fede: "Per fede Abramo ubbidì alla chiamata di Dio" ( Eb 11,8 ).

"Ad essi [ agli Ebrei nel deserto ] non giovò per nulla l'avere udito la Parola, poiché questa non si unì in essi alla fede" ( Eb 4,2 ).

Ma la fede è "fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono" ( Eb 11,1 ).

È la possibilità di far diventare ciò che è visibile nel mondo trasparente alla realtà divina, di percepire nella voce spesso troppo forte delle situazioni mondane la voce o l'eloquente tacere di Dio.

La fede è dunque movimento, non è una quieta staticità.

Essa preme attraverso l'ambiente problematico e problematizzante per arrivare a interrogare la sempre più grande volontà di Dio che giace in esso e al di sopra di esso: "Eccomi, mi hai chiamato" ( 1 Sam 3,8 ).

"Cosa vuoi che io faccia?" ( At 22,10 ).

Essa non si accontenta di quello che corrisponde alle inclinazioni dell'uomo sensibile, essa non ha pace finché non sa cosa Dio vuole, anche se questa volontà corre esattamente in direzione opposta, alle sue inclinazioni.

D'ora in avanti sarà così, che la chiamata al sacerdozio e allo stato dei consigli corrisponde più ( ma non esclusivamente ) al "primo e secondo -tempo", la chiamata comune allo stato laicale piuttosto al terzo tempo.

Se non si verifica la chiamata speciale che colpisce l'eletto con immediata evidenza o si intensifica a poco a poco fino a diventare certezza, vengono in luce più fortemente le componenti naturali.

Mentre per la vocazione del prete o di chi vive secondo i consigli queste costituiscono talvolta piuttosto un ostacolo e devono venir scavalcate con coraggio, per il cristiano laico il momento della situazione storica, come pure quello dell'inclinazione e attitudine personale, diventa decisivo per la scelta della sua via.

Se egli non si sente chiamato allo stato sacerdotale o dei consigli, è autorizzato a cercare e trovare la volontà di Dio nelle sue circostanze di vita; la generalità della chiamata lascerà qui alla libertà del singolo un margine maggiore di autoconfigurazione della propria vita.

Non come se la volontà di Dio fosse qui indeterminata e staccata e l'uomo si vedesse così costretto a guardare più a sé e ai suoi desideri personali che a Dio.

È vero invece che Dio lo guida, per così dire, "a briglie più allentate", gli lascia più libera iniziativa all'interno della sequela del Suo volere.

Questa ripartizione degli accenti or ora accennata rimane relativa, poiché può essere ugualmente che la situazione dell'ambiente circostante - ad esempio di una comunità spiritualmente mal curata - o di una nazione o del mondo intero prospetti ad un giovane l'urgenza di un impegno pieno, e in vista di ciò egli si decida per il sacerdozio o per una vita attiva o contemplativa nello stato dei consigli.

Egli perviene a questo risultato nell'idea che tutte le altre forme di impegno per la necessità reale che egli vede sono insufficienti.

Solo la vita intera è giusto buona a sufficienza per saltare con essa nella breccia.

Troppo forte gli eventi gridano aiuto, perché egli tenga conto dei propri desideri e delle proprie comodità.

Essi lo costringono all'indifferenza per se stesso, senza che egli da parte sua vi si sia da lungo tempo preparato.

In guerra o nel caso di una catastrofe può diventare un eroe qualcuno che nella vita quotidiana non lo era; ma il mondo intero può apparire ad un giovane come in una continua situazione di guerra e di catastrofe, ed egli comprende allo stesso tempo che le vie d'uscita offerte nell'ambito del mondo non sono sufficienti per la profondità della necessità.

Qui uno può andare a finire nella scelta di vivere in un convento carmelitano ( o una forma analoga di totale dedizione a Dio ) per offrire il suo impegno ad un livello così profondo che corrisponda a quello della necessità.

Nella assenza di vie d'uscita e di possibilità di rimuovere la necessità, il bisogno umano, diventa udibile la voce di Colui che divinamente patisce ed è abbandonato: "Ero nudo e non mi avete vestito, prigioniero e non mi avete visitato …" ( Mt 25,43 ).

O se non è la contemplazione che si offre alla condivisione del dolore, sarà una azione, presumibilmente non come un immediato precipitarsi senza preparazione in un'impresa di rilievo, ma come un ben meditato prepararsi ( che richiede forse anni ) ad un competente intervento.

A questo punto divengono oggi particolarmente attuali le nuove forme di vocazione nelle "comunità di vita nel mondo".

La chiamata a ciò risuona incondizionatamente dalla situazione mondana, che grida aiuto, ma colui che grida è, attraverso il mondo, il Crocifisso stesso, il quale richiede una risposta corrispondente al radicalismo della croce.

L'intensità e assolutezza di questa chiamata cancella addirittura le distinzioni tra i "tempi di scelta" ignaziani, essa risuona dal "terzo tempo" con la forza del "primo" e conferisce così anche a colui che è in atto di compiere la scelta la forza di superare l'arco di tensione tra vita secondo i consigli ed esistenza mondana, e di perseverare lungo la durata del tempo.

Gli elementi della chiamata si riuniscono immancabilmente per colui che cerca solo la volontà di Dio in una unità.

Chi da ad intendere di non trovare questa unità ha fatto difetto nel cercare, non volendo prendere su di sé la parte della rinuncia, che avrebbe condotto all'unità.

In nessuna chiamata di Dio manca questa parte.

Rinuncia è già un momento interno ad ogni dover scegliere, che indica sempre solo una strada e significa così rinunciare a tutte le altre egualmente possibili.

Essa sarà ancor di più il segno dell'autenticità di ogni strada cristiana, che deve guadagnarsi la fecondità della propria vocazione portando sulle proprie spalle una parte della croce di Cristo.

Rinuncia e sacrificio possono essere il contenuto principale di una vocazione, se a questo prezzo devono venir partecipati grazia, fecondità e persino successo visibile ad innumerevoli altri nella "comunione dei santi".

Una tale vocazione deve essere pronta a rinunciare del tutto o in gran parte a vedere i frutti resi possibili grazie ad essa.

La molteplicità degli elementi in cui la chiamata di Dio può mostrarsi e di fatto quasi sempre si mostra, può anche condurre ad occasionali conflitti di competenza e controversie.

Quale obbligo ha la precedenza?

In quale di due vie apparentemente necessarie sta la volontà di Dio?

La perplessità si dissolve solo se colui che cerca tende nella fede e nella preghiera, passando attraverso tutto ciò che sta in primo piano, verso il raggiungimento della percezione della sommessa voce della volontà paterna.

In un mondo caduto nel peccato originale e sempre nuovamente cadente in peccato nei confronti di Dio i conflitti sono inevitabili.

La redenzione di Dio non aggira questa "forma della carne peccatrice" ( Rm 8,3 ), ma si incarna intenzionalmente in essa.

Anzi la perplessità può persino essere una forma della Passione di Cristo e della notte senza via d'uscita in cui il peccato lo conduce e in cui egli si reca volontariamente.

La sua forma più acuta essa l'ottiene là dove una reale chiamata di grazia da parte di Dio viene incrociata da elementi estranei e impossibilitata alla sequela.

Così una ragazza può avere un'autentica e pressante chiamata alla vita contemplativa, ma circostanze esterne e obblighi le impediscono di seguirla.

Non le rimane nient'altro che tentare l'impossibile all'interno del mondo: adempiere tanto alla chiamata quanto agli obblighi esteriori.

Oppure può esserci un'autentica chiamata al sacerdozio, ma le forze naturali del chiamato non sono sufficienti o vengono giudicate insufficienti dall'ufficio ecclesiastico competente.

Sarebbe affrettato concludere da ciò che la chiamata era solo apparente e che la più profonda volontà di Dio colloca quest'uomo nell'ambito secolare.

Ci sono indubitabilmente autentiche chiamate di Dio che restano inadempibili, e cioè senza colpa di colui che sarebbe stato chiamato.

La chiamata come totalità immediata sembra qui non essere più identica con la chiamata come somma delle sue parti e dei suoi elementi, e nessuno dei due aspetti è ultimamente riducibile all'altro.

La chiamata stessa acquista, entrando nella "forma della carne peccatrice", la forma dei legni incrociati della croce.

Diventa chiamata alla croce, ed essa stessa chiamata crocifissa e sofferente.

Che essa abbia questa forma non è necessariamente colpa, come abbiamo detto, di colui che è stato così chiamato; certo però vi è alla base una colpa estranea, collettiva, una colpa anonima o anche determinata, che può essere dimostrata.

Le vie di Dio nel mondo sono non solamente intrecciate e oscure, esse rimangono spesso anche incomprensibili perché il Padre non ha avuto timore di condurre il Figlio nell'incomprensibilità della separazione da Lui, anzi nella situazione senza via d'uscita della morte, e precisamente di una morte che oscura tutto, senza che si possa intravvedere un'uscita.

E tuttavia in una maniera per noi inafferrabile la missione del Padre, in questo spezzarsi, rimane salva.

Anzi, proprio attraverso un simile spezzarsi essa viene guarita in eterno; il Padre ha il potere di lasciare che la chiamata si sfracelli nel buio degli inferi e di creare una via d'uscita da ciò che era senza via d'uscita: "Tu conduci nel profondo degli inferi e fai di nuovo risalire" ( Dt 32,39; 1 Sam 2,6; Tb 13,2 ).

"Infatti non li guarì ne un'erba ne un impiastro, ma la tua parola, o Signore, la quale tutto risana.

Tu infatti hai potere sulla vita e sulla morte; conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire" ( Sap 16,12-13 ).

Dalla figura spezzata e crocifissa di una chiamata non si può dunque tirare la conseguenza che questa non sia, considerata a partire da Dio, una chiamata reale ed unitaria.

Questa unità viene fatta passare attraverso la forma della croce, per partecipare più profondamente in maniera incalcolabile alla totalità ( che risiede indenne nel Padre ) della chiamata di Cristo.

Possa anche una tale via di missione andare a finire apparentemente fra tutte le ruote da macina del mondo, in un "al di fuori" da ogni normale idea di stato di vita, possa uno essere costretto da speciali disposizioni, anzi intralci, a stare là dove secondo i concetti umani non c'è alcun punto su cui stare - se solo egli ha cercato con cuore puro di fare la volontà di Dio, il Signore, che venne a stare egli stesso nel completo "al di fuori" da ogni stato, comprenderà questo "non-stato" come una sequela ( Eb 13,11-13 ).

"Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di esser chiamato figlio della figlia del Faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato.

Questo perché stimava l'obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto; guardava infatti alla ricompensa ( … )

Rimase saldo, poiché aveva davanti agli occhi l'invisibile" ( Eb 11,24-27 ).

L'unità della chiamata, che essa sia riconoscibile chiaramente o solo visibile per la fede cieca che crede più a Dio che a se stessa, richiede sempre l'unità della risposta.

L'unità della chiamata è l'unica cosa che può dare unità ultima ad una vita umana.

Questa è garantita allorché la risposta dell'uomo è indivisibile e senza riserve, allorché egli ha puntato tutto ( ma realmente tutto! ) sull'unica carta della fede nella chiamata di Dio.

Credere alla chiamata significa rinunciare a voler configurare noi stessi piano, contenuto e svolgimento della nostra vita.

Credere alla chiamata significa offrire e sacrificare tutto il proprio io coi suoi desideri e le sue aspirazioni, all'interno di una missione mai calcolabile con lo sguardo.

Credere vieta ogni assicurazione nei confronti della chiamata, per il caso che questa venisse meno e l'uomo si trovasse così a dipendere dalla sua propria previdenza.

Credere significa creare un vuoto nel centro più intimo di sé e conservarlo per la parola di Dio, che deve dominare in noi e configurare la via.

"Nella fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome.

Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti ( … )

Per fede attraversarono il Mar Rosso come fosse terra asciutta" ( Eb 11,17ss.29 ).

Infatti non appena "non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me, e la mia vita attuale nella carne è una vita nella fede al Figlio di Dio" ( Gal 2,20 ), "tutto posso in Colui che mi da forza" ( Fil 4,13 ).

Si tratta di uno scambio, che deve concernere non solo la superficie, ma il nucleo stesso dell'essere: una sostituzione del proprio spirito, che viene posto nelle mani del Padre, con lo Spirito di Dio, che d'ora in avanti deve subentrare al posto della propria autodeterminazione.

Con queste parole Ignazio conclude le sue considerazioni circa la scelta: "Pensi infatti ciascuno che in tutte le cose spirituali tanto progredirà, quanto si staccherà dal suo amor proprio, dalla sua volontà e dal suo interesse" ( Eserc. Nr 189 ) e da a questo scambio ( Nr 231 ) il nome di amore: "Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto e tutta la mia volontà, tutto ciò che ho e possiedo.

Tutto è tuo, disponi secondo la tua volontà.

Dammi il tuo amore e la tua grazia: questo mi basta" ( Nr 234 ).

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