Summa Teologica - I |
23 - E per quanto l'ordine naturale possa illuminarci su Dio, l'intelletto nostro, il quale ha coscienza del suo punto di partenza e del suo proprio oggetto, sa perfettamente che non ci porterà se non alla soglia, per così dire, della intima essenza di Dio.
Dio trascende ogni essere creato e ogni nostra cognizione.
I concetti che possiamo avere di lui e i nomi con cui esprimiamo tali concetti, desunti dal creato, sono concetti e nomi che convengono a Dio analogamente, non univocamente, sebbene non equivocamente ( q. 13, aa. 1-3 ).
Dalla equivocità nascerebbe l'impossibilità totale di conoscere Dio ( agnosticismo ); dalla univocità - intendendo con questo termine una somiglianza sostanziale delle realtà significate - nascerebbe una panteistica confusione dell'essere increato con l'ente creato; dall'analogia risulta una possibilità reale di conoscerlo, ma in modo imperfetto.
Tali nostri concetti ce lo significano in modo proprio e non puramente metaforico o simbolico; ma per poterli appropriare esclusivamente a lui, dobbiamo affrettarci a includere in essi, oltre l'elemento positivo che contengono, anche un elemento negativo, escludente i limiti e le imperfezioni, con cui la realtà espressa dai concetti viene attuata nelle creature.
In forza del principio di causalità noi siamo perfettamente autorizzati ad attribuire a Dio tutta la perfezione che è negli effetti; ma poiché Dio è causa libera, agente per intelletto e volontà, analoga agli effetti e non univoca ad essi, trascendente cioè la specie e il genere degli effetti ( non come il padre è causa del figlio, ma come l'ingegnere è causa della macchina ), per questa ragione al concetto di Dio, desunto dai rapporti reali ch le cose hanno con lui, dobbiamo aggiungere la differenza del suo essere da quello delle cose.
E questa differenza, che è l'elemento più importante, non è per noi che una negazione.
Dobbiamo accontentarci di dire che la sua perfezione non è essenzialmente quella delle cose, ma soltanto simile e proporzionale; in sé è infinitamente superiore, trascendente, e sostanzialmente a noi ignota ( q. 12, aa. 2, 12 ).
24 - Ma la nostra cognizione di Dio, sebbene imperfetta, è vera e preziosissima.
La dottrina dell'analogia degli enti, che si estende a tutto il campo dell'essere, non escluso Dio che è il « Sommo Analogato » dell'essere e delle perfezioni dell'essere, è fondata, nel sistema di S. Tommaso, ben più saldamente che nel sistema di Aristotele.
Perché S. Tommaso beneficia della preziosa dottrina della creazione, ignorata o non considerata da Aristotele, secondo la quale ogni ente deriva, da Dio; il molteplice, per quanto vario ed esteso, deriva dall'Uno e necessariamente porta nel suo seno la immagine o il vestigio dell' Uno: dell' Uno com'è in se stesso, nella sua natura intima, la quale non può non essere in qualche modo simile ai suoi effetti, poiché causare è rendere altri partecipi del proprio essere, anche se questa partecipazione, ai limiti del creato, non sia più che un'ombra ( I, q. 44; q. 48, a. 6; q. 93 ).
Pertanto nella nostra conoscenza di Dio la via remotionis et negationis, deve integrare le vie causalitatis ad excellentrae perché mette in più chiara evidenza la radicale distinzione di Dio da ogni cosa creata, togliendoci la tentazione di confonderlo con l'essere vago e astratto che si trova, come realtà universalissima, nella mente, quando fonde in concetti semplici le differenze delle cose, o le considera come enti.
Pensatori valenti, antichi e moderni, hanno fatto questa deplorevole confusione.
Per questo S. Tommaso insiste su questo aspetto negativo della nostra conoscenza di Dio: « Di lui - egli scrive - sappiamo piuttosto ciò che non è, anziché ciò che è » ( q. 3, prol. ); e mai così bene - egli nota - noi pensiamo di Dio, come quando lo distinguiamo da tutte lo cose create, negando energicamente che Egli sia qualcosa di identico ad esse.
Così il pensiero di S. Tommaso armonizza profondamente, nella sua metafisica evidenza, con quanto definisce il Concilio Lateranense IV: « Tra Dio e la creatura non si può notare una somiglianza tanto grande, senza notare, insieme, una dissomiglianza ancora più grande » ( cfr. DENZ., 132 ).
S. Tommaso rigetta entrambi gli opposti errori dell'agnosticismo e dell'antropomorfismo ma se potesse avere una preferenza tra due errori, sarebbe certo per l'agnosticismo, tanta è la sua preoccupazione di non materializzare l'essere divino, per sé sussistente ( q. 13, a. 5. ).
Per cui l'Angelico ritiene « più alta e più sicura » la via negationis, per arrivare alla cognizione propria di Dio, finché noi siamo in terra.
Così infatti scrive nella ( 3 Cont. Gent., c. 39: « Oltre la conoscenza di cui si è parlato, ve n'è un'altra più alta, che si ha di Dio per mezzo di dimostrazione, con la quale ci avviciniamo meglio alla cognizione propria di lui.
Infatti mediante la dimostrazione si rimuovono da lui molte cose, per cui riusciamo ad intendono distinto dagli altri.
Con la dimostrazione si fa chiaro come Dio sia immobile, eterno, incorporeo, semplice, del tutto unico, e dotato di simili proprietà che già abbiamo veduto.
Ora si giunge alla cognizione proprio di una cosa non solo per la via delle affermazioni, ma anche per quella delle negazioni; poiché se è cosa propria dell'uomo essere animale ragionevole, così è proprietà di lui ancora non essere inanimato, né irragionevole; ma questa è la differenza fra i due modi di conoscenza, che avuta la conoscenza propria di una cosa mediante le affermazioni si sa che cosa sia, [ positivamente ] la cosa, e come sia distinta dalle altre; invece avendo la conoscenza propria della cosa mediante le negazioni ) sì sa come sia distinta dalle altre, ma ci resta sconosciuto quale è in se stessa.
Tale è la cognizione propria di Dio che acquistiamo con le dimostrazioni ».
25 - Questa teologia negativa si distingue però radicalmente da quella dei neoplatonici, i quali insegnavano l'incapacità assoluta della mente umana a determinare qualsiasi cosa circa Dio; e da quella, affine e peggiore, del movimento teologico eterodosso capitanato da Barth, ispirato alla concezione pessimistica di un decadimento irrimediabile della ragion umana per la colpa d'origine, per cui Dio e i misteri divini in nessun modo sarebbero esprimibili in concetti umani.
Infatti la teologia negativa di S. Tommaso ci notifica qualche cosa di ben prezioso circa Dio, e cioè la sua distinzione o separazione netta dalle cose.
E così viene perfezionata l'imperfetta cognizione positiva che dì lui possiamo avere per la via della causalità, per la quale lo determiniamo mediante concetti che sono analogicamente comuni a Dio e alle creature.
L'elemento dissomiglianza, che è incluso nei concetti analogici, non potendo noi determinano positivamente in sé, lo determiniamo negativamente, in rapporto sempre alle creature, col vantaggio prezioso di evitare lo scoglio panteistico e di conservare Dio in tutta la sua trascendenza senza tuttavia cadere nell'agnosticismo.
Da notare infine che, pur nell'ambito della fede cattolica, altri teologi sono meno energici nel rilevare la distinzione dei due ordini di conoscenza: ordine increato essenzialmente divino e in sé a noi inconoscibile coi mezzi naturali, e ordine creato proporzionato alla nostra facoltà intellettiva.
Infatti l'ente creato è concepito da alcuni piuttosto univocamente all'ente increato ( Scoto ); oppure l'analogia è definita più per l'elemento di somiglianza ( Suarez ) che per l'elemento di dissomiglianza, come invece fa abitualmente e nei rapporti tra l'ente creato e Dio in modo speciale, S. Tommaso.
26 - Concludiamo questo sguardo sulle grandi linee della speculazione tomista nel Trattato di Dio Uno, rilevandone la vitalità perenne.
Nulla di più fondato, di più completo, di più armonico è stato finora, scritto che possa sostituire questo trattato.
La speculazione teologica posteriore e contemporanea ha recato molti elementi preziosissimi, specialmente di teologia positiva, alla conoscenza migliore della verità rivelata; ma continua a considerare l'opera dell'Aquinate « quanto al metodo, alla dottrina, e ai principi » ( C. I. C., I 366, 2 ) insostituibile; e vi attinge continuamente ispirazione e norma.
La ragione di questa vitalità va ricercata nelle posizioni salde, da cui parte S. Tommaso, e su cui fonda la sua opera.
Strumento della sua penetrazione ed enucleazione del dogma è la filosofia dell'essere, la quale, in armonia col senso comune ( inteso come istinto naturale incoercibile della ragione, comune a tutti gli uomini, ad affermare le verità primordiali ) si muove realisticamente e scientificamente sul solido terreno, che è quello implicitamente indicato dalla Rivelazione stessa.
A questa filosofia bisogna finalmente che la mente umana faccia ritorno dopo gli smarrimenti romantici per vie nuove, le quali, per quanto appaiano seducenti per la drammaticità dell' interesse che suscitano nei primi momenti, conducono pur sempre lontano dalla realtà e dalla vita.
La mente non può appagarsi di filosofie distruggitrici delle certezze fondamentali; e soprattutto per mezzo loro non le è possibile intendere, pur nei limiti delle sue capacità, la Parola di Dio; la quale suppone il retto esercizio della ragione naturale e una filosofia immune da errori.
Con una filosofia errata non si costruisce una buona teologia, e conseguentemente si altera la fede, con cui la teologia è in stretta dipendenza.
La superiorità della teologia di S. Tommaso, pensiamo che riposi proprio su questo intrinseco carattere, oltre il genio indiscutibile dell'Autore.
Esperimenti teologici recenti, fatti in antagonismo ai principi tomisti e finiti con la condanna o la disapprovazione della Chiesa, sono molto significativi.
« Allontanarsi dall'Aquinate, specialmente in metafisica non è senza grave danno, » ammoniva Pio X nell'Enc. « Pascendi », e Pio XI richiamava questo ammonimento nell'Enc. « Studiorum Ducem ».
E ciò non perché S. Tommaso sia ritenuto nella Chiesa di Dio una specie di nume o di feticcio; ma perché allontanarsi sostanzialmente dalla sua metafisica - a parte la bardatura storica medioevale sotto cui si presenta - implica abbandonare l'aderenza obiettiva alla visione dell'essere, che fu più chiara e più profonda nella sua grande intelligenza: significa rompere l'armonia tra i due ordini di verità che s'importano e s'illuminano a vicenda - pur essendo essenzialmente distinti - perché derivano, benché in modo diverso, dalla stessa divina sorgente.
Donde segue, non illusorio, ma reale, il pericolo di mancare di fedeltà all'essere, che solo può condurci a Dio.
P. MARCOLINO DAFFARA, O. P.
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